NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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giovedì 30 giugno 2022

Una piccola correzione.

Aggiungo una piccola correzione  al post precedente (L’ingordigia deformante).

Mi avvalgo di Dante:

 “Giusti son due, e non vi sono intesi:

superbia, invidia e avarizia sono

le tre faville c’hanno i cuori accesi” (Inferno, VI, 73-75)

Mi sono venuti in mente questi versi poco fa mentre pedalavo la bici

 

E anche questi:

“Ché le città d’Italia tutte piene

son di tiranni, e un Marcel diventa

ogni villan che parteggiando viene” (Purgatorio, VI., 124-126)

Identifico arbitrariamente questo Marcello con il conformista del film di Bernardo  Bertolucci, Marcello Clerici che parteggiava per il fascismo poi, caduto Mussolini, denunciava altri fascisti.

Ora si parteggia per la Nato. Poi si vedrà.

 

Adesso però vado al cinema in piazza

Bologna 30 giugno 2022 ore 20, 53

 giovanni ghiselli

L’ingordigia deformante


 

Alcuni personaggi presenti quasi ogni giorno in diverse televisioni avrebbero enormi possibilità educative  nei confronti dei  telespettatori e sarebbero benemeriti davanti alla nazione.

 Invece l’ingordigia di benefici da parte del potere li induce a dire menzogne utili allo stesso potere, funzionali alla sua sopravvivenza.

Mi riferisco a quei pochi che non sono stupidi né incolti. Ma sono servi. Vero è che se muovessero delle critiche non verrebbero più invitati, però darebbero almeno una lezione di verità e dignità, una lezione davvero magistrale.

Bologna 30 giugno 2022 ore 19, 47

giovanni ghiselli

Il mito terza parte. Il mito di Er e l’accordo con il proprio destino.


 

Il mito di Er dell’ultimo libro della Repubblica di Platone ci ricorda che prima di venire sulla terra ci siamo scelti un daivmwn, che è carattere e destino. Eujdaimoniva, felicità è, etimologicamente, l’accordo con il proprio daivmwn. Se non ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo quel daivmwn liberamente scelto, saremo infelici e saremo colpevoli della nostra infelicità: “aijtiva eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~” (Repubblica, 617e), responsabile è chi ha fatto la scelta, il dio non lo è.

È quello del resto che afferma già Omero, attraverso Zeus nel primo canto dell’Odissea: “Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi!/ da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi/per la loro stupida scelleratezza hanno dolori oltre il destino" (vv. 32-34).

 Durante la vita terrena "ci resta accanto un compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del suo Codice dell'anima (…) Lei ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore: il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo"[1].

"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[2].

 

"Nella natura nessuna creatura è più squallida e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e adesso sbircia a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Alla fine non è più lecito attaccare un tal uomo, perché egli è tutto esteriorità senza nocciolo, una veste logora, tinta, rigonfia, uno spettro agghindato, che non può suscitare paura e certo neppure compassione"[3].

"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[4].

"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[5].

Per diventare se stessi è necessario prendere le distanze anche dai genitori: lo insegna il Vangelo di Giovanni nel quale il Cristo dice alla madre: “tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai; - Quid mihi et tibi mulier?” (2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?

T. Mann commenta queste parole, da par suo, nel Doctor Faustus: "In fondo, per una madre, il volo di Icaro del figlio eroe, la sublime avventura virile dell'uomo che non è più sotto la sua protezione è un'aberrazione tanto colpevole quanto incomprensibile, donde ella sente risuonare, con segreta mortificazione, le parole lontane e severe: "Donna, io non ti conosco". E così ella riprende nel suo grembo la povera, cara creatura caduta e annientata, tutto perdonando e pensando che questa avrebbe fatto meglio a non staccarsene mai" (p. 691).

Ancora più esplicito è il Cristo nel Vangelo di Matteo: “non veni pacem mittere sed gladium. Veni enim separare

Hominem adversus patrem suum

Et filiam adversus matrem suam” (10, 34-35), non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a separare l’uomo dal padre suo e la figlia dalla madre.

 

 

L’età dell’oro e le altre

Si ricordi quanto afferma Esiodo dei bambini ritardati, potenzialmente violenti, che vivevano fino a cento anni con la madre: mevga nhvpio~ è l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani rimanevano cento anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano per un tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non potevano astenersi da un’insolente prepotenza reciproca (Opere e giorni, vv 130-135).

 

 Sentiamo Fromm: “Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce  a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"[6].

Diventare quello che si è costituisce una forma particolare di virtù: “esiste una virtù particolare, che altro non è se non la fedeltà assoluta alla nostra natura, al nostro destino e alle nostre inclinazioni”[7]. 

“Ed ecco apparire la cosa più sorprendente del dramma vitale: l’uomo possiede un ampio margine di libertà rispetto al suo io o destino. Può rifiutarsi di realizzarlo, può essere infedele a se stesso. In questo caso la sua vita è priva di autenticità (…) il nostro io è la nostra vocazione. Ebbene, possiamo essere più o meno fedeli alla nostra vocazione e di conseguenza la nostra vita può essere più o meno autentica (…) La cosa di maggior interesse non è la lotta dell’uomo con il mondo, con il suo destino esterno, ma la lotta dell’uomo con la sua vocazione. Come si comporta davanti alla sua inesorabile vocazione? Si attiene radicalmente ad essa, oppure, al contrario, la diserta e riempie la sua esistenza con un surrogato di ciò che sarebbe la sua autentica vita? Forse l’aspetto più tragico della condizione umana è che l’uomo può cercare di soppiantare se stesso, cioè di falsificare la sua vita”[8].

"È forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di morire"[9].

Questo vuole l'imperatore Adriano della Yourcenar:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire (…) Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso. La mia sete di potere agiva come quella dell'amore, che impedisce all'innamorato di mangiare, di dormire, di pensare, di amare perfino, sino a che non siano stati compiuti certi riti"[10].

Bologna 30 giugno 2022 ore 19, 19

giovanni ghiselli

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[1]        James Hillman, Il piacere di pensare. conversazione con Silvia Ronchey, pp. 53-54.

[2]        J. Hillman, Il codice dell'anima, p. 112.

[3]        F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, capitolo primo.

[4]        J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.

[5]        H. Hesse, Klein e Wagner, p. 126.

[6] E. Fromm, La rivoluzione della speranza, p. 80.

[7] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 97.

[8] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 198 e p 199.

[9] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 249.

[10] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, pp. 84-85.

L’apprendistato. Settima parte. Il pianista terribile e miserando.


 

Da Budapest a Hajdúszoboszló.

 

Lanciai la povera, stanca Seicento verso la puszta: il deserto degli Ungheresi, coltivato del resto a girasoli, verdure, grano e foraggio.

Il grano era stato già mietuto. Pensai alla morte di Adone il giovane amato da Venere, ucciso dal cinghiale, e alla rinascita di ogni vita, comprese quella del grano, e la mia[1].

 

I girasoli avevano le teste chinate a terra. Mi sembravano fanciulle timide. Mai quanto me, pensavo quel giorno. Più che timido allora ero goffo, insicuro, incapace di piacere a una donna, a chicchessia.

Ero imbruttito parecchio dagli anni buoni del liceo. Dopo l’ebbrezza dei successi, tre anni oscurati dalle lacrime.  Ero appassito anzi tempo. Ero un fiore di ieri, di ieri l’altro, un’erba falciata e già scolorita. Ero un giovane ferito, anche se non a morte come Adone. Inoltre mi vestivo male e mi lavavo poco, e non per imitare Socrate del quale all’epoca non sapevo che non curava l’igiene poiché non avevo ancora letto Aristofane[2].

 

A metà strada fra Budapest e Debrecen, cominciò a piovere.

Avevo sonno e avevo paura di perdermi nella puszta, o quanto meno di non arrivare in tempo per inserirmi tra gli altri.

Pioveva sui girasoli reclinati, sulle oche bianche, sui maiali neri che animavano quella grande pianura semideserta. Per vincere almeno il sonno, mi fermai in una bettola di un paesino, Abony. Volevo  bere un caffè e domandare se procedevo sulla via giusta   Non ne ero sicuro. Tanto meno prevedevo che in quel locale avrei fatto una sosta trionfale, più volte tornando da Debrecen, ogni volta con una donna diversa, ma sempre bella, fine e innamorata di me.

 La sosta sarebbe diventato un rito celebrativo di trionfi erotici.

Sperarlo quella prima volta sarebbe stata follia.

 

Piuttosto pensavo  che potevo morire. Ebbi un fremito di raccapriccio. Poi però mi feci coraggio ricordando e citando a me stesso, anche con un po’ di ironia, una battuta della Cleopatra di Shakespeare: “the stroke of death is as a lover's pinch [3], il tocco della morte è come il pizzicotto di un amante. Se morivo dunque un’amante spettava pure a me.

 

Quel pomeriggio del ‘66, passate da un pezzo le cinque, avevo soprattutto il terrore di essere tagliato fuori dall’amore e dalla felicità. Troppo grasso, sfiduciato e malvestito. E  con occhiali grossi e spessi. E con diversi denti cariati. Probabilmente mi puzzava anche il fiato. E pioveva. E non era presto. Né mi sbrigavo.

Ma le mie riflessioni dolorose avevano bisogno di indugi per osservare.

 In fondo al locale affumicato c’era un pianista terribile e miserando. Suonava Mezzanotte a Mosca in maniera atroce. “Potrei fare una fine del genere”, pensai. “Girare per taverne, soffrire le cimici, recitare Leopardi: “O natura, natura, perché non rendi poi…” Oppure: “non compagni, non voli, non ti cal d’allegria, schivi gli spassi…oh giorni orrendi in così verde etade!” E via lamentandomi con parole non mie. Mi sentivo come un verme capestato che si torce nella polvere. Oppure mi davo importanza e mi facevo coraggio ricordando alcune parole dell’ Edipo di Sofocle:”  tajma; ga;r kaka;-oujdei;~ oi|ov~ te plh;n ejmou` fevrein brotw`n[4], i miei mali/nessuno dei mortali è capace di sopportarli tranne me" .

Mi aiutai anche con il ricordo di alcuni versi di Eschilo: “:"a volte il terrore (to; deinovn) è un buon ispettore  anche delle anime e deve restarci a fare la guardia: giova giungere alla saggezza sotto l’angoscia-xumfevrei-swfronei`n uJpo; stevnei "(Eumenidi, vv. 517-519). Le verità che dicevo a me stesso, anche le verità infelici che per anni avevo taciuto, mi avrebbero aiutato a cambiare quella strada che portava all’inferno. L’aiuto più grande però venne dalle persone buone. Fulvio in primis

 

 

Comunque sentivo che non ero una persona comune, uno dei tanti e speravo di risalire, una volta toccato il punto più basso dell’abisso.

In effetti questa caterva di mali plh`qo~ kakw`n mi  avrebbe fatto fuggire da tale identità degenerata, deformata e mi avrebbe spinto a diventare uguale a me stesso, a quella persona che ero.

In effetti anche quella melodia sgangherata prediceva un poco di bene: qualche giorno più tardi, a Debrecen, una ragazza russa cantò Mezzanotte a Mosca, poi, parlando, mi diede animo dicendomi parole buone. Cominciai a risalire la china aggrappandomi a quelle prime frasi benevole dopo anni di maledizione.

Mi rimisi in viaggio con l’animo a terra.

A cinquanta chilometri dalla meta riapparve il bellissimo volto del sole. 

Mi rianimai. Sentivo entrarmi nel  petto una forza nuova.

Nonostante la paura di fare tardi, mi fermai per chiedere aiuto al primo fra tutti gli dèi, l’occhio del cielo che tutto vede. 

“Se dopo tanta pioggia, sia pure intermittente, arrivo in un momento di cielo sereno, questo viaggio termina con un auspicio favorevole. Sono pronto a ricominciare. Aiutami Elio. Dio, non permettere che una tua creatura, più buona che cattiva, soffra tanto per tutta la vita.

Stacca da me l’orribile aspetto di suino immondo, rendimi al Gianni che sono!”[5]

Dio mi ascoltò, Dio mi esaudì. Quel viaggio nella terra dei Magiari, la Magyarország,  era voluto dal Fato. Mi avrebbe emancipato e staccato dal mio passato, dai parenti disordinati, dall’ambiente meschino di Pesaro, e mi avrebbe messo in contatto con le cose belle, congeniali  alla mia natura non cattiva: con le lettere della classicità che risana l’angoscia, con il meglio di questo mondo, con le idee iperuranie, e soprattutto con le donne belle e fini che mi erano predestinate. Sì, perché anche quando ero a terra le donne le pensavo al plurale[6].

 Avrei riformato il carattere, cioè l’orientamento mio.

Il carattere buono si orienta sulla stella polare del Bene, quello cattivo vede e ricorda solo il male. D’altra parte un carattere buono è una cara esca[7] che attira i buoni e pure i cattivi.

Basta non lasciarsi prendere all’amo.

Un carattere cattivo, prepotente e ingiurioso attira e cattura i deboli, come una calamita o una rete dalle maglie malvage.

“O primo fra tutti gli dèi” ripresi a pregare  “, tu ora, dopo la pioggia, mi appari fulgente e benedici il mio ingresso in questo nuovo mondo. Significhi che vuoi aiutarmi”.

Pensavo al dio Sole come a una donna bella e fine, una mamma che mi avrebbe fatto incontrare le femmine davvero umane che mi spettavano e mi aspettavano.

Risalii nell’automobile. Il sole calava nella puszta.

Non si vedevano uomini né alberi, ma girasoli dalle teste un poco risollevate, almeno così mi sembrò, gambi di spighe di grano,

pannocchie di granoturco che spargevano un colore caldo e vitale,  

poi foraggio, verdure, pozzi strani, muniti di antenne lunghissime e scenografiche assai, oche e maiali muniti di candide zanne.

 Nel cielo volavano grandi uccelli bianchi dalle ampie ali,  cicogne dal becco crepitante.

Pesaro 30 giugno 2022  ore 18, 54

giovanni ghiselli

 

 



[1] Nell’estate del 362 Giuliano Augusto si affrettava verso Antiochia orientis apicem pulchrum, culmine bello dell’oriente. In quei giorni si celebravano gli Adonēa, secondo l’antico rito in onore di questo giovane amato Veneris, apri dente ferali deleto, quod in adulto flore sectarum est indicium frugum ( Ammiano Marcellino, Storie, 22, 9). La Morte di adone è il simbolo delle messi tagliate quando sono mature.

 

[2] Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli uomini del pensatoio di Socrate per economia si è mai fatto  tagliare i capelli o si è unto il corpo o è andato nel bagno a lavarsi:"oujd  j eij" balanei'on h\lqe lousovmeno"" (Nuvole , v. 837). Il Coro degli Uccelli  più specificamente qualifica Socrate come a[louto" (v. 1553), non lavato.

 

[3] Antonio e Cleopatra, V, 2, 294

[4] Edipo re, vv. 1414-1415.

[5] Cfr. Apuleio, Metamorfosi , Depelle quadripedis diram faciem redde me meo Lucio (XI, 2).

[6] Cfr. il personaggio di Mefistofele nel  di Goethe: “Ich sage: Fraun! Denn ein für allemal-Denk ich die Schönen im Plural” (Faust II, 4, Alta montagna), dico donne! poiché una volta per sempre, io le belle le penso al plurale

[7] Ecuba consiglia alla nuora, vedova di Ettore,  di offrire al padrone presente fivlon devlear sw`n trovpwn (Troiane, 700) la cara esca dei tuoi costumi. Andromaca stessa aveva detto che la sua reputazione di donna per bene l’ha resa desiderabile tra gli Achei (v. 657).

 

Il viaggio verso Debrecen. Sesta parte. Budapest


 

 

Arrivai alla frontiera ungherese che c’era il sole. Mi chiesero se avessi una fotografia per il visto. Non l’avevo. Me ne fecero quattro dopo avermi messo seduto davanti a un muro. Me ne lasciarono una. La conservo. Ci vedo la faccia oscura di un ragazzo occhialuto, grasso, foruncoloso. Brutto, anzi imbruttito assai.

Con l’anima piena di piaghe.

 Con un aspetto tanto malconcio, da Giobbe, tutto ulcere, non sarebbe stato facile risalire la china. Dovevo modificarlo. Rimpastarmi, come diceva la madre mia benedetta. Ora santa.

 Liberarmi da quel laido groviglio di tormenti, dai ceppi che mi obbligavano e stringevano al suolo rendendomi esclusivamente  tellurico, già quasi sepolto, e violentando la mia natura tendenzialmente eterea. Dovevo evadere almeno con la testa da quel fango di angoscia che mi toglieva la visione della luce del cielo.

 Ci voleva l’ abbronzatura,  l’ornamento del sole che accarezza il mondo e il nostro viso con i suoi raggi come fa Apollo quando tocca le corde della lira con il plettro , poi bisognava riprendere l’altra cosmesi buona: quella dello sport :  corse, bicicletta, nuoto, e digiuni da asceta. Quindi le lenti a contatto per recuperare la significatività degli occhi che avevo grandi ed espressivi dietro quei vetri più adatti ai fondi di due bicchieri che a un volto umano

 Dovevo ritrovare il compiacimento e l’orgoglio di me stesso, la dignità antica che avevo quando studiavo al Mamiani e vincevo tutte le gare. Riprendere a primeggiare dovevo.

Generosamente però, non egoisticamente come prima della caduta.

Tornare all’accordo con la vita, la mia e quella delle persone buone.

Trovarle, riconoscerle, chiedere aiuto.

Dopo il liceo mi ero degradato con il cibo, con la pigrizia e con le lamentele: querimonie plebee, anzi servili.

Poi lo schifo degli altri, aliorum fastidium,  genitivo soggettivo e oggettivo, e le solitudini da anacoreta sordido, non santo.

 

Ripartii consolandomi con il pensiero che in fondo avevo già dato parecchi esami e quasi tutti con ottimi voti. Questo non bastava: anche tanti imbecilli  e ignoranti li prendevano da professori che a loro volta, nella maggior parte dei casi, erano solo dei funzionari della scuola, né la rendevano funzionale all’educazione.

Per farmi coraggio, pensai che il mio sovrappeso era di una ventina di chili, non di trenta: non ero ridicolo, non indicavano a dito la mia pancia. Quand’ero vestito non si notava. Però  non potevo spogliarmi. Dovevo comunque rifarmi: il fondo oramai, il punto più basso, l’infimo mio l’avevo toccato. Se non risalivo, potevo morire laggiù.

La  caduta doveva diventare uno stimolo energico per salire più in alto rispetto al momento nel quale ero caduto in quell’abisso.

 

Arrivai a Budapest verso le due del pomeriggio. Mi fermai un’ora per mangiare. Non avrei dovuto. Non ero abbastanza forte per la risalita. La mia volontà era fiacca e malata.

 Più avanti  avrei trovato la forza di saltare il desinare al tocco o la cena alle 20. Ancora non avevo assimilato il divieto, quel vetitum che sarebbe diventato il primo tabù del mondo occidentale, una volta sospesa la proibizione del sesso.

 

Poi sarebbe arrivata la diffusione del virus dell’AIDS a ripristinare la fobia del sesso. E ora quella del covid che ci ha tolto anche l’abbraccio e perfino la stretta di mano. Queste tre righe si possono atetizzare.

 

Budapest divisa in due dal Danubio, di fatto e anche nel nome, mi sembrò enorme e dispersiva, mentre  è bella e magica non meno di Praga com’era una volta prima che questa si trasformasse in un mercato di bancarelle chiassose.  

Budapest invece è rimasta bella e magica. Ma allora avevo gli occhi offuscati da tante paure. Non trovavo la strada per Debrecen.

Dovetti chiederla  una decina di volte. Finalmente, come il mio fato volle, riuscii a infilarla. Era, è, la Üllői út, la numero 4. La via della salvezza, l’avvio verso la vita nuova.

Seguendola per 220 chilometri si arriva nella città universitaria della mia emancipazione. La terra del riscatto, speravo non senza ragione. Erano passate le quattro. In quel momento prevaleva l’angoscia di non arrivare prima del buio. Il sole non era più tanto alto da rassicurarmi. Calcolai che il tramonto da quelle parti cadeva mezz’ora prima che da noi: entro le otto il dio[1] sarebbe sparito alle mie spalle, entro le nove sarebbe stato buio pesto. Calcolare, conteggiare, riflettere mi è sempre servito a minimizzare l’angoscia, a difendermi dai colpi bassi della fortuna e dalle fregature dei farabutti.

 

30 giugno 2022 ore18, 23

giovanni ghiselli

 

 

 



[1]Lo ministro maggior della natura-che del valor del ciel lo mondo imprenta-e col suo lume il tempo ne misura” (Dante, Paradiso, X, 18-20)

Il viaggio verso Debrecen. Quinta parte


 

Il dormiveglia notturno. I segni mandati dal cielo. Il sistro di Iside?

 

Uscii per mangiare in fretta e tornare presto in camera. Volevo alzarmi la mattina di buonora. Fuori pioveva sempre e faceva freddo. Mentre cenavo, immeritatamente dopo le tante ore passate seduto , pensai che dovevo orientarmi cercando di capire il destino: cogliere e interpretare i segni del cielo e di Dio che, con la sua mente ordinata e magnanima, nulla lascia procedere a caso. E avverte con premonizioni. E’ bene, è necessario  notarle e svelarle. Non sono sempre chiarissime, ci vuole un animo attento e allenato per comprenderle.  Ho sempre fatto caso ai segni premonitori, fin da bambino.

 Ricordai che Ammiano Marcellino commenta positivamente l’ attenzione del suo eroe, Giuliano Augusto, per  gli auspici che si traggono dagli uccelli:  non che i volatili conoscano il futuro, sed volatus avium dirigit deus[1].

I segni del cielo mi avrebbero indicato la strada da seguire con metodo[2]. Exinde quid agi oporteat bonis successibus instruendus[3].

Gli ultimi successi erano gli esami superati con buoni voti. Ma ce ne volevano altri, di altro tipo: quelli con le femmine umane e non avevo nessuna esperienza di questi. 

Alla follia metodica di Amleto non sfugge che c’è una provvidenza  speciale anche nella morte di un passero[4].

Più tardi mi addormentai mentre  pensavo ancora ai segni ricevuti quel giorno.

All’una, fui svegliato da un campanello.

Prima credetti di sognare quel suono, poi mi svegliai.

Mi chiesi se avessi sognato  gli squilli che potevano essere prodotti da un sistro[5] scosso da Iside che voleva svegliarmi  dal sonno e dall’oblio della mia identità, perché  ritrovassi la dignità  antica di studioso curioso che ricordava tutto quanto leggeva e di agonista che vinceva tutte le gare. E recuperassi la forma umana, dopo avere  eliminato il rivestimento porcino.

 No, non avevo sognato Iside che scuoteva il sistro, poiché quegli squilli ripresero: qualcuno suonava davvero e con insistenza. Nessuno andava ad aprire. Vecchie sorde o paurose. Ancella infingarda, se c’era. Io? Non c’entravo, non mi sembrava il caso, poi avevo paura. Continuò per alcuni minuti.

Chi è alla porta, chi è alla porta, chi?[6] Mi domandai .

 Guardie di frontiera che mi inseguivano, oppure ladri o assassini, scomposte menadi ubriache, spettri di orrori, o strane congreghe di “diavoli goffi con bizzarre streghe”[7], o che altro?

  Comunque era un segno . Di sventura?

Ma no, forse era un segno sonoro premonitore di cambiamento in meglio. “Tutto è pieno di dèi, pavnta plhvrh qew'n[8], tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo”[9], volli pensare, forzandomi un poco.

Rimasi sveglio una mezz’ora per interpretare quel segno.

Lo feci in questo modo: “Non addormentarti, non rimanere assopito e stordito nella casa di Pesaro. Non frequentare  quelli che giocano a carte e giocano con la tua infelicità, la deridono

Non è l’ambiente per te. Svegliati, alzati, cerca nuove dimore, esperienze nuove, anche a costo di ferirti.

 Devi imparare a stare ritto senza essere sorretto.

Se resti là, non potrai ritrovare l’identità smarrita che del resto non era la tua già compiuta. Quella andava bene per un adolescente liceale.

 A Debrecen cerca di conoscere delle persone buone e  stimolanti alla crescita, donne soprattutto, le donne belle e fini che devi meritarti:  prova a iniziare una vita nuova e degna di te! Diventa il gianni che sei! ”.

 

Pesaro 30 giugno 2022 ore 17, 55.

 giovanni ghiselli

 

 



[1] Ammiano Marcellino, Historiae, XXI, 1, ma il volo degli uccelli lo dirige  dio.

[2] E’ una tautologia voluta: oJdov" significa “strada”

[3] Quindi saranno I buoni successi a guidarmi (cfr. Ammiano Marcellino , Storie, XXI, 5. Parla Giuliano Augusto

[4] Cfr. Shakespeare,  Hamlet V, 2 there’s a special providence in the fall of a sparrow.

[5] Il sistro secondo Plutarco serve a mettere in fuga Tifone.

To; sei`stron o{ti seivesqai dei` ta;; o[nta kai; mhdevpote pauvesqai fora`~ (De Iside, 376D), il sistro viene scosso perché le cose che sono vanno mosse e non devono mai cessare dal moto, ma essere svegliate e spinte quando dormono. Il sistro può essere paragonato al campanello della messa. Attira l’attenzione dei fedeli e tiene lontano i profani[5].

 

[6] Cfr. Euripide, Baccanti: “tiv~ ojdw` ; tiv~ oJdw/` ;tiv~ ;” (v. 68), chi è per strada?, chi è per strada? Chi?

 

[7] Carducci, Il comune rustico, 10-11.

[8] Talete in Aristotele, Sull'anima, 411a 8.

[9] P. P. Pasolini, Dialoghi definitivi di “Medea”, scena 7. In op. cit., p. 544 e p. 545.