Da Budapest a Hajdúszoboszló.
Lanciai la povera, stanca Seicento verso la puszta: il
deserto degli Ungheresi, coltivato del resto a girasoli, verdure, grano e
foraggio.
Il grano era stato già mietuto. Pensai alla morte di Adone
il giovane amato da Venere, ucciso dal cinghiale, e alla rinascita di ogni
vita, comprese quella del grano, e la mia.
I girasoli avevano le teste chinate a terra. Mi sembravano
fanciulle timide. Mai quanto me, pensavo quel giorno. Più che timido allora ero
goffo, insicuro, incapace di piacere a una donna, a chicchessia.
Ero imbruttito parecchio dagli anni buoni del liceo. Dopo
l’ebbrezza dei successi, tre anni oscurati dalle lacrime. Ero appassito anzi tempo. Ero un fiore di
ieri, di ieri l’altro, un’erba falciata e già scolorita. Ero un giovane ferito,
anche se non a morte come Adone. Inoltre mi vestivo male e mi lavavo poco, e
non per imitare Socrate del quale all’epoca non sapevo che non curava l’igiene
poiché non avevo ancora letto Aristofane.
A metà strada fra Budapest e Debrecen, cominciò a piovere.
Avevo sonno e avevo paura di perdermi nella puszta, o
quanto meno di non arrivare in tempo per inserirmi tra gli altri.
Pioveva sui girasoli reclinati, sulle oche bianche, sui
maiali neri che animavano quella grande pianura semideserta. Per vincere almeno
il sonno, mi fermai in una bettola di un paesino, Abony. Volevo bere un caffè e domandare se procedevo sulla
via giusta Non ne ero sicuro. Tanto
meno prevedevo che in quel locale avrei fatto una sosta trionfale, più volte
tornando da Debrecen, ogni volta con una donna diversa, ma sempre bella, fine e
innamorata di me.
La sosta sarebbe
diventato un rito celebrativo di trionfi erotici.
Sperarlo quella prima volta sarebbe stata follia.
Piuttosto pensavo che potevo morire. Ebbi un fremito di
raccapriccio. Poi però mi feci coraggio ricordando e citando a me stesso, anche
con un po’ di ironia, una battuta della Cleopatra di Shakespeare: “the stroke of
death is as a lover's pinch , il
tocco della morte è come il pizzicotto di un amante. Se morivo dunque un’amante
spettava pure a me.
Quel pomeriggio del ‘66, passate da un pezzo le cinque,
avevo soprattutto il terrore di essere tagliato fuori dall’amore e dalla
felicità. Troppo grasso, sfiduciato e malvestito. E con occhiali grossi e spessi. E con diversi
denti cariati. Probabilmente mi puzzava anche il fiato. E pioveva. E non era
presto. Né mi sbrigavo.
Ma le mie riflessioni dolorose avevano bisogno di indugi
per osservare.
In fondo al locale affumicato c’era
un pianista terribile e miserando. Suonava Mezzanotte
a Mosca in maniera atroce. “Potrei fare una fine del genere”, pensai.
“Girare per taverne, soffrire le cimici, recitare Leopardi: “O natura, natura,
perché non rendi poi…” Oppure: “non compagni, non voli, non ti cal d’allegria,
schivi gli spassi…oh giorni orrendi in così verde etade!” E via lamentandomi
con parole non mie. Mi sentivo come un verme capestato che si torce nella
polvere. Oppure mi davo importanza e mi facevo coraggio ricordando alcune
parole dell’ Edipo di Sofocle:” tajma; ga;r kaka;-oujdei;~
oi|ov~ te plh;n ejmou` fevrein brotw`n”, i miei mali/nessuno dei mortali è
capace di sopportarli tranne me" .
Mi aiutai anche
con il ricordo di alcuni versi di Eschilo: “:"a volte il terrore (to; deinovn) è un buon ispettore anche delle anime e deve restarci a fare la
guardia: giova giungere alla saggezza sotto l’angoscia-xumfevrei-swfronei`n uJpo;
stevnei "(Eumenidi,
vv. 517-519). Le verità che dicevo a me stesso, anche le verità infelici che
per anni avevo taciuto, mi avrebbero aiutato a cambiare quella strada che
portava all’inferno. L’aiuto più grande però venne dalle persone buone. Fulvio
in primis
Comunque sentivo che non ero una persona comune, uno dei
tanti e speravo di risalire, una volta toccato il punto più basso dell’abisso.
In effetti questa caterva di mali plh`qo~ kakw`n mi avrebbe fatto fuggire da tale identità
degenerata, deformata e mi avrebbe spinto a diventare uguale a me stesso, a
quella persona che ero.
In effetti anche quella melodia sgangherata prediceva un
poco di bene: qualche giorno più tardi, a Debrecen, una ragazza russa cantò Mezzanotte a Mosca, poi, parlando, mi
diede animo dicendomi parole buone. Cominciai a risalire la china aggrappandomi
a quelle prime frasi benevole dopo anni di maledizione.
Mi rimisi in viaggio con l’animo a terra.
A cinquanta chilometri dalla meta riapparve il bellissimo
volto del sole.
Mi rianimai. Sentivo entrarmi nel petto una forza nuova.
Nonostante la paura di fare tardi, mi fermai per chiedere
aiuto al primo fra tutti gli dèi, l’occhio del cielo che tutto vede.
“Se dopo tanta pioggia, sia pure intermittente, arrivo in
un momento di cielo sereno, questo viaggio termina con un auspicio favorevole.
Sono pronto a ricominciare. Aiutami Elio. Dio, non permettere che una tua
creatura, più buona che cattiva, soffra tanto per tutta la vita.
Stacca da me l’orribile aspetto di suino immondo, rendimi
al Gianni che sono!”
Dio mi ascoltò, Dio mi esaudì. Quel viaggio nella terra dei
Magiari, la Magyarország, era voluto dal Fato. Mi avrebbe emancipato e
staccato dal mio passato, dai parenti disordinati, dall’ambiente meschino di
Pesaro, e mi avrebbe messo in contatto con le cose belle, congeniali alla mia natura non cattiva: con le lettere
della classicità che risana l’angoscia, con il meglio di questo mondo, con le
idee iperuranie, e soprattutto con le donne belle e fini che mi erano
predestinate. Sì, perché anche quando ero a terra le donne le pensavo al
plurale.
Avrei riformato il
carattere, cioè l’orientamento mio.
Il carattere buono si orienta sulla stella polare del Bene,
quello cattivo vede e ricorda solo il male. D’altra parte un carattere buono è
una cara esca che attira i buoni e pure i
cattivi.
Basta non lasciarsi prendere all’amo.
Un carattere cattivo, prepotente e ingiurioso attira e
cattura i deboli, come una calamita o una rete dalle maglie malvage.
“O primo fra tutti gli dèi” ripresi a pregare “, tu ora, dopo la pioggia, mi appari fulgente
e benedici il mio ingresso in questo nuovo mondo. Significhi che vuoi
aiutarmi”.
Pensavo al dio Sole come a una donna bella e fine, una
mamma che mi avrebbe fatto incontrare le femmine davvero umane che mi
spettavano e mi aspettavano.
Risalii nell’automobile. Il sole calava nella puszta.
Non si vedevano uomini né alberi, ma girasoli dalle teste
un poco risollevate, almeno così mi sembrò, gambi di spighe di grano,
pannocchie di granoturco che spargevano un colore caldo e
vitale,
poi foraggio, verdure, pozzi strani, muniti di antenne
lunghissime e scenografiche assai, oche e maiali muniti di candide zanne.
Nel cielo volavano
grandi uccelli bianchi dalle ampie ali, cicogne dal becco crepitante.
Pesaro 30 giugno 2022 ore 18, 54
giovanni ghiselli
Nell’estate del 362 Giuliano Augusto si affrettava verso Antiochia orientis apicem pulchrum, culmine bello dell’oriente. In quei
giorni si celebravano gli Adonēa, secondo l’antico rito in onore di questo giovane amato Veneris, apri dente ferali deleto,
quod in adulto flore sectarum est indicium frugum ( Ammiano Marcellino, Storie, 22, 9). La Morte di adone è il simbolo
delle messi tagliate quando sono mature.
Aristofane fa dire a Strepsiade che nessuno degli uomini del pensatoio
di Socrate per economia si è mai fatto
tagliare i capelli o si è unto il corpo o è andato nel bagno a
lavarsi:"oujd j eij" balanei'on h\lqe lousovmeno"" (Nuvole , v. 837). Il Coro degli Uccelli più specificamente qualifica Socrate come a[louto" (v. 1553), non lavato.
Ecuba consiglia alla nuora, vedova di Ettore, di offrire al padrone presente fivlon
devlear sw`n trovpwn (Troiane, 700) la cara esca dei tuoi
costumi. Andromaca stessa aveva detto che la sua reputazione di donna per bene
l’ha resa desiderabile tra gli Achei (v. 657).