giovedì 30 giugno 2022

Il viaggio verso Debrecen. Sesta parte. Budapest


 

 

Arrivai alla frontiera ungherese che c’era il sole. Mi chiesero se avessi una fotografia per il visto. Non l’avevo. Me ne fecero quattro dopo avermi messo seduto davanti a un muro. Me ne lasciarono una. La conservo. Ci vedo la faccia oscura di un ragazzo occhialuto, grasso, foruncoloso. Brutto, anzi imbruttito assai.

Con l’anima piena di piaghe.

 Con un aspetto tanto malconcio, da Giobbe, tutto ulcere, non sarebbe stato facile risalire la china. Dovevo modificarlo. Rimpastarmi, come diceva la madre mia benedetta. Ora santa.

 Liberarmi da quel laido groviglio di tormenti, dai ceppi che mi obbligavano e stringevano al suolo rendendomi esclusivamente  tellurico, già quasi sepolto, e violentando la mia natura tendenzialmente eterea. Dovevo evadere almeno con la testa da quel fango di angoscia che mi toglieva la visione della luce del cielo.

 Ci voleva l’ abbronzatura,  l’ornamento del sole che accarezza il mondo e il nostro viso con i suoi raggi come fa Apollo quando tocca le corde della lira con il plettro , poi bisognava riprendere l’altra cosmesi buona: quella dello sport :  corse, bicicletta, nuoto, e digiuni da asceta. Quindi le lenti a contatto per recuperare la significatività degli occhi che avevo grandi ed espressivi dietro quei vetri più adatti ai fondi di due bicchieri che a un volto umano

 Dovevo ritrovare il compiacimento e l’orgoglio di me stesso, la dignità antica che avevo quando studiavo al Mamiani e vincevo tutte le gare. Riprendere a primeggiare dovevo.

Generosamente però, non egoisticamente come prima della caduta.

Tornare all’accordo con la vita, la mia e quella delle persone buone.

Trovarle, riconoscerle, chiedere aiuto.

Dopo il liceo mi ero degradato con il cibo, con la pigrizia e con le lamentele: querimonie plebee, anzi servili.

Poi lo schifo degli altri, aliorum fastidium,  genitivo soggettivo e oggettivo, e le solitudini da anacoreta sordido, non santo.

 

Ripartii consolandomi con il pensiero che in fondo avevo già dato parecchi esami e quasi tutti con ottimi voti. Questo non bastava: anche tanti imbecilli  e ignoranti li prendevano da professori che a loro volta, nella maggior parte dei casi, erano solo dei funzionari della scuola, né la rendevano funzionale all’educazione.

Per farmi coraggio, pensai che il mio sovrappeso era di una ventina di chili, non di trenta: non ero ridicolo, non indicavano a dito la mia pancia. Quand’ero vestito non si notava. Però  non potevo spogliarmi. Dovevo comunque rifarmi: il fondo oramai, il punto più basso, l’infimo mio l’avevo toccato. Se non risalivo, potevo morire laggiù.

La  caduta doveva diventare uno stimolo energico per salire più in alto rispetto al momento nel quale ero caduto in quell’abisso.

 

Arrivai a Budapest verso le due del pomeriggio. Mi fermai un’ora per mangiare. Non avrei dovuto. Non ero abbastanza forte per la risalita. La mia volontà era fiacca e malata.

 Più avanti  avrei trovato la forza di saltare il desinare al tocco o la cena alle 20. Ancora non avevo assimilato il divieto, quel vetitum che sarebbe diventato il primo tabù del mondo occidentale, una volta sospesa la proibizione del sesso.

 

Poi sarebbe arrivata la diffusione del virus dell’AIDS a ripristinare la fobia del sesso. E ora quella del covid che ci ha tolto anche l’abbraccio e perfino la stretta di mano. Queste tre righe si possono atetizzare.

 

Budapest divisa in due dal Danubio, di fatto e anche nel nome, mi sembrò enorme e dispersiva, mentre  è bella e magica non meno di Praga com’era una volta prima che questa si trasformasse in un mercato di bancarelle chiassose.  

Budapest invece è rimasta bella e magica. Ma allora avevo gli occhi offuscati da tante paure. Non trovavo la strada per Debrecen.

Dovetti chiederla  una decina di volte. Finalmente, come il mio fato volle, riuscii a infilarla. Era, è, la Üllői út, la numero 4. La via della salvezza, l’avvio verso la vita nuova.

Seguendola per 220 chilometri si arriva nella città universitaria della mia emancipazione. La terra del riscatto, speravo non senza ragione. Erano passate le quattro. In quel momento prevaleva l’angoscia di non arrivare prima del buio. Il sole non era più tanto alto da rassicurarmi. Calcolai che il tramonto da quelle parti cadeva mezz’ora prima che da noi: entro le otto il dio[1] sarebbe sparito alle mie spalle, entro le nove sarebbe stato buio pesto. Calcolare, conteggiare, riflettere mi è sempre servito a minimizzare l’angoscia, a difendermi dai colpi bassi della fortuna e dalle fregature dei farabutti.

 

30 giugno 2022 ore18, 23

giovanni ghiselli

 

 

 



[1]Lo ministro maggior della natura-che del valor del ciel lo mondo imprenta-e col suo lume il tempo ne misura” (Dante, Paradiso, X, 18-20)

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