Il mito di Er dell’ultimo libro della Repubblica di Platone ci ricorda che prima di venire sulla terra ci siamo scelti un daivmwn, che è carattere e destino. Eujdaimoniva, felicità è, etimologicamente, l’accordo con il proprio daivmwn. Se non ricordiamo, non riconosciamo e non assecondiamo quel daivmwn liberamente scelto, saremo infelici e saremo colpevoli della nostra infelicità: “aijtiva eJlomevnou: qeo;~ ajnaivtio~” (Repubblica, 617e), responsabile è chi ha fatto la scelta, il dio non lo è.
È quello del resto che afferma già Omero, attraverso Zeus nel primo canto dell’Odissea: “Ahimé, come ora davvero i mortali incolpano gli dèi!/ da noi infatti dicono che derivano i mali, ma anzi essi stessi/per la loro stupida scelleratezza hanno dolori oltre il destino" (vv. 32-34).
Durante la vita terrena "ci resta accanto un compagno, una specie di angelo custode o spirito guida: il Daimon, il modello del nostro destino, che in qualche modo ci aiuta e indirizza al compimento di quella scelta che inizialmente proprio noi avevamo fatto, ma che abbiamo dimenticato. Poiché il mito di Er, come lei accennava prima, è alla base del suo Codice dell'anima (…) Lei ha citato uno dei miti sul perché esiste il dolore: il Daimon ci mette di fronte le richieste del destino e noi recalcitriamo"[1].
"Poiché la felicità alla sua antica fonte era eudaimonia, cioè un daimon contento, soltanto un daimon che riceve ciò che gli spetta può trasmettere un effetto di felicità all'anima"[2].
"Nella natura nessuna creatura è più squallida e ripugnante dell'uomo che è sfuggito al suo genio e adesso sbircia a destra e a sinistra, indietro e ovunque. Alla fine non è più lecito attaccare un tal uomo, perché egli è tutto esteriorità senza nocciolo, una veste logora, tinta, rigonfia, uno spettro agghindato, che non può suscitare paura e certo neppure compassione"[3].
"Qui, proprio qui, sta l'origine dell'infelicità…Avvertiamo allora lo squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto. E questa, questa è l'infelicità"[4].
"Molti provavano, per un istante, una penosa tristezza perché tra la loro vita e i loro istinti c'era un tale dissidio, un tal conflitto che la loro vita non era affatto una danza, bensì un faticoso e affannato respirare sotto i pesi: pesi che in fin dei conti essi stessi si erano accollati"[5].
Per diventare se stessi è necessario prendere le distanze anche dai genitori: lo insegna il Vangelo di Giovanni nel quale il Cristo dice alla madre: “tiv ejmoi; kai; soiv, guvnai; - Quid mihi et tibi mulier?” (2, 4), che cosa ho da fare con te, donna?
T. Mann commenta queste parole, da par suo, nel Doctor Faustus: "In fondo, per una madre, il volo di Icaro del figlio eroe, la sublime avventura virile dell'uomo che non è più sotto la sua protezione è un'aberrazione tanto colpevole quanto incomprensibile, donde ella sente risuonare, con segreta mortificazione, le parole lontane e severe: "Donna, io non ti conosco". E così ella riprende nel suo grembo la povera, cara creatura caduta e annientata, tutto perdonando e pensando che questa avrebbe fatto meglio a non staccarsene mai" (p. 691).
Ancora più esplicito è il Cristo nel Vangelo di Matteo: “non veni pacem mittere sed gladium. Veni enim separare
Hominem adversus patrem suum
Et filiam adversus matrem suam” (10, 34-35), non sono venuto a portare pace ma una spada. Sono venuto infatti a separare l’uomo dal padre suo e la figlia dalla madre.
L’età dell’oro e le altre
Si ricordi quanto afferma Esiodo dei bambini ritardati, potenzialmente violenti, che vivevano fino a cento anni con la madre: mevga nhvpio~ è l'attardato bambino pargoleggiante (ajtavllwn) dell’età d’argento: tali tipi umani rimanevano cento anni in casa con la madre solerte, poi, quando ne uscivano, vivevano per un tempo meschino, soffrendo dolori per la loro stupidità: poiché non potevano astenersi da un’insolente prepotenza reciproca (Opere e giorni, vv 130-135).
Sentiamo Fromm: “Rimanendo legato alla natura, alla madre o al padre, l'uomo riesce a sentirsi a suo agio nel mondo, ma, per la sua sicurezza, paga un prezzo altissimo, quello della sottomissione e della dipendenza, nonché il blocco del pieno sviluppo della sua ragione e della sua capacità di amare. Egli resta un fanciullo mentre vorrebbe diventare un adulto"[6].
Diventare quello che si è costituisce una forma particolare di virtù: “esiste una virtù particolare, che altro non è se non la fedeltà assoluta alla nostra natura, al nostro destino e alle nostre inclinazioni”[7].
“Ed ecco apparire la cosa più sorprendente del dramma vitale: l’uomo possiede un ampio margine di libertà rispetto al suo io o destino. Può rifiutarsi di realizzarlo, può essere infedele a se stesso. In questo caso la sua vita è priva di autenticità (…) il nostro io è la nostra vocazione. Ebbene, possiamo essere più o meno fedeli alla nostra vocazione e di conseguenza la nostra vita può essere più o meno autentica (…) La cosa di maggior interesse non è la lotta dell’uomo con il mondo, con il suo destino esterno, ma la lotta dell’uomo con la sua vocazione. Come si comporta davanti alla sua inesorabile vocazione? Si attiene radicalmente ad essa, oppure, al contrario, la diserta e riempie la sua esistenza con un surrogato di ciò che sarebbe la sua autentica vita? Forse l’aspetto più tragico della condizione umana è che l’uomo può cercare di soppiantare se stesso, cioè di falsificare la sua vita”[8].
"È forse questo che si cerca attraverso la vita, null'altro che quello, la più grande sofferenza possibile per diventare se stessi prima di morire"[9].
Questo vuole l'imperatore Adriano della Yourcenar:"Volevo il potere. Lo volevo per imporre i miei piani, per tentare i miei rimedi, per instaurare la pace. Lo volevo soprattutto per essere interamente me stesso, prima di morire (…) Ho compreso che ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte. Quell'ossessione di una vita mancata concentrava i miei pensieri su di un punto, li fissava come un ascesso. La mia sete di potere agiva come quella dell'amore, che impedisce all'innamorato di mangiare, di dormire, di pensare, di amare perfino, sino a che non siano stati compiuti certi riti"[10].
Bologna 30 giugno 2022 ore 19, 19
giovanni ghiselli
p.s
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[1] James Hillman, Il piacere di pensare. conversazione con Silvia Ronchey, pp. 53-54.
[2] J. Hillman, Il codice dell'anima, p. 112.
[3] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore, capitolo primo.
[4] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 42.
[5] H. Hesse, Klein e Wagner, p. 126.
[6] E. Fromm, La rivoluzione della speranza, p. 80.
[7] S. Màrai, La recita di Bolzano, p. 97.
[8] J. Ortega y Gasset, Meditazioni sulla felicità, p. 198 e p 199.
[9] L. F. Céline, Viaggio al termine della notte, p. 249.
[10] M. Yourcenar, Memorie di Adriano, pp. 84-85.
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