La lettera di addio. Lo studio furioso e speranzosissimo. Il metodo comparativo
In aereo pensavo che Päivi, se avesse davvero voluto il mio aiuto, mi avrebbe chiesto di seguirla a Oulu dove invece volle andare senza di me, appoggiandosi al suo ex compagno.
In realtà la mia presenza non serviva più a niente, né aveva alcun senso il mio parere su quanto quasi sicuramente la donna aveva già deciso di fare. Le sue ultime parole d’amore erano del tutto dissonanti dai fatti.
Sono arrivato a diffidare delle persone dall’agire discrepante rispetto al parlare. Ho imparato che nel dubbio, in amore, la risposta è sempre “NO”. Il comportamento di una persona che ama non lascia spazio a sospetti e inquietudini.
La soluzione del dubbio “m’ama, non m’ama” è comunque negativa.
E’ inutile sfogliare le margherite. Il dilemma è fasullo.
Da Scilla e Cariddi ci si salva soltanto con la fuga. Certo è che ora, ed è un vecchio che scrive, rimpiango quella bambina non nata. Adesso, nel giugno del 2022, avrebbe 47 anni e un paio di mesi.
A volte la immagino bella, intelligente e invento dei dialoghi con lei, la figlia mancata, che mi manca. Mi invento l’avverarsi postumo di un sogno che non si è mai realizzato.
Da allora ho sempre cercato una figlia e anche per questo ho trovato, o mi sono fatto trovare, da compagne molto più giovani di me, sempre più giovani.
Compensazione, malattia mentale, mania educativa, perversione? Decidi tu lettore.
Un medesimo fatto può avere significati diversi.
Arrivato in Italia,
aspettavo notizie. Dopo un mese di attesa penosa e angosciosa, una pena
aggravata dal cambiamento di città e da quello di lavoro, le Simplegadi che
potevano schiacciarmi se non mi avessero aiutato le zie Rina e Giulia comprandomi
casa a Bologna, e mio padre mandandomi dei mobili, il venticinque ottobre
dunque, ricevetti una lunga lettera nella quale Päivi diceva di trovarsi sempre
più rinchiusa nella barriera dell’Io, di essere senza fede nelle persone,
siccome non credeva in se stessa, di sentirsi talmente vuota da non volere
frequentare né vedere nessuno. In compenso voleva studiare, per imparare e
sapere di più.
“Qualche volta - scriveva anche - sento la tua mancanza, ma poi ci penso con totale realismo e capisco che tu sei troppo lontano da qui”.
Concludeva la lettera, l’ultima, con queste parole definitive:
“Ora la cosa più importante della mia vita è il lavoro. Io voglio sapere di più. Può darsi che mi inganni quando voglio dimostrare a me stessa che la gente non conta. Spero davvero che nessun altro la pensi così. Spero che tu scriva qualcosa. Ciao.
Päivi.
Da allora all’estate seguente le scrissi una ventina di lettere esortandola a credere nel nostro amore. Non ebbi alcuna risposta.
Io comunque dovevo crederci per coltivare l’identità di studioso che avevo trovato in me grazie all’amore di lei. Studiai tutto l’anno, soprattutto per Päivi, siccome avevo avuto una modesta scuola tecnica, un professionale dove non insegnavo greco né latino e non mi stimolava abbastanza. Volevo sentirmi vicino all’ultima amata, simile a lei. Quando seguitiamo ad amare una donna che ci ha rifiutato, ci comportiamo come le madri o le mogli dei soldati dispersi: sappiamo che non c’è niente da sperare, ma nulla ci vieta di continuare ad attendere.
L’anno seguente ebbi l’incarico di insegnare greco e latino nel liceo classico Rambaldi di Imola e dovetti studiare molto per farmi ascoltare dagli studenti, per prepararli all’esame di maturità: tutti i giorni, dal ritorno a casa dopo la scuola, alle 9 di sera, mi preparavo. Nei giorni di “riposo” sgobbavo sui libri dalle 9 di mattina alle nove di sera con un intervallo di tre ore per nutrirmi e fare un giro in bicicletta poco impegnativo. Dovevo riservare e dedicare gran parte del tempo e delle mie forze allo studio.
Durante i primi mesi gli alunni leggevano il giornale, dopo Natale prendevano appunti. Mi avevano fatto capire che tradurre, snocciolare paradigmi, regole ed eccezioni di morfologia e sintassi, quindi ripetere quanto c’era scritto nel manuale di letteratura non bastava, se volevo essere ascoltato e piacere. Lo volevo con tutte le forze, e raggiunsi lo scopo grazie alle mie capacità, alla mia volontà, ai miei sacrifici. Avevo passato studiando tutti i giorni per tante ore ogni giorno . Avevo dato retta agli allievi più bravi mettendomi nei loro panni con empatia e simpatia.
Nel commento alle parole tradotte dovevo mettere la storia, la filosofia, la comparazione tra i testi, un metodo che all’epoca non era ancora di moda ma agli studenti desiderosi di imparare già piaceva e piaceva anche a me. L’avevo trovato e ammirato in T. S. Eliot.
Mi sentivo autorizzato da questo poeta a seguire tale via e ne ero motivato dagli allievi che me lo avevano chiesto , con garbo e pure non senza fermezza.
Sono ancora grato a quei ragazzi.
Alla fine dell’anno i giovani, più giovani di me di una decina d’anni, mi consideravano con rispetto, mi ascoltavano con attenzione.
Verso la fine di maggio, una sera, guardando il tramonto pieno di voli e di gridi di rondini che volavano intorno contente, girando a gara nel cielo, stremato da quei mesi di studio continuo, ma non senza gioia, gridai: “Dio, ce l’ho fatta!”.
Così amare Päivi per accrescere la mia identità imitando l’immagine che mi ero creato di lei, non era più necessario.
Il mio amore non contraccambiato non aveva più alcuna funzione positiva, poteva solo farmi del male.
Päivi cessava di essere l’Augusta, l’accrescitrice indispensabile.
Rimaneva solo la volontà, anzi la necessità di sapere se avesse abortito, e per questo sarei andato a cercarla l’estate seguente, come vedremo.
Se dovessi risponderle adesso, le scriverei che isolarsi con i libri escludendo le persone non è la sapienza vera, quella che potenzia la vita. Le parole e le idee tratte dagli autori – accrescitori- infatti vanno discusse, e confrontate con l’esperienza, insomma vanno verificate e inverate, o confutate, vivendole, altrimenti rimangono frasi fatte da altri, luoghi comuni letterari, battute da talpe erudite, con la pancia e il cervello gonfi di radici verbali e, se va un poco meglio, di belle battute che non danno forza alla vita.
Insomma quello che imparavo mi potenziava nel pensiero e nell’azione.
L’avevo già intuito quando attirai l’attenzione di Helena con una frase intelligente, come ho già raccontato[1].
A Päivi, la donna forse più importante di questa mia vita mortale, oggi citerei, magari tamburellando ditirambi, cinque parole delle Baccanti che dicono molto: “to; sofo;n d j ouj sofiva[2], il sapere non è sapienza.
Poi glielo spiegherei ricordando le lezioni ricevute dalla vita, e da lei, come faccio ora con voi cari lettori.
To; sofovn, il sapere, in greco è di genere neutro, non ha una matrice, mentre hJ sofiva , la sapienza, è femminile, il che consente di attribuirle una natura feconda.
Ma in quei giorni dell’autunno del 1974 menzionare la fecondità sarebbe stato inopportuno e di pessimo gusto.
[1] Cfr. La storia di Helena.
[2] Euripide, Baccanti, 395. Dodds traduce “cleverness is not wisdom’, Euripides Bacchae, p. 121
Bologna 19 giugno 2022 ore 8, 12
giovanni Ghiselli
p. s
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