L’olocausto della mosca
Dopo la dipartita della donna pregnante, che per due mesi era stata vita della mia vita, feci un giro per il paese scrutando i pochi passanti bianchi quanto le erme funerarie, mentre tutte le vie si abbuiavano nel crepuscolo freddo. Speravo di vedere e riconoscere la dolce e bella Helena, o almeno una che le somigliasse, magari con un bambino di due anni e mezzo, e senza quel Puntila padre.
Ma non la incontrai.
Quindi tornai nel collegio studentesco. Andai a salutare un’amica di Päivi, conosciuta e frequentata nel lungo, sitibondo e felice mese di Debrecen. Si chiamava Anneli: era bionda, carina, gentile. Mi accolse con simpatia, quale benevola Eumenide, e, dopo i saluti, riprendemmo un discorso sulla storia romana che a lei interessava. Mi faceva domande, mi ascoltava con attenzione, e replicava con intelligenza.
Ne ricavai la sensazione, angosciante, di avere più cose da dire con lei che con la donna incinta di me rimasta spesso silente e inespressiva da quando mi aveva visto arrivare in Finlandia. , forse già inopportuno e scaduto.
Verso le dieci tornai nel monolocale e scrissi una lettera ad Antonella, l’amica romana dell’ultima Debrecen, descrivendole la mia situazione penosa, e chiedendole cosa dovevo fare, una volta tornato in Italia. La mia confusione era totale. Mi consiglierà di studiare il finlandese e di sposare Päivi che era la donna giusta per me. Quattro anni più tardi l’amica, forse ricreduta, mi ospitò per una notte d’amore con una supplente , mediterranea, mora, abbronzata, calda, vivace- durante una gita scolastica a Roma.
Avevamo affidato i nostri allievi a dei colleghi più seri di noi due, a vizio di lussuria tanto rotti da posporre ogni funzione alla libidine.
Quando ebbi concluso la lettera, affettai e mangiai del salame, non molto invero, ma bevvi un’altra birra non piccola, e bruciai sadicamente, completamente, una mosca che mi disturbava parecchio. Prima di andare a letto, feci gesti futili per impiegare il mio tempo inutile e vuoto con qualche parvenza di attività. L’abito letterario mi fece venire in mente “ ho misurato la mia vita a cucchiaini di caffè”[2].
Veramente già in questa occasione tragica, come poi la notte del pozzo di Vernicino, tra il 12 e il 13 giugno del 1981, pensai che dovevo scrivere una storia d’amore, anzi la storia delle mie storie d’amore .
“Vennero donne con proteso il cuore/ognuna dileguò, senza vestigio”[3], poteva esserne l’epigrafe. Queste tre storie ne hanno prefigurate diverse altre in Italia.
Ma nessuna sarebbe stata più bella di queste.
Con il passare del tempo diverse donne, e donne diverse, mi avrebbero dato retta per un tempo determinato.
Poi mi avrebbero lasciato tutte quante, tranne quattro o cinque lasciate da me.
Con il volgere delle stagioni ho imparato a preferire la solitudine al tedio insopportabile che mi infligge una persona non buona. Uomo o donna che sia.
Chissà se loro pensavano, invece, che a dileguarmi invece ero stato sempre io?
Tornato in Italia, cercai di iniziare il racconto di queste tre storie esotiche, irripetibili, ma non avevo i mezzi, cioè le grandi letture necessarie per esprimere sentimenti pur forti in maniera interessante per chi non li aveva vissuti. Il mio pathos senza cultura era soggettivo, noioso, o ridicolo. Gli mancava la dimensione e la categoria dell’Universale necessaria per farsi leggere.
Me ne resi conto e rinunciai a scrivere, per studiare e imparare dalla mattina alla sera. L’amore per Päivi non mi lasciò desiderare altre femmine umane per alcuni mesi. Tanto meno dei maschi umani o bestiali, lettore, non equivocare!
Dovevo studiare per diventare degno di lei. La mia testa allora funzionava così.
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[2] Cfr. T. S. Eliot, The love song of J. Alfred Prufrock: “ I have measured out my life with coffee spoons”, v. 51
[3] Guido Gozzano, La signorina Felicita ovvero la Felicità, v. 259.
Bologna 16 giugno 2022 ore 19, 39
giovanni ghiselli
p. s.
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