A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Il narcisismo era stimolato dal fatto che in questa giovane collega vedevo riflessa la mia stessa immagine ringiovanita e imbellita; la vocazione di educatore mi faceva credere che avrei fatto una cosa egregia impiegando buona parte delle mie forze per aiutare a crescere una creatura tanto dotata.
Ora che ne narro la storia so che il destino attraverso il fallimento di questo amore dopo quello delle tre finlandesi mi spingeva a scrivere quanto ho già fatto, quanto sto facendo e quanto seguiterò a fare.
Intanto era entrato il preside che si stropicciava le mani come un usuraio.
Mi torna in mente questo particolare perché in fondo anche io avevo in mente l’usura o per lo meno l’uso della ragazza per i miei scopi. Lei del resto aveva i suoi.
Non che avessi intenzioni cattive, però non ero capace di amare e comprendere quella radiosa creatura quale persona indipendente e distinta da me, e se potevo ammirarne la bellezza e la vitalità, in quanto mi infondevano forza e salute attraverso il piacere, ne temevo le incertezze, le debolezze, l’immaturità, e d’altra parte osservavo con sospetto il suo desiderio e bisogno di svilupparsi diventando se stessa, chiunque ella fosse: giudiziosa o sventata, santa o demoniaca, docile e sottomessa o bipede, feroce leonessa.
Ora so che avrei dovuto aiutarla a diventare quello che era, come facevo con i miei studenti e con me stesso. Ma ne avevo paura: temevo che non fosse schietta.
La mattina buia di giovedì 30 novembre 1978, però avevo confuso il senso della scena e dello spettacolo di cui Ifigenia era dotata e che nell’affollata assemblea poté esplicare, con una identità di scopi che già allora probabilmente non c’era.
Eppure il suo recitare con efficacia le mie convinzioni mi affascinò al punto che quando l’assemblea fu terminata le andai vicino con riverenza, quasi con timore, come ci si può accostare a una prima donna, una diva, e dissi: “Brava, sei stata magnifica. Io ti amo. Non scappare da casa, non mancare qui a scuola. Non posso sopportare l’idea di passare un giorno senza di te”.
Mi guardò con aria compiaciuta. Io allora, per piacerle ancora di più, aggiunsi: “Oggi lascio Pinuccia. Voglio stare solo con te”.
Allora Ifigenia fece un sorriso che le impresse due piccole e luminose fossette sulle guance già belle. Come quando, dopo un giorno di pioggia, un raggio di sole imporpora le nuvole inquiete, disaggregate nel trepido occidente da dove i mortali donne, uomini e uccelli contenti traggono auspici lieti con la promessa di un giorno luminoso dopo quello già tetro che si compie inviando un sorriso alle creature buone.
Lo dissi a Ifigenia che chinò la testa in segno di assenso. Adnuit mihi oranti. Eravamo felici. Al marito scimunito avrebbe raccontato una qualunque storia credibile. Gliel’avrebbe fatta credere. Meno di tre anni più tardi la parte dello scimunito sarebbe toccata a me.
Bologna 25 ottobre 11, 05
giovanni ghiselli
p. s.
Statistiche del blog
Sempre1414921
Oggi67
Ieri485
Questo mese7062
Il mese scorso8635
p. s.
Statistiche del blog
Sempre1414921
Oggi67
Ieri485
Questo mese7062
Il mese scorso8635
Nessun commento:
Posta un commento