A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Dopo le accoglienze oneste e liete, le dissi subito che amavo una collega giovane e bella assai. Una che irrobustiva la mia persona: l’intelligenza, la fantasia e pure il corpo.
Insomma Apollo, il dio della luce e della bellezza, che ero andato a pregare nell’Ellade perché mi facesse partecipe delle sue doti, mi aveva esaudito.
Durante quel viaggio ciclistico estivo avevo mandato diverse cartoline provocatorie all’amica cristiana professando la mia devozione agli dèi della Grecia a partire da Febo, quello a me più congeniale.
Anche quando insegnavo a Carmignano volevo distinguermi dal credo religioso e politico di tanti colleghi di quella scuola diretta da un preside bigotto e refrattario agli spiriti nuovi dei quali mi ero entusiasmato durante l’ultimo anno passato a Bologna dando l’ esame residuo di glottologia e frequentando le assemblèe del movimento studentesco, partecipando ai cortei e facendo miei tanti slogan. Furono mesi questi della primavera del ’68 in cui la gioventù delle Università di buona parte del modo ebbe fiducia in se stessa e nel proprio avvenire. Molti di quei giovani hanno abiurato. Io non sono un apostata e credo ancora in quello che propugnavo allora: giustizia, uguaglianza e libertà. Comunismo aristocratico lo chiamo.
Quando arrivai a Carmignano la sera del 28 ottobre del 1969 il monte Grappa era già bianco di neve come il Soratte della famosa ode di Orazio.
Pensai che nemmeno la bicicletta dovevo tradire e in giugno pedalai su per i 30 chilometri abbondanti di quella salita.
Antonia aveva sempre cercato di redimermi dal mio libertinaggio dicendomi: “si ravveda, si penta, metta la testa a posto: si trovi una buona compagna e la sposi”
“Pentiti e cangia vita:
è l’ultimo momento”
“No, no, ch’io non mi pento”, rispondevo.
Questo era un nostro duetto non del tutto faceto né serio.
Quel pomeriggio del 23 dicembre però l’amica Antonia non voleva scherzare: era preoccupata del fatto che io fossi tanto innamorato di una donna sposata. Mi piaceva sentirle parlare il suo bel dialetto veneto, tra il padovano e il vicentino.
La pregai di farlo. Sicché cominciò: “mi conosso un vecioto” e si interruppe. Allora domandai: “sicché?”
“El fa come eo” rispose, fa come lei
“Che cosa vuole dire Atonia?” insistetti fingendo di non capire,
Mi spiegò che questo uomo mezzo vecchio ci provava con tutte finché i mariti delle corteggiate, forse adultere, si coalizzarono, lo bastonarono e lo gettarono in un fosso. Non ne morì ma ci mancò poco.
Antonia dunque temeva che potessi fare la fine del seduttore professionista ucciso da Eufileto, il marito tradito e assassino difeso da Lisia per il delitto d’onore.
Le feci presente che il marito di Ifigenia nemmeno sapeva chi fossi e che comunque la mia ultima relazione era irreprensibile perché noi ci amavamo e rendevamo migliori a vicenda: Ifigenia mi ribattezzava nelle onde fresche della sua gioventù mentre io la impregnavo dello spirito mio coltivato e cosciente.
L’amica si rassicurò soltanto un anno più tardi quando portai Ifigenia a Carmignano per fargliela conoscere e l’amica giudicò l’amante bella con semplicità e intelligente. Dovevo sposarla. Nel frattempo aveva lasciato il marito.
Mentre di notte tornavo a Bologna sull’autostrada era tonda la luna.
La pregai chiamandola Selene, Artemide, Diana, Trivia, Helena, Ifigenia. Una sola forma di molti nomi.
Avevo le lacrime agli occhi perché mi sentivo di nuovo partecipe della vita di questo universo bello ordinato da un Dio buono, demiurgo e artista.
Chiesi a quella bianca, rotonda, femminea creatura di conservarmi ancora per tanti dei suoi eterni cicli celesti l’amore di Ifigenia e la facoltà di girare in buona salute per questa opera d’arte: il mondo illuminato ora da lei, ora dal suo splendente fratello. Ero felice come non ero più stato dopo le finniche e lo dovevo a Ifigenia.
Bologna 30 ottobre 2023 ore 19, 32
giovanni ghiselli
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