A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
La ragazza si asciugò il viso con le mani chiuse a pugno, come fanno le bambine. Poi mi guardò con aria supplice e interrogativa. Ne ebbi paura e non lo dissimulai, anzi manifestai lo spavento dicendole con voce angosciata e tono aggressivo: “ e tu non avrai mica detto la verità?”.
Il terrore di perdere la mia indipendenza aveva stravolto e annientato l’atteggiamento protettivo e sicuro che prendevo di solito con la giovane collega che chiedeva il mio amore e il mio aiuto.
Temevo ogni attacco alla mia integrità fisica e mentale, al mio equilibrio, alla mia identità fatta in massima parte di solitudine, studio, giri in bicicletta, esposizione al sole per migliorare il mio aspetto e il mio umore.
Se perdevo queste attività di base, smarrivo un’altra volta me stesso con il rischio di perdermi definitivamente questa volta. A 33 anni 11 mesi e 15 giorni ero già diventato un vecchio misantropo come Cnemone del Dyskolos di Menandro o come Timone ateniese di Plutarco e di Shakespeare.
Guardavo intorno a noi due per vedere se mi confortava l’apparizione di un’altra giovane donna dai sandali screziati magari, e in procinto di lanciarmi un sorriso o una palla variopinta perché gliela restituissi con uno scambio di simpatia.
Invece vidi passare un collega dai capelli ritinti “nero-rossi, qual pelo di faina, radi ahimé, davvero pochini”[1].
Ci guardò male e proseguì, miserando e implacabile com’era.
L’angoscia mi attanagliava perché ero insicuro dal punto di vista morale siccome avevo fin da subito istigato la ragazza malmaritata a mentire a quell’uomo, pur sempre suo contubernale, a nascondere la verità dei fatti che pure mi avevano dato gioia, non solo piacere. Nella mia ansia causata dai sensi di colpa arrivavo a pensa che in fondo il preside e i colleghi nemici non avevano tutti i torti nel reputarmi un farabutto nefando associandomi al nefas, l’illecita tresca che vivevo sfacciatamente anche a scuola.
Ifigenia, constatata la mia viltà e la cattiva coscienza, si irrigidì e mi guardò con disprezzo: avevo smentito l’immagine che all’inizio le avevo ispirato: quella dell’onesto giovanni intelligente, colto, buono e leale. Dalla sua espressione era sparito quel confidente immaginare un amore grande, pieno di mito e poesia tra noi due. Sentivo che la gioia, l’allegria e l’orgoglio della coppia illegittima stavano cadendo nel buio che oscurava ogni ambiente poco prima della metà del giorno.
Mi venne in mente una bella sentenza di Seneca che avevo imparato da poco per insegnare il latino e la morale agli allievi: “ego enim nego quemquam posse iucunde vivere nisi simul et honeste vivit”[2], io infatti credo che nessuno può vivere piacevolmente se nel contempo non vive onestamente. Predicavo l’etica ma ero immorale. Nemmeno razionale né pragmatico ero, poiché le menzogne che suggerivo e imponevo alla mia compagna danneggiavano e addoloravano entrambi.
Bologna 20 ottobre2023 ore 20, 10
giovanni ghiselli.
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[1] Cfr. Pirandello, Dal fanale (1902)
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[1] Cfr. Pirandello, Dal fanale (1902)
[2] De vita beata, X, 1,
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