A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Posterius res inventast aurumque repertum,
quod facile et validis et pulchris dempsit honorem
Iniquamente avevo diviso i compiti tra me stesso e la nuovissima amante: Ifigenia doveva tacere e obbedire agli ordini miei, io dovevo solo trovare il modo di fare il mio comodo senza essere disturbato, anzi pretendevo che lei vi contribuisse. Mi predisponevo a esserle un maestro, un esempio di ingenerosità. Ero non solo immorale ma anche imbecille perché ci voleva poco a capire che quanto di male insegnavo si sarebbe ritorto contro di me. Avevo incarnato nella mia persona il vizio caratteristico di questa età: l’egoismo. Questo, significato anche visivamente dal mio ambiguo e malefico sorriso da seduttore, avrebbe inquinato il cuore e la mente della sopravvenuta giovane amante rendendola pregna di feti che sarebbero diventati i nostri figli mostruosi: soperchierie reciproche dolorose, reticenze, menzogne, inganni, e pure peggio, nei due anni di decadenza continua seguiti a 9 mesi e mezzo di tripudi sessuali. Nell’autunno seguente la nostra relazione, male impostata dal punto di vista morale fin dall’inizio, era già in gran parte sconciata e adulterata. Nel lungo tempo dell’agonia cercammo di trovare dei rimedi al tonfo finale ma il processo di degradazione era ormai irreversibile. La collaborazione artistica che avrebbe dovuto creare opere educative attraverso i miei scritti recitati e abbelliti da lei, fallì quasi subito impedita dall’egoismo mio presto imitato da quello della giovane collega. Anche la felicità sessuale senza il nutrimento di quella amorosa un poco per volta decadde.
L’arte e l’amore ci abbandonarono perché richiedono spirito di sacrificio e generosità invece che il gretto egoismo il quale cerca l’utile meschino e rende la vita sempre più inutile siccome nega appunto l’arte e l’amore.
Noi due in quell’autunno lontano ci sentivamo eccezionali, invece eravamo i tipici prodotti seriali di un’epoca di compiuta peccaminosità, di razionalismo limitato e falso, un’età del ferro che periodicamente ritorna, un’epoca la cui legge suprema e iniqua è il diritto del più forte economicamente o fisicamente, un tempo che valuta il misero denaro più dei valori veri: la bellezza, la bontà, l’intelligenza e la cultura.
“Posterius res inventast aurumque repertum, - quod facile et validis et pulchris dempsit honorem” (Lucrezio, De rerum natura,V, 1113-1114), quindi si scoprì il possesso della roba e l’oro che facilmente tolse il potere ai forti e ai belli.
“Hai tre amanti e non ne ami nessuna”. Un detto fatale
Durante il primo mese ci si incontrava nel pomeriggio in casa mia soltanto un paio di volte la settimana per brevi concubiti, pur arrivando sempre almeno alla sufficienza di tre tripudi. Tre per ciascuno intendo. Ifigenia doveva eludere la sorveglianza sospettosa del cane tricipite dai sei occhi che la sorvegliavano sospettosi. Quando costui era in casa e lei voleva uscirne, la bella moglie si inventava che doveva comprare un libro o un quaderno o del latte di cui aveva detto di sentire bisogno dopo averne versato una bottiglia intera nel cesso e aver tirato lo sciacquone non senza dire : “così impari!”
Questo mi raccontava compiaciuta e io l’approvavo magari financo battendo le mani.
Si era persino cantato insieme: “Fatti mandare da quel tanghero a prendere il latte”|
“Oh, l’empietà, quanto cinismo!” penserete voi, pii lettori.
Di fatto questi erano ghiribizzi da lussuriosi.
A me quella donna piaceva assai, tanto che la trasgressione mi pareva giustificata. Invece non mi andavano più a genio le altre due con le quali non raggiungevo nemmeno la sufficienza quando, per onor di firma, non potevo evitare il letto con una di loro.
I riti sacri a Venere dalle magnifiche natiche e cosce erano sempre più dedicati a Ifigenia. A parte la sua somiglianza con la dea callipigia, con lei avevo il maggior numero di interessi e scopi comuni, e, soprattutto, un desiderio oramai quasi esclusivo di fare l’amore. Tre sole volte ogni incontro, dicevamo è pur troppo poco. Ogni giorno di più sentivo che mi sprecavo e contaminavo la mia identità di persona tendenzialmente estetica e logica continuando a condurre nel talamo dei tripudi entusiasti con Ifigenia, altre due che non mi piacevano più.
Non piangevo sulla riva del mare come Odisseo stanco di Calipso nell’isola Ogigia posta sull’ombelico del mare solo perché a Bologna il mare non c’è.
Una sera dopo avere accompagnato a casa la più simpatica delle due mi dissi: “queste non mi convengono più, non mi si addicono. Non decet Ioannem talis triplex concubitus. Unus est satis. Vero è che per un paio di mesi Esculapia e Pinuccia mi hanno fatto comodo ma ora mi fanno solo perdere tempo, e mi sottraggono energie da dedicare alla più bella. Devo lasciarle possibilmente con le buone”.
Tale proposito mi divenne ancora più chiaro quando una sera Ifigenia che sapeva delle altre due mi disse: “Tu, sei così nervoso siccome hai tre donne e non ne ami nessuna. Poi canticchiò: “Hui! “Falsche Lieb’, falsche Treu’! “
Avevamo portato gli alunni a vedere L’olandese volante la cui storia d’amore l’aveva impressionata fortemente.
Stavo per risponderle: “infatti non mi fido di nessuna” ma tacqui e mi limitai a un mesto sorriso che voleva significare: “cerca di compatirmi, io sono un pover’uomo”.
Rimasto solo però, decisi che quella sera stessa avrei allontanato per sempre dal letto mio la meno simpatica delle due ganze che mi erano venute a noia.
Pesaro 26 settembre 2026 ore 19, 27
Oggi c’è il sole. Sono tornato a correre sulla spiaggia.
Ora aspetto il lieber Südwind che noi Pesaresi chiamiamo “garbino”.
Ma domenica tornerò a Bologna perché martedì inizia il mio corso
Il corteggiamento all’incontrario, ossia fatto per lasciare un’amante
Avevo dunque deciso di lasciare intanto Esculapia. Le telefonai verso l’ora di cena dicendole direttamente: “vediamoci domani, se puoi: ti devo parlare”. Usai un tono serio, quasi severo perché questa donna tendeva a ridicolizzare la mia volontà di fare chiarezza tra noi, ossia di liberarmi. Ma non si lasciò impressionare.
Rispose: “Va bene Ghiso, divina creatura!”. Era più attempata di me e tendeva a vezzeggiarmi giovanilmente, cioè impropriamente.
Quindi spiattellò la propria generosità di nutrice: “Ti aspetto domani sera a cena. Cucinerò per te”. Per giunta viveva con i suoi genitori. Diceva di essere divorziata ma non credo fosse vero. Con una cena semiufficiale voleva rendermi più problematico il congedo che sentiva nell’aria. La sera dell’addio dunque, suonato il campanello con un tocco leggero, aspettavo davanti alla porta con aria stanca e un poco preoccupata.
Venne ad aprire la madre, una donna non vecchia, dai biondi capelli avvelenati e loquace. Trattava la figlia oramai quarantenne come una bambina prodigio siccome, sì giovane ancora, era già diventata direttrice di una clinica.
“Buona sera professore, venga avanti”, disse in piena contraddizione con il mio proposito retrogrado.
Quindi mi guidò nella sala da pranzo dove mi fece sedere e mi domandò come stessi.
“Non c’è male, grazie. E lei signora?
“Io benissimo, ma lei perché dice solo non c’è male? Mi sembra in ottima forma” In effetti lo ero, grazie a Ifigenia però, non ad altro.
“Sono un poco stanco di alcune cose” dissi per prepararla alla novità che volevo annunciare.
“Come può essere stanco-replicò renitente ad accogliere l’annuncio dell’evento che sospettava-dopo appena due mesi di scuola? Poi lei ha quasi tutti i pomeriggi liberi per riposarsi. Pensi alla figlia mia che lavora dall’alba al tramonto in questa stagione e quando torna a casa mi aiuta: tra poco, per fare un esempio, mangeremo delle tagliatelle fatte da me e condite con un sugo cui ha messo mano Esculapia: farebbe risuscitare i morti. Tra poco lo sentirà: c’è dentro tutto l’estro della sua ragazza”
Queste ultime parole mi fecero male. “Quale ragazza e quale mia?”, pensai
La osservavo accentuando la tristezza che tutta la situazione spiacevole mi stampava in faccia ma non riuscivo a bloccare la compiaciuta retorica gastronomica tipica delle casalinghe della grassa Bologna. L’aspirante suocera mi squadernava l’elenco degli ingredienti.
Cercai di smontare questa allegrezza fasulla: “No, non è della scuola che sono stanco e annoiato. Anzi, insegnare mi piace”
“Oh bella! Allora di cosa? Non sarà mica stanco di vivere?” domandò con una sfumatura aggressiva sperando di dissuadermi dall’intento che oramai aveva capito.
“Sono stanco di deludere persone migliori di me. Mi sopravvalutano, si aspettano troppo e mi danno sensi di colpa”.
Appena ebbi detto queste parole cui non era facile rispondere con una banalità elusiva, mentre la madre dava segni di imbarazzo, entrò la figlia arzilla come una cutrettola, e fervente di una contentezza ostentata, chiaramente in autentica. Si aspettava anche lei la fine di tutto.
“ciao Ghiso - trillò - Oggi ho chiuso i conti di un reparto. Il personale va tenuto d’occhio. Tu che cosa hai fatto di inutile e bello nel pomeriggio, estetica, aerea, divina creatura? Hai corso, pedalato o studiato?”
“Tutte e tre queste cose che devo ogni giorno a me stesso”
“E a me non devi niente?”
“Sì certo. Ti devo gratitudine per quanto c’è stato tra noi e la verità sulle mie intenzioni”.
Pesaro 26 settembre 2023 ore 19, 50
giovanni ghiselli
p. s
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