martedì 26 settembre 2023

Ifigenia XVIII. Noi, poveri mortali, non possiamo entrare nella gioia con piede intero

A. Feuerbach, Iphigenie (1862)

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Verso le sei e mezzo l’accompagnai al cinema, il Contavalli attualmente sparito. C’era una storia d’amore interpretata dall’ottimo Mastroianni e dalla giovane, splendida Kinski che assomigliava a Ifigenia. Una storia simile, forse, alla nostra. Doveva vedere un pezzetto di film da raccontare al marito per giustificare la lunga assenza da casa.

Sicché alle sette mi ritrovai solo. Non cercai nessuno: avevo bisogno di riflettere sull’evento dal quale poteva venire scombussolata la mia intera esistenza che travagliosa era già e poteva cambiare anche in peggio. Intanto dovevo risolvere il legame quasi biennale con due donne di Bologna, come ho già detto. Altre due o tre erano abbastanza lontane per non dovermene preoccupare, del resto pure loro si occupavano pochino di me. Sapendo di questa poliginia, una di Trieste mi aveva detto: “Tu non sei un uomo, sei una prostituta. Da chi hai preso?”
“Da mamma no di certo - risposi - la madre mia è santa”.
Le due che invece vivevano nei paraggi erano Pinuccia ed Esculapia. Le vedevo a turno e con entrambe a turno facevo l’amore nel talamo grande senza amare la prima, un’impiegata, né la seconda: un medico, medico donna per essere chiaro.
Non volevo rinunciare ai vantaggi che queste amicizie mi offrivano, né dovevo far loro del male e non volevo inquinare la mia identità con la menzogna. Fino a quel momento avevo taciuto e dissimulato ma simulare non volevo e non potevo. Disimulatore spesso, simulatore quasi mai e non di qualsiasi cosa. Perciò con queste due, una alla volta, mi sarei confessato al più presto.
Ricordo che con Pinuccia iniziai la confessione dicendo: “orribili furono i peccati miei, ma la tua bontà, come quella divina ha braccia grandi e continuerai a  volermi bene  lo stesso”. L’infelice capì subito tutto: che non volevo più fare l’amore con lei. Ma era buona davvero: un paio di anni più tardi mi invitò al suo matrimoni dove potevo portare Ifigenia. Cosa che feci.
Con l’altra mi limitai a dirglielo senza fronzoli e lei, da scienziata qual era, non si rivolse a Dio né si sposò mai.
Poi c’era il problema di Cerbero, il marito che Ifigenia voleva lasciare e probabilmente l’avrebbe fatto ben presto. Ma dopo, dove si sarebbe appoggiata?  Sulle mie spalle non abbastanza forti da reggere i pesi? Forti avevo soltanto le gambe dopo anni di bicicletta e corsa. Le braccia, poco usate, erano di modesta consistenza. Senza contare le mie consanguinèe dalle quali dipendeva il mio essere un poverello che tuttavia poteva pur sempre viaggiare, andare al cinema e a teatro, comprare dei libri. La mamma, la nonna e le zie detestavano i proletari ancora più dei criminali e non avrebbero accettato Ifigenia quale fidanzata del loro ingrato rampollo.
Avei dovuto sposare un’ereditiera io, o per lo meno, una docente di ruolo, dallo stipendio assicurato per tutta la vita.
Anche i colleghi, tra non pochi dei quali ero già malfamato come donnaiolo,  non avrebbero certo lasciato passare inosservata, ingiudicata e del tutto  impunita la mia relazione con la bella supplente che faceva gola ai maschi eterosessuali e invidia alle femmine per la sua avvenenza. Dunque la nostra relazione doveva restare nascosta il più possibile. Ecco perché la sera tardi, quando messo nella cuccia il marito, Ifigenia andò in bagno, aprì i rubinetti e mi telefonò, le chiesi, da vile qual ero, di non raccontare a nessuno quanto era accaduto, nemmeno alle amiche, le tre grazie Aglaura, Donatella e Diletta, che il giorno dopo le avrebbero telefonato per sapere come fosse andata. Ifigenia promise, ma dal tono di voce compresi che non aveva trovato nobile la mia ansiosa paura del giudizio di cicchessia dopo la gioia che lei mi aveva donato, contraccambiata, nel pomeriggio piovoso. E’ proprio vero che nella felicità non si entra mai tutti interi. Tanto meno interi tutti e due gli amanti.
 
Aggiungo una nota riguardo all’entrare interi nella gioia
Nel poema di Apollonio Rodio,  i Greci prepararono il letto nuziale  per Medea e Giasone nell’antro divino dove una volta viveva Macride, la figlia di Aristeo il quale scoprì il prezioso prodotto delle api e il succo dell’olivo. Era l’aveva fatta fuggire e costretta a rifugiarsi lì là poiché Macride aveva unto con il miele le labbra di Dioniso bruciacchiato dal fuoco di Semele che aveva generato il bambino fornicando con Zeus il quale l’aveva fatta partorire folgorandola.
 
Giasone e Medea non avevano ancora fatto l’amore
Nel letto posero il vello d’oro e le Ninfe portavano fiori. Orfeo suonava e gli eroi cantavano l’imeneo. I due sposi avrebbero preferito fare l’amore una volta giunti a Iolco ma noi stirpe infelice degli uomini non possiamo entrare nella gioia con piede intero o{lw/ podiv (Le Argonautiche, IV 1166) e un’amara afflizione - pikrh; ajnivh - sempre si insinua in mezzo ai momenti del nostro piacere.
 Giasone e Medea insomma avevano paura. Anche io quella sera ero in ansia pensando a un avvenir malfido.  Solo con le finniche mi ero lasciato andare alla gioia. Ma di quelle  tre donne ero sicuro che se ne sarebbero andate senza crearmi problemi. Poi ero in un mondo lontano e diverso da quello dove ero cresciuto.
A Bologna vivevo e fornicavo nella casa che mi era stata comprata da due zie pretificate e mi tornava addosso il macigno del passato gettatomi sopra, in famiglia e in parrocchia, dai sensi di colpa inculcati e dalle paure legate alla gioia.
Se da bambino provavo a dire: “che bella giornata oggi!”, sentivo ribattere in tono minaccioso¨stai attento, bambino, molto attento!”.
“Perché?” domandavo
“Non si sa mai quello che ti può accadere: non sei mai stato prudente!”
Quando andavo in parrocchia il domine diceva che  un ragazzino era stato trovato morto nel letto dopo uno dei suoi frequenti e ripetuti “atti impuri”.
Una terza zia quando uscivo con lei e incrociavamo una bambina mi suggeriva di rivolgerle parole spregiative.
Io invece me ne sentivo attirato e perciò temevo di morire, poi di andare all’inferno tra “i peccator carnali che la ragione sommettono al talento”.  Guardare con desiderio le ragazze era peccato allora.
Abbandonarle sarebbe stato peccato in futuro
“Meritamente però ch’ io potei
abbandonarti, or grido alle frementi
onde che batton l’alpi, e i pianti miei
sperdono sordi del Tirreno i venti”.
Insomma la femmina umana veniva sempre associata alla colpa e al dolore.
 
ià da ragazziono cercavo un aiuto nella letteratura. Ma l’abito letterario non mi proteggeva abbastanza dai soffi gelidi della superstizione che mi abbuiava l’anima del resto ribadita dall’amatissimo Dante e da Manzoni per dirne solo due. Anche questi ci si mettevano.
 
Pesaro 26 settembre 2023 ore 17 e 9 minuti 
giovanni ghiselli

p. s.
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