A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Infatti rimanere nell’indefinito, il to; a[peiron di Anassimandro, significa non pagare il fio dell’ ingiustizia reciproca. Avevo commesso già molti colpevoli sbagli con le amanti precedenti cui cercavo di imporre delle regole. Cieco di mente ero stato. Solo a me stesso potevo assegnarle.
Di sera Ifigenia mi aveva telefonato dopo essersi rifugiata nel garage. Ci eravamo detti tante parole non poco belle.
Quella mattina camminavamo con lieta baldanza: ci sentivamo assortiti bene. Lei mi fiancheggiava a destra pavoneggiandosi un poco. Teneva le spalle spalancate in modo da mettere in risalto il petto florido e sodo per quanto si poteva capire dal golf leggero che glielo copriva gonfiandosi assai. Ogni tanto poi la ragazza ne accentuava ulteriormente il rilievo mettendo entrambe le piccole mani tra i capelli ondulati, fulgide onde d’amore che luccicavano nel mite sole della mattina di ottobre e illuminavano l’aria. La guardavo ammirato: era bella dalla cima della piccola testa folta di gioie, alla punta dei piedi minuti. Camminava con agilità. Elevandosi un poco a ogni passo come se avesse avuto le molle dentro le caviglie sottili. Mentre camminavo al suo fianco con passo di successo e di gloria sentivo crescere il desiderio di tale creatura rara, preziosa: bella, giovane molto, eppure del tutto cosciente di quanto voleva. Risoluta com’era e in grado di scegliere quello che desiderava, avrebbe reso più sicuro anche me, mentre da me avrebbe ricevuto strumenti per potenziare le sue qualità e prolungarle del tempo poiché già allora sapevo che ogni lepóre, anche quello delle brune più belle e sode, ha breve durata. Avevo visto invecchiare la nonna poi le zie e anche la mamma con il volgere delle stagioni. Anche io che pure mi difendevo bene dall’inesorabile tempo non ero più il lepido brunetto scherzoso e simpatico dei primi anni Settanta nelle estati più belle di Debrecen finite come ogni cosa.
Arrivati al portone del liceo, ci separammo: io dovevo fare lezione all’ultimo piano, in cima a sei rampe di scale, lei aveva la classe in fondo al piano terreno. La salutai con un cenno da collega a collega, e mi lanciai su per le scale, di corsa. Saltavo, sia per bruciare l’immondo superfluo, la carne non mia, sia per manifestare a me stesso la gioia e la moltiplicata vitalità, sia per ringraziare gli dèi del bonus che mi avevano dato volendo compensarmi dei tre anni di studio continuo cui avevo dedicato quasi tutto il mio tempo pressocché maniacalmente, proprio per meritare tale borsa di studio. Se perdevo il posto al liceo, e finivo al ginnasio, pensavo per consolarmi della probabile degradazione, lì avrei dovuto insegnare anche italiano e ne avrei tratto stimoli non solo per rivedere la nostra letteratura, ma per studiare anche le maggiori europèe, l’inglese, la tedesca, la russa e la francese. “Magari anche la ceca” mi dissi ricordando Helena di Praga e l’aurea primavera di dieci anni e mezzo prima, con gratitudine. Avevo passato con lei una Pasqua di resurrezione personale.
Intanto Apollo dalle cui corde vengono scagliate le indomabili frecce che prostrano i mostri ostili alla vita, e Afrodite che invita all’amore con fiammeggiante sorriso, come stava facendo Ifigenia con me, emulando la dea, Febo e Cipride dunque, dèi tutt’altro che falsi e bugiardi, avevano esaudito le mie preghiere indirizzate al cielo diurno e notturno nel mese di agosto, quando in solitudine ascetica durante il giorno pedalavo la bicicletta su e giù per i monti dell’Ellade piena di dèi, e nelle notti serene mentre guardavo le stelle disteso sopra il tetto del povero ostello di Micene da dove la veduta non del cosmo non era tronca.
Pregavo sì, pregavo dalla mattina alla sera, e agli dèi non chiedevo i miseri quattrini per fare le successive vacanze a Cortina in mezzo a gente troppo diversa da me, bensì l’amore di una femmina umana radiosa e di levatura mentale non inferiore alla mia.
Pesaro 23 settembre 2023 ore 10, 35
giovanni ghiselli
p. s.
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