NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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sabato 2 settembre 2023

Percorso sull’amore IX 15- Ovidio Remedia Amoris . Antologia commentata dal v. 591 a v. 672. Fillide e Arianna: ragazze abbandonate.


 

 

Fillide, Arianna e la catena letteraria.

 Segue l'esempio di Fillide  ( Remedia, 591-608) , un altro caso di donna abbandonata trattato anche altrove da Ovidio. Possiamo soffermarci un poco su questa "vaga donzella", come la chiamerà il Parini, e ampliare con lei la tipologia della ragazza abbandonata.

 

 La seconda delle Heroides  è una lettera di questa principessa tracia, Fillide, a Demofoonte il figlio di Teseo che trovò ospitalità presso di lei, poi l'abbandonò, come aveva fatto il padre con Arianna la quale se ne duole nella X delle Heroides .

 Il lamento di Fillide rinfaccia a Demofoonte gli spergiuri e la rottura della fides :" Iura, fides ubi nunc commissaque dextera dextrae,/quique erat in falso plurimus ore deus? " (Heroides , II, 31-32), dove sono ora i giuramenti, la fedeltà, la destra stretta alla destra, e tutti gli dèi che si trovavano nella tua bocca bugiarda?

 La fanciulla spera che Demofoonte, al cospetto di Teseo che fu non solo il seduttore di Arianna ma anche un vincitore di mostri, venga ricordato soltanto per questa impresa non nobile: avere ingannato una fanciulla:"Fallere credentem non est operosa puellam/gloria; simplicitas digna favore fuit./Sum decepta tuis et amans et femina verbis;/di faciant laudis summa sit ista tuae " (Heroides , II, vv. 63-66), non è gloria produttiva ingannare una fanciulla credula; la semplicità doveva essere degna di protezione. Sono stata ingannata dalle tue parole in quanto innamorata e in quanto donna: gli dèi facciano che questo sia il colmo della tua gloria.

 Infine la ragazza minaccia il suicidio la cui responsabilità dovrà ricadere sul seduttore, tanto che sul sepolcro dovrà essere scritto:"Phyllida Demophoon leto dedit hospes amantem/ille necis causam praebuit ipsa manum " (Heroides , II, vv. 147-148), Demofoonte da ospite ha fatto morire  Fillide che lo amava; egli fornì il motivo della morte, lei stessa la mano.

Ebbene nei Remedia Amoris  Ovidio, tornando sull'argomento, sostiene che Fillide fu uccisa dalla solitudine:"Certa necis causa est; incomitata fuit "(v. 592), la causa della morte è certa: rimase senza compagne. Vagava come la schiera barbara delle menadi che ogni tre anni festeggia Bacco, ma da sola.

 

 La solitudine in generale è vista più negativamente dagli antichi che dai moderni.

Fondamentale su questo argomento mi sembra una riflessione di  Kierkegaard che prende spunto dal Filottete di Sofocle il quale, abbandonato su un'isola deserta, si lamenta di essere movno" (v. 227), e[rhmo"ka[filo" (v. 228) solo, abbandonato e senza amici. Ebbene ill filosofo danese, in Enten Eller,  nota che" il mondo antico non aveva la soggettività riflessa in sé. Benché si muovesse liberamente, l'individuo restava nell'ambito delle determinazioni sostanziali, nello Stato, nella famiglia, nel fato… La riflessione di Filottete non si sprofonda in se stessa, ed è tipicamente greco che egli si dolga che nessuno sia a conoscenza del suo dolore. Si ha qui una grande verità, e proprio qui si vede anche la differenza con il vero e proprio dolore riflessivo, che sempre desidera d'esser solo con il suo dolore, e che nella solitudine di questo dolore cerca sempre un nuovo dolore"[1].

 

La Zambrano chiama questa attitudine "individualismo moderno" che "ci ha abituati a credere di vivere da soli". Eppure "nella vita umana non si rimane soli eccetto negli istanti in cui la solitudine si fa, si crea. La solitudine è una conquista metafisica, perché nessuno sta solo, ma deve riuscire a creare la solitudine dentro di sé, nei momenti in cui è necessaria per la crescita. I mistici parlano di solitudine come di qualcosa per la quale bisogna passare, punto di partenza della "ascesi", cioè, della morte, di quella morte che, secondo loro, bisogna morire prima dell'altra, per vedersi, alla fine, in un altro specchio. La visione del prossimo è specchio della propria vita; ci vediamo vedendolo. E la visione del simile è necessaria proprio perché l'uomo ha bisogno di vedersi. Non sembra che esista nessun animale che necessiti di contemplare la sua figura nello specchio. L'uomo cerca di vedersi. E vive appieno quando si guarda, non nello specchio morto che gli restituisce la propria immagine, ma quando si vede vivere nello specchio vivo del simile. Soltanto vedendomi nell'altro mi vedo realmente, soltanto nello specchio di un'altra vita simile alla mia acquisisco la certezza della mia realtà"[2].

 

Ma torniamo a Fillide, la ragazza di Tracia  modellata sulla  cretese Arianna, e, più in generale, sul tipo della donna abbandonata che abbiamo visto:"Perfide Demophoon!" surdas clamabat ad undas,/ruptaque singultu verba loquentis erant" (Remedia Amoris ,vv. 597-598), perfido Demofoonte! gridava alle insensibili onde, e le parole di lei erano rotte dai singhiozzi. Il vocativo perfide lo abbiamo già trovato nel lamento dell'Arianna di Catullo (64, 132), in quello della Didone virgiliana (Eneide , IV, 305) che è pure assimilata a una menade (Eneide, IV, 300). Abbiamo indicato la presenza dell' epiteto ingiurioso in bocca alla figlia di Minosse pure nei Fasti  di Ovidio (III, 473).

 Arianna è l'archetipo della ragazza abbandonata:  nella X delle Heroides  la figlia di Minosse, trovatasi sola sulla riva del mare, grida al traditore:"Quo fugis?…Scelerate revertere Theseu!/Flecte ratem! Numerum non habet illa suum! " (vv. 37-38), dove fuggi? torna indietro scellerato Teseo, volgi la nave che non ha il numero completo! In questa lettera il canonico perfide è indirizzato al lectulus , il giaciglio traditore (v. 60). Pure  nell'Ars Amatoria c'è un'Arianna  che piange davanti alle onde e grida parole simili a quelle di Fillide:"Thesea crudelem surdas clamabat ad undas "(I, 529), proclamava la crudeltà di Teseo alle onde che non ascoltavano, e piangeva, senza tuttavia diventare più brutta per le sue lacrime:"non facta est lacrimis turpior illa suis " (Ars, I, v. 532). La variante delle lacrime belle che attireranno Dioniso non impedisce a Ovidio l'uso dell'aggettivo topico:"Perfidus ille abiit:quid mihi fiet?" ait;/"Quid mihi fiet?" ait; sonuerunt cymbala toto/litore et attonita tympana pulsa manu" (Ars Amatoria, I, 534-536), quel traditore se n'è andato. Cosa sarà di me? dice, cosa sarà di me?, dice; risuonarono i cembali su tutta la spiaggia e tamburelli battuti da mani frenetiche.

 

 Ho ripreso il tovpo"  già trattato per mostrare ancora una volta il funzionamento della catena letteraria; anzi aggiungo una nota della Lazzarini la quale sostiene che "l'archetipo della iunctura perfide Demophoon è probabilmente Callimaco, Aitia 556 Pf. nymphie Demophoon, adike xene  ("perfido Demofoonte, ospite traditore)"[3] .

Ricordo pure un'eco calofonica presente nel poema Il Giorno del Parini il quale utilizza una versione del mito data da Servio (In Verg. Buc. 5, 10) secondo cui  la ragazza si impiccò e fu trasformata in un mandorlo privo di foglie che nacquero quando Demofoonte tornò  :"e qual ti porge/il macinato di quell'arbor frutto/che a Ròdope fu già vaga donzella,/e chiama in van sotto mutate spoglie/Demofoonte ancor Demofoonte"[4].

 

Adesso però è già tempo di tornare ai Remedia Amoris .   

   E' bene dunque evitare i luoghi isolati poiché questi incrementano la furia amorosa:"augent secreta furores" (Remedia, v. 581); dopo l'esempio di Fillide, devono temere le solitudini tanto gli uomini feriti dalle padrone dei loro cuori, quanto le ragazze ferite dagli uomini:"Phyllidis exemplo nimium secreta timete,/laese vir a domina, laesa puella a viro" (vv. 607-608). Un'altra cosa da evitare è il contagio amoroso:"facito contagia vites" (v. 613). L'imperativo futuro conferisce una sanzione legale alla prescrizione. Ho già ricordato che Proust userà la metafora del  "bacillo virgola"[5]; ebbene secondo Ovidio il germe patogeno può essere preso anche dal contatto con altri innamorati. Per argomentare questa tesi il poeta fa seguire un verso che rivela come l'amore di cui egli tratta  è quello solo corporale e quindi i suoi precetti servano probabilmente a evitare quella "ossessione carnale" che Benedetto Croce trovava in D'Annunzio:"haec etiam pecori saepe nocere solent"(Remedia, v. 614), questo (cioè il contagio, contagia ) suole nuocere anche al bestiame.

 

Ma soprattutto bisogna evitare la vicinanza della domina, altrimenti succederà come a un tale che sembrava guarito:"vulnus in antiquum rediit mala firma cicatrix/successumque artes non habuere meae " (v. 623-624), la cicatrice poco solida tornò all'antica ferita e le mie arti non ebbero successo. Il maestro d'amore si comporta come un medico che rimprovera il paziente poiché questo non ha seguito le sue prescrizioni. Poi torna l'assimilazione dell'uomo innamorato all'animale in foia:"non facile est taurum visa retinere iuvenca;/fortis equus visae semper adhinnit equae" (vv. 633-634), non è facile trattenere il toro quando ha visto una giovenca; il cavallo vigoroso nitrisce sempre verso la cavalla vista. E' il tema che abbiamo già trattato dell'amor omnibus idem, e, probabilmente, nel nitrito quasi automatico del cavallo eccitato, cè il ricordo dell'episodio erodoteo (III, 86) della conquista del regno persiano da parte di Dario.

Insomma se vuoi emanciparti dalla domina , evita tutto quello che te la fa venire in mente. Non nominarla nemmeno per dire che non l'ami più:"et malim taceas quam te desisse loquaris;/qui nimium multis "non amo" dicit, amat" (vv. 647-648), preferirei che tu tacessi piuttosto che dire di avere smesso; chi a troppa gente dice "non amo", ama.

 

Questo è uno dei loci della poesia amorosa che risale a Catullo:"verbosa gaudet Venus loquella"(55, 20), Venere gode di un parlare prolisso. Parlare spesso di una persona, perfino farlo in maniera ingiuriosa è, infatti, segno d'amore:"irata est;hoc est, uritur et loquitur" (Catullo, 83, 6), ce l'ha con me; ossia brucia e parla.

 

L'amore insomma deve finire per esaurimento, a poco a poco (paulatim, Remedia Amoris, 649) :"lente desine, tutus eris" (650), smetti lentamente, sarai salvo. Seguono versi (655-658)  che abbiamo già citato a proposito della non opportunità di odiare chi pure amiamo o abbiamo amato: questa è cosa scellerata (scelus, v. 655), brutta e vergognosa:" turpe vir et mulier, iuncti modo, protinus hostes" (v. 659), è indecente che un uomo e una donna, fino a poco prima uniti, subito dopo divengano nemici. Così il misei'n-filei'n viene rifiutato non solo sincronicamente ma anche in una successione di momenti diversi. Oltre essere turpe questo odi et amo non è produttivo, e non è indicativo di emancipazione dall'amore:"Saepe reas faciunt et amant" (v. 661), spesso le accusano e amano. Senza contare le relazioni e i matrimoni che finiscono in tribunale con danni di tutti i generi:"Tutius est aptumque magis discedere pace/nec petere a thalamis litigiosa fora./Munera, quae dederas, habeat sine lite iubeto;/esse solent magno damna minora bono" (vv. 669-672), è più sicuro e più conveniente separarsi in pace, e non passare dal talamo ai processi del foro. I doni che le avevi fatto, lascia che se li tenga senza contesa; di solito le perdite sono inferiori a un bene grande. Che è poi quello di evitare giudici e avvocati.

 

Pesaro 2 settembre 2021 ore 16, 52 giovanni ghiselli

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[1] Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno,  Tomo secondo, p24 e pp.33-34.

[2] L'uomo e il divino, p. 262.

[3] Ovidio Rimedi contro l'amore , p. 163.

[4] G: Parini, Il Mattino , vv.267-271.

[5]La strada di Swann , p. 363.

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