A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Nei giorni successivi alla metà di ottobre studiai Il diario del seduttore di Kierkegaard, Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde e il Piacere di D’Annunzio per assumere gli atteggiamenti dell’esteta superiore alle convenzioni e mettere alla prova la futura amante. Volevo capire se fosse capace di accettare il mio arbitrio di uomo libero e di libertino. Ifigenia ammirava quelle mie pose ridicole proprio perché stava cercando un’analoga parte per sé e io gliene chiarivo alcuni aspetti.
Recitavo prima di tutti il ruolo di Giovanni, il seduttore kirkegaardiano o dannunziano che vive una vita obliqua, al congiuntivo, almanaccante, priva di entusiasmi e slancio, in cerca di eccitazione da parte di una ragazza. Questa doveva versarmi nel petto stanco il torrente della sua fresca, sorgiva vitalità. Ribattezzarmi con il suo sangue fresco. In cambio poteva ricevere la mia tormentata complessità mentale, la mia cultura che avrebbe dato consapevolezza anche a lei, alla sua vita ancora prevalentemente istintiva.
“Ella è come un fiore, piace dire ai poeti, e perfino quel che in lei c’è di spirituale ha qualche cosa di vegetativo”. Queste parole avevo sottolineato nel libro di Kierkegaard.
Mi sbagliavo: Ifigenia era più disincantata di me: sapeva bene quello che voleva.
So che mi riempio di ridicolo scrivendo questo ma scrivere è anche una terapia, una catarsi per l’autore e per il lettore. Avevo deciso di assumere tali pose per non prendermi responsabilità di ordine etico, tanto meno matrimoniale, e anche perché capivo che tali atteggiamenti erano congeniali pure a lei e le piacevano.
Per procedere però dovevamo fare l’amore e io ne avevo ancora paura.
Ifigenia una mattina della terza decade di ottobre mi scavalcò nella posa che avevo preso da una decina di giorni.
Disse: “Ma che tipo di esteta sei tu giovanni ghiselli? Un esteta, un seduttore pusillanime, fiacco e codardo. Anche finto. Tu in realtà sei un moderato, un borghese, un perbenista bigotto: una ragazza giovane assai, quasi una principiante che dovrebbe rappresentare la tua predominante passione, dongiovanni a parole, ti offre l’amore come unità della carne e del sangue e tu lo rifiuti mentre continui a chiacchierare senza costrutto”.
Mi trovai spiazzato da tanto ardimento e da tale aggressività.
Le risposi con sforzo e imbarazzo, parafrasando il testo di Kierkegaard: “Io non ci tengo a possedere una ragazza in senso esteriore, voglio prima goderla mentalmente e artisticamente. Poi, per dirla tutta, aborrisco il fidanzamento. Roba da ciabattini. Di tutte le cose ridicole il fidanzamento è la più assurda. Il matrimonio può avere il senso di un contratto vantaggioso. Il fidanzamento è puro nonsenso”.
Ifigenia trasse altro ardire da queste parole prese a prestito, non mie e replicò: “ma chi vuole fidanzarsi? Io non ci penso nemmeno. Sono già malmaritata. Uno sbaglio che non ripeterò. Se mi vuoi, devi uscire da questi schemi che dovrebbero venire rotti dalla spinta che senti verso di me, se davvero la senti. Io sono disposta a darti tutto quanto tu puoi volere da me . Ma devo sapere se davvero mi vuoi e che cosa puoi darmi. E voglio vedere se tra noi ci può essere qualcosa di più e di meglio dei libri e della scuola. Sabato pomeriggio sono senza impegni né impicci, e voglio passare con te qualche ora, non i soliti venti minuti dell’intervallo o del percorso per venire a scuola. Fuori c’è il mondo, ci siamo noi liberi di fare quello che ci va. Io almeno lo sono.”
“Va bene-risposi travolto da tanta sicurezza- Hai ragione. Scusami, sono stato avvilito, reso anche vile dalla retrocessione al ginnasio. Mi rifarò come ogni altra volta.
Vediamoci sabato pomeriggio alle tre davanti alla libreria Feltrinelli. Vieni con scarpe adatte per camminare sui campi dove ti porterò”.
Ma avevo ancora paura di lei. Non avevo mai visto tanta risolutezza in una donna così giovane. Le finniche sapevano pure loro quello che volevano ma in confronto a questa tigre ircana erano delle passerottine.
La casa deserta sotto la collina assimilabile al casinetto sulla pista Debrecen. Le stesse cose ritornano
Ci trovammo davanti alla libreria Feltrinelli sabato 28 ottobre alle tre del pomeriggio. Ifigenia aveva in mano una borsa di tela; io avevo lasciato la mia Volkswagen nera decappottabile parcheggiata lì vicino : entrambi avevamo portato le tute e le scarpe per correre, o comunque fare ginnastica. Le avevo detto che l’avrei portata “nella campagna” ma poi avevo pensato che era meglio andare al campo sportivo, il campo scuola di via Michelino dove c’è una pista per la corsa. Un poco per nostalgia della pista di Debrecen, un po’ per il fatto che un campo scolastico mi sembrava meno intimo e impegnativo che una campagna solitaria. Tra l’altro correndo su pista e cronometro avrei avuto modo di fare bella figura siccome per la corsa non breve sono dotato e allora ero anche abbastanza allenato. Ora comprendo che in quei giorni pensavo soltanto a me stesso, ai problemi miei, al mio interesse, senza considerare la volontà della ragazza che con l’anima piena non solo di vanità, malizia e libidine, ma anche di desiderio, mito e poesia, voleva comunicare con me, ascoltarmi, imparare, e, se avesse potuto aprirmi il corpo e l’anima con fiducia, manifestarmi del tutto i propositi suoi.
La sconfitta sul lavoro mi aveva reso diffidente e meschino perché è proprio vero che un insuccesso ti mette in guardia da altre sventure, ti fa arretrare, mentre il successo viceversa ti spinge avanti.
Come mi fu giunta vicino, sorridente, vestita con un impermeabile beige, disse: “Ciao gianni, ascolta”.
La rimbeccai subito: “A Pesaro si dice ‘stai a sentire’, comunque ti ascolto. Allora, si va a correre? Mi piacerebbe farlo a cronometro in una pista”
“Ieri veramente avevi parlato di campi”
“Intendevo uno dei campi sportivi. Il Baumann per esempio”.
“No, ci va troppa gente! Io voglio parlare con te, starti vicina. Noi due soli. Andiamo in campagna! Ho visto la tua automobile qui nei paraggi”.
La proposta della solitudine con lei non mi allettava: era prematura rispetto ai miei calcoli. Volevo che fosse arrivata al Minghetti la mia nomina di docente di ruolo prima di fare l’amore con una collega appena supplente e giovane molto. Temevo un ulteriore insuccesso nel lavoro. Tuttavia nemmeno perdere lei volevo, rinunciando a un piacere grande e davvero consolatorio se non mi faceva perdere anche la posizione di insegnamento più bassa nel liceo di Bologna.
Mi feci coraggio e le risposi:
“Va bene: andiamo su per la Val di Zena fino al botteghino di Zocca, poi giriamo a destra e saliamo su un colle da dove si vede il tramonto. Carino, no?”.
“ Sì, molto”
Arrivammo su quel colle intorno alle quattro. Il debole sole in declino faceva tuttavia luccicare le zolle della terra arata tanto che miriadi di farfalline dalle ali dorate sembravano scorrere rapide lungo il fianco occidentale della collina. Arrivati sul culmine da dove la strada comincia a discendere sulla sinistra fermai l’automobile su una stradina laterale che si inoltra sui campi. Uscimmo dall’atomobile e ci incamminammo per un sentiero. Osservavo la terra che si indorava nella luce pur declinante: sembrava un’anziana signora protesa al ricordo, malinconico e dolce della passata bellezza. Non mi spiaceva più trovarmi solo con la bella ragazza in quel luogo rustico, vero e deserto. Glielo dissi per farle piacere e darmi coraggio. Ci scostammo l’uno dall’altra per toglierci i vestiti e indossare le tute. Questo gesto pudibondo riaccese il mio desiderio di Ifigenia.
Non mi spaventava più tanto la possibilità che lei mi proponesse di fare l’amore dal momento che mi sembrava improbabile. Potevo magari proporglielo io. Appena ci fummo cambiati e riavvicinati, vestiti con le tute che ci donavano perché lei era proprio ben fatta e nemmeno io ero fatto male, iniziammo a correre dal culmine della collina all’ingiù, verso una casa colonica che sembrava disabitata da tempo, L’erta pendenza e le zolle dell’arata discesa rendevano difficile il nostro equilibrio ma non rallentavano i balzi che facevamo scendendo a precipizio verso la casa deserta destinata a diventare uno dei monumenti di questa storia.
L’ombra della sera saliva strisciando adagio dal fondo della ripida china: la parte dell’ ampia aia più lontana dal culmine era già immersa nell’umida oscurità procedente dal basso. Noi due, arrivati sulla linea di confine tra l’ombra e la luce del sole, ci fermammo un istante per riprendere fiato e fruire dell’ultimo raggio del primo fra tutti gli dèi. Io lo pregai in silenzio. Poi procedemmo adagio fino al limite dell’aia spaziosa.
Ci trovammo davanti alla libreria Feltrinelli sabato 28 ottobre alle tre del pomeriggio. Ifigenia aveva in mano una borsa di tela; io avevo lasciato la mia Volkswagen nera decappottabile parcheggiata lì vicino : entrambi avevamo portato le tute e le scarpe per correre, o comunque fare ginnastica. Le avevo detto che l’avrei portata “nella campagna” ma poi avevo pensato che era meglio andare al campo sportivo, il campo scuola di via Michelino dove c’è una pista per la corsa. Un poco per nostalgia della pista di Debrecen, un po’ per il fatto che un campo scolastico mi sembrava meno intimo e impegnativo che una campagna solitaria. Tra l’altro correndo su pista e cronometro avrei avuto modo di fare bella figura siccome per la corsa non breve sono dotato e allora ero anche abbastanza allenato. Ora comprendo che in quei giorni pensavo soltanto a me stesso, ai problemi miei, al mio interesse, senza considerare la volontà della ragazza che con l’anima piena non solo di vanità, malizia e libidine, ma anche di desiderio, mito e poesia, voleva comunicare con me, ascoltarmi, imparare, e, se avesse potuto aprirmi il corpo e l’anima con fiducia, manifestarmi del tutto i propositi suoi.
La sconfitta sul lavoro mi aveva reso diffidente e meschino perché è proprio vero che un insuccesso ti mette in guardia da altre sventure, ti fa arretrare, mentre il successo viceversa ti spinge avanti.
Come mi fu giunta vicino, sorridente, vestita con un impermeabile beige, disse: “Ciao gianni, ascolta”.
La rimbeccai subito: “A Pesaro si dice ‘stai a sentire’, comunque ti ascolto. Allora, si va a correre? Mi piacerebbe farlo a cronometro in una pista”
“Ieri veramente avevi parlato di campi”
“Intendevo uno dei campi sportivi. Il Baumann per esempio”.
“No, ci va troppa gente! Io voglio parlare con te, starti vicina. Noi due soli. Andiamo in campagna! Ho visto la tua automobile qui nei paraggi”.
La proposta della solitudine con lei non mi allettava: era prematura rispetto ai miei calcoli. Volevo che fosse arrivata al Minghetti la mia nomina di docente di ruolo prima di fare l’amore con una collega appena supplente e giovane molto. Temevo un ulteriore insuccesso nel lavoro. Tuttavia nemmeno perdere lei volevo, rinunciando a un piacere grande e davvero consolatorio se non mi faceva perdere anche la posizione di insegnamento più bassa nel liceo di Bologna.
Mi feci coraggio e le risposi:
“Va bene: andiamo su per la Val di Zena fino al botteghino di Zocca, poi giriamo a destra e saliamo su un colle da dove si vede il tramonto. Carino, no?”.
“ Sì, molto”
Arrivammo su quel colle intorno alle quattro. Il debole sole in declino faceva tuttavia luccicare le zolle della terra arata tanto che miriadi di farfalline dalle ali dorate sembravano scorrere rapide lungo il fianco occidentale della collina. Arrivati sul culmine da dove la strada comincia a discendere sulla sinistra fermai l’automobile su una stradina laterale che si inoltra sui campi. Uscimmo dall’atomobile e ci incamminammo per un sentiero. Osservavo la terra che si indorava nella luce pur declinante: sembrava un’anziana signora protesa al ricordo, malinconico e dolce della passata bellezza. Non mi spiaceva più trovarmi solo con la bella ragazza in quel luogo rustico, vero e deserto. Glielo dissi per farle piacere e darmi coraggio. Ci scostammo l’uno dall’altra per toglierci i vestiti e indossare le tute. Questo gesto pudibondo riaccese il mio desiderio di Ifigenia.
Non mi spaventava più tanto la possibilità che lei mi proponesse di fare l’amore dal momento che mi sembrava improbabile. Potevo magari proporglielo io. Appena ci fummo cambiati e riavvicinati, vestiti con le tute che ci donavano perché lei era proprio ben fatta e nemmeno io ero fatto male, iniziammo a correre dal culmine della collina all’ingiù, verso una casa colonica che sembrava disabitata da tempo, L’erta pendenza e le zolle dell’arata discesa rendevano difficile il nostro equilibrio ma non rallentavano i balzi che facevamo scendendo a precipizio verso la casa deserta destinata a diventare uno dei monumenti di questa storia.
L’ombra della sera saliva strisciando adagio dal fondo della ripida china: la parte dell’ ampia aia più lontana dal culmine era già immersa nell’umida oscurità procedente dal basso. Noi due, arrivati sulla linea di confine tra l’ombra e la luce del sole, ci fermammo un istante per riprendere fiato e fruire dell’ultimo raggio del primo fra tutti gli dèi. Io lo pregai in silenzio. Poi procedemmo adagio fino al limite dell’aia spaziosa.
Pesaro 23 settembre 2023 ora 17, 45
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