Nella Germania, del 98 d. C., Tacito presenta i costumi sani e bellicosi dei Germani confrontati allusivamente e polemicamente con quelli corrotti dei Romani. Il titolo completo dell'opera è De origine et situ Germanorum, sull'origine e la posizione geografica dei Germani. L'interesse prevalente è quello etnografico. Per quanto riguarda il situs e l'origo dei Germani, Tacito inizia il saggio con la descrizione della loro terra e con l'affermazione dell'autoctonia e della purezza razziale di questa gente il cui aspetto e carattere risentono dell'ambiente fisico che li circonda, ossia del clima e della qualità del suolo. Si tratta del determinismo geografico, cioè della connessione terra-uomo, già messa in rilievo nelle Storie di Erodoto, negli scritti della scuola di Ippocrate, poi nell'Ulisse di Joyce.
Da luoghi molli di solito nascono uomini molli ("filevein ga;r ejk tw'n malakw'n cwvrwn malakou;" a[ndra" givnesqai" afferma Ciro il vecchio nell'ultimo capitolo dell’opera erodotea, e le parole conclusive dell'opera dello storiografo di Alicarnasso sono:" sicché i Persiani ricredutisi preferirono comandare, abitando una terra penosa (luprhvn) piuttosto che, coltivando fertili pianure, servire ad altri (a[lloisi douleuvein)[1].
Nella Germania, descritta da Tacito come " informem terris, asperam caelo, tristem cultu aspectuque" (2), orribile per il terreno, rigida per il clima, triste ad abitarsi e a vedersi, gli unici uomini che possono vivere sono i nativi (indigenae) i quali hanno truces et caerulei oculi, occhi minacciosi e azzurri, rutilae comae, chiome rossicce, magna corpora et tantum ad impetum valida (4), corpi grandi e gagliardi solo per l'assalto. Dato Il clima e la natura del suolo, si sono abituati al freddo e alla fame (frigora atque inediam caelo solove adsueverunt, 4); la terra in generale è aut silvis horrida aut paludibus foeda (5), irta di selve oppure orribile per le paludi[2].
I corpi dei Germani sono descritti anche negli Annales dello stesso Tacito da Germanico in un discorso tenuto ai suoi legionari prima della battaglia nel campo Idistaviso (16 d. C.) con l'intenzione di minimizzare la forza e il valore dei nemici,:"Iam corpus ut visu torvum et ad brevem impetum validum, sic nulla vulnerum patientia: sine pudore flagitii, sine cura ducum abire, fugere, pavidos adversis, inter secunda non divini, non humani iuris memores." ( II, 14), il loro corpo poi, come è minaccioso a vedersi e gagliardo per un breve assalto, così non ha resistenza alle ferite, senza vergogna del disonore, senza curarsi dei capi, si allontanano, fuggono, spaventati nelle avversità, immemori nel successo di ogni legge divina e umana. Germanico, nipote dell’imperatore Tiberio, padre di Agrippina e dell’imperatore Caligola e nonno di Nerone, vincerà questa battaglia contro Arminio del 16 d. C.
Suo zio Tiberio secondo Tacito ne provò invidia e lo trattenne dal procedere, quindi lo allontanò e probabilmente lo fece avvelenare. Il giovane eroe di Tacito dunque morì nel 19 a 44 anni. Questo nell’ultima opera dello storiografo, gli Annales appunto[3].
Nella Germania invece Tacito descrive con ammirazione preoccupata questa gens non astuta nec callida (22, 3), non astuta né scaltrita, un popolo comunque bellicoso che considera vergogna massima avere abbandonato lo scudo (scutum reliquisse praecipuum flagitium , 6) e chi se ne è macchiato viene escluso dalle cerimonie sacre e dalle assemblee, e anzi molti usciti vivi dalla guerra misero fine alla loro vergogna con l'impiccagione
A questa gens la pace è sgradita (ingrata genti quies , 14) ed è più difficile persuaderli ad arare la terra e ad aspettare il raccolto che a provocare il nemico e a guadagnarsi delle ferite:" Nec arare terram aut expectare annum tam facile persuaseris quam vocare hostem et vulnera mereri ; pigrum quin immo et iners videtur sudore adquirere quod possis sanguine parare (14), che anzi sembra pigrizia e inettitudine acquistare con il sudore quello che ci si può procurare con il sangue.
Germani, laeta bello gens si legge ancora nelle Historiae[4] (IV, 16), una razza contenta di fare la guerra.
Non mancano tuttavia di debolezze: non sono ugualmente frugali nel mangiare e nel bere:"Cibi simplices, agrestia poma, recens fera aut lac concretum : sine apparatu, sine blandimentis expellunt famem", i cibi sono semplici, frutti selvatici, selvaggina fresca o latte rappreso: senza mense sontuose, senza cibi stuzzicanti, scacciano la fame.
Nei confronti della sete però non hanno la medesima moderazione, quindi, se li si asseconderà nella tendenza all'ubriachezza, fornendo loro quanto agognano, potranno essere vinti più facilmente con i vizi che con le armi :"Adversus sitim non eadem temperantia. Si indulseris ebrietati suggerendo quantum concupiscunt, haud minus facile vitiis quam armis vincentur " (23).
Anche Seneca in un'Epistola a Lucilio, mette in rilievo il fatto che l'ebrietas ha causato disfatte a genti del resto animose e guerriere:"Cogita quas clades ediderit publica ebrietas: haec acerrimas gentes bellicosasque hostibus tradidit, haec multorum annorum pertinaci bello defensa moenia patefecit, haec contumacissimos et iugum recusantes in alienum egit arbitrium, haec invictos acie mero domuit " (83, 22), pensa quali rovine ha prodotto l'ubriachezza di un popolo: questa ha consegnato ai nemici genti molto fiere e bellicose, questa ha spalancato mura difese con una guerra che durava da molti anni, questa ridusse in potere di altri uomini ribelli a tutto e intolleranti del giogo, questa domò col vino soldati invitti in battaglia.
Come persone vengono ricordati Alessandro Magno e Antonio che amò il vino non meno di Cleopatra (23-25). Aggiungo i Galli che seguirono Asdrubale e vennero sconfitti sul Metauro (luglio 207 a. C.) dai consoli Claudio Nerone e Livio Salinature.
Altro loro vizio è il gioco d'azzardo (alea , 24) nel quale dopo aver perduto tutto stabiliscono come posta la libertà personale e, se la perdono, mantengono la parola data in questo vizio riprovevole con un'ostinazione ( in re prava pervicacia) che loro chiamano lealtà (fidem).
Ma la debolezza più grande di questa gente è l' odium sui (33), l'odio degli uni per gli altri, quindi l'odio della propria razza, e l'accorato auspicio di Tacito è che questa disposizione autodistruttiva sussista per il bene di Roma.
Dei Germani di fatto l'impero non ebbe mai ragione.
Il pericolo delle popolazioni nordiche è segnalato già da Sallustio, che pur confonde i Germani con i Celti, nell'ultimo capitolo (114) del Bellum Iugurthinum (composto tra il 43 e il 40 a. C.):"Per idem tempus advorsum Gallos ab ducibus nostris Q. Caepione et Cn. Manlio male pugnatum: quo metu Italia omnis contremuit. Illimque usque ad nostram memoriam Romani sic habuere: alia omnia virtuti suae prona esse; cum Gallis pro salute, non pro gloria certari ", nel medesimo tempo i nostri comandanti combatterono male contro i Galli e tutta l'Italia ne tremò di paura. Da allora fino ai nostri giorni i Romani pensarono che tutto il resto fosse prono al loro valore; con i Galli si lottava per la salvezza non per la gloria.
Sallustio si riferisce a una sconfitta subita dai Romani ad Arausio (Orange), nellla Gallia Narbonese. nell'ottobre del 105.
Santo Mazzarino precisa che " i Galli vincitori di Cepione, dei quali Sallustio parla, sono in realtà i Cimbri, Teutoni ed Ambròni, tutte popolazioni germaniche e non celtiche (galliche), sebbene fossero alleate con i celtici Elvezii. Ma insistendo sulla "terribilità" dei Galli, confusi in tal modo con le popolazioni germaniche, Sallustio vuole mettere in rilievo questo significato eccezionale dell'impresa gallica di Cesare. Contro gli altri popoli si combatte per la gloria; contro i "Galli" per sopravvivere. La minaccia germanica, che Sallustio ritiene erroneamente "gallica", fu sentita da questi Romani del I° secolo a. C. come il più grave dei pericoli; le sconfitte di Cepione e di Manlio erano un avvenimento di importanza mondiale"[5].
Tacito, nella fase dell'imperialismo che Mazzarino definisce "accorto e moderato (e se si vuole: rinunciatario)"[6], ossia quando scrive la Germania (98 d. C.) attualizza l'ultimo capitolo del Bellum Iugurthinum di Sallustio e prega che permanga la discordia dei Germani:"maneat, quaeso, duretque gentibus, si non amor nostri, at certe odium sui, quando urgentibus imperii fatis, nihil iam praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam "(33), rimanga e duri a lungo, speriamo, tra quelle genti, se non l'amor di noi, almeno l'odio tra loro, poiché, incombendo il destino dell'impero, niente di meglio ci può concedere la fortuna che la discordia dei nemici. Questa speranza della lotta tra i Germani è "un motivo-nota lo stesso Mazzarino[7]- che arriverà sino ad Orosio: geri bella gentium , Or, VII, 43, 14-15", ossia al V secolo d. C.
Più avanti (Germania, 37) Tacito ricorda che il pericolo dei Germani incombe sull'Italia da circa 21O anni, ossia dalla disfatta inflitta dai Cimbri nel 113 a. C. a Norēia (in Carinzia) al console Papirio Carbone, quindi fa del sarcasmo sulle vittorie tentate nei confronti di questo popolo bellicoso per il quale come si è detto, la guerra è una gioia:" tam diu Germania vincitur ", da tanto tempo si vuole vincere la Germania, e afferma che i Germani in realtà sono i nemici più temibili :"quippe regno Arsacis acrior est Germanorum libertas ", poiché la libertà dei Germani è più fiera del regno di Arsace[8]; poi lo storico passa in rassegna le altre sconfitte subite dalle legioni romane (quella di Cassio Longino nel 107 a. C., quella di Servilio Cepione e Manlio Massimo ad Arausio nel 105, quella di Varo a Teutoburgo nel 9 d. C.), e mette in rilievo il costo (nec impune) delle vittorie di Cesare (su Ariovisto), di Druso, Tiberio, Germanico; infine lo storiografo chiude il capitolo facendo dell'ironia sui trionfi di Domiziano:"Nam proximis temporibus[9] triumphati magis quam victi sunt ", infatti nei tempi più recenti (i Germani) hanno subito più trionfi che sconfitte.
"Il tacitiano regno Arsacis acrior est Germanorum libertas e tam diu Germania vincitur , del c. 37 della Germania , è concetto sallustiano, prima di essere tacitiano: lo si ritova infatti, tal quale, nell'ultimo capitolo del Bellum Iugurthinum , sempre a proposito dei Cimbri...Come Sallustio, anche Tacito pensava spesso in termini di antica grandezza e di sopravvenuta decadenza"[10].
Vero è pure che negli Annales i quali dovevano raccontare le vicende dalla morte di Augusto (ab excessu divi Augusti ) a quella di Nerone, e furono scritti, a partire dal 111, quando " Traiano s'è distinto nelle due guerre daciche[11] (del 101-102 e 105-107)", c'è nell'autore "un imperialismo velleitario, che pretende la sottomissione piena dei Germani, e rimprovera a Tiberio il richiamo di Germanico"[12]. L'imperatore fermò il nipote (15 a. C.-19 d. C.), figlio di suo fratello Druso e di Antonia minore, sorella di Marco Antonio il triumviro
Germanico nel 16 d. C. aveva vendicato a Idistaviso la disfatta di Teutoburgo inflitta da Arminio a Varo nel 9 d. C., e questa vendetta poteva bastare secondo tiberio che voleva frenare il nipote per impedirne l’ascesa:"Posse et Cheruscos ceterasque rebellium gentis, quoniam Romanae ultioni consultum esset, internis discordiis relinqui " (Annales , II, 26), si potevano lasciare alle loro discordie interne i Cherusci e gli altri popoli ribelli, poiché si era provveduto alla vendetta di Roma. Lo storico dunque attribuisce tendenziosamente tale strategia all'invidia di Tiberio:"Haud cunctatus est ultra Germanicus, quamquam fingi ea seque per invidiam parto iam decǒri abstrǎhi intellegeret ", Germanico non indugiò oltre, sebbene capisse che quegli argomenti erano falsi, e che per invidia veniva strappato alla gloria già raggiunta.
E' l'ipocrisia di Tiberio più volte evidenziata da Tacito insieme con la sua crudeltà.
Germanico dunque non poté procedere verso l'Elba:" i Romani, pur vincitori nel campo Idistaviso (16 d. C.), non hanno potuto compiere-com'era il piano di Germanico-la sottomissione dei popoli germanici fino all'Elba; e presto Germanico fu richiamato da Tiberio. E ciò soprattutto perché Tiberio vedeva nelle imprese del figlio adottivo una guerra di ultio "vendetta" per Teutoburgo, anziché una guerra di conquista: e poiché, secondo la concezione augustea, le guerre affidate al ductus ("condotta") dei generali si compiono sempre per gli auspicia del monarca (per esempio ductu Germanici, auspiciis Tiberii ), così il punto di vista di Tiberio era decisivo…Ma il fallimento del piano di Germanico è tanto più evidente e degno di rilievo, in quanto sanzionò per sempre le conseguenze della sconfitta di Teutoburgo[13] sotto Augusto…non è improbabile che Tiberio facesse affidamento, piuttosto che su avventure di guerra, sui conflitti e le rivalità fra tribù e stirpi germaniche: quei conflitti che opposero i Cheruschi ai Marcomanni, il cui capo Marbod finì poi a Ravenna la sua avventurosa vita e per cui infine Arminio cadde ad opera di un suo congiunto"[14].
Pesaro 19 settembre 2023 ore 11, 05 giovanni ghiselli
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[1] Erodoto, Storie , IX, 122.
[2] Questo topos etnografico si trova pure in Seneca (De ira, I, 11; De Providentia 4, 14) con valenze diverse.
[3] Gli Annales, composti da Tacito negli anni successivi al 111 d. C., dovevano continuare l'opera di Livio: il titolo dei manoscritti Ab excessu divi Augusti echeggia il liviano Ab urbe condita. Dell'opera che doveva andare dalla morte di Augusto a quella di Nerone ci sono arrivati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI con gli avvenimenti dalla morte di Augusto (14 d. C.) a quella di Tiberio (con una lacuna per gli anni 29-31); inoltre i libri XI-XVI con il regno di Claudio, dal 47, e quello di Nerone fino al 66. Mancano gli anni 29-31 e 37-47.
[4] Composte entro il 110 d. C.
[5]S. Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico , Laterza, Bari, 1974, II, 1, pp. 202-203.
[6]Il Pensiero Storico Classico , II, 1, p. 461.
[7]Op. cit., p. 462. ,
[8] Fondatore del regno dei Parti (nel 256 a. C.), altri nemici tradizionali di Roma.
[9] Negli anni 83-85 Domiziano condusse campagne militari contro i Chatti, situati sulla riva destra del medio Reno. Il trionfo celebrato nell'83 viene ricordato anche da Svetonio ( Vita di Domiziano, 6).
In realtà queste campagne avevano rinforzato il confine renano dell'impero con la creazione degli agri decumates , ossia dei terreni sottoposti alla decima.
[10]S. Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico , II, 1, p. 464.
[11] La Dacia (corrispondente grosso modo all'attuale Romania) fu ridotta a provincia.
[12]S. Mazzarino, Il Pensiero Storico Classico , II, 1, p. 461.
[13] Del 9 d. C.
[14] S. Mazzarino, L'impero romano, 1, p. 141.
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