A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Volevamo vedere che cosa c’era al di là. Oltre l’aia in leggero pendio, la china del colle diventava quasi un burrone che scendeva a precipizio fino a un fosso depresso. Era appena visibile in mezzo a lunghe canne tra le quali scorreva forse dell’acqua. Il fondo della discesa divideva il colle, sulla cui cima avevo lasciato l’automobile, da una collina posta a oriente, meno alta e già tutta nell’ombra. Scendevamo verso quell’infossatura della madre terra. Volevo mostrare qualche cosa di infimo e oscuro alla creatura in procinto di offrimi il suo amore, per metterla in guardia facendole vedere il correlativo oggettivo della mia anima poco chiara perfino a se stessa. Dopo avere scorto il rivolo di acqua che sembrava scendere verso zone infernali, dissi con enfasi comica eppure contaminata da una nota di dolore:
“Guarda bellezza, laggiù nell’ombra umida e densa, in mezzo alle canne già oscurate dal buio della lunga notte autunnale, scorre un rigagnolo che vomita una nebbia mefitica. Avviciniamoci per capire se sia un affluente del tartareo Acheronte, dello Stige odioso, del Cocito o di un altro fiume del pianto senza conforto”
In quel momento, per mia debolezza, volevo impressionare e sconcertare la splendente ragazza che invece era determinata a vivere una storia d’amore bella e gioiosa con me.
A un tratto dissi: “Andiamo!” e cominciai subito a correre verso il cupo fondo di quella fossa che già coagulava in grumi freddi le lunghe, umide, inquiete ombre del tramonto avanzato. Ifigenia mi seguiva con fretta minore. Quando fui giunto nel fondo, sedetti davanti alle canne diritte davanti all’acqua muta e quasi immota del fosso. “Fosso Seiore tra Pesaro e Fano” pensai, poi “ il quartiere Fossolo dove vivo a Bologna. Sono l’uomo dei fossi o delle fosse. Ora relegato e affossato in una quarta ginnasio”.
Ifigenia era rimasta indietro. Quindi continuai a pensare: “la canne e il fosso rendono l’immagine del crine e dell’umido solco muliebre”. Alcuni aspetti della natura mi hanno fatto immaginare prima, e ricordare poi diverse parti del corpo già misterioso delle femmine umane che fin da bambino scrutavo con insaziabile, maniaca curiosità, come osservavo a lungo le forme della grande madre terra interrogandola, volendo comprendela, parlare con lei, chiederle aiuto. Per questo già prima dei dieci anni, sfuggito alle zie, salivo in solitudine su per i prati e i boschi allora semideserti della valle di Fassa, oppure mi insinuavo trepidamente nei luoghi dai quali potessi intravedere cosce e mutande di donne: sotto i tavoli e sui sentieri fiancheggiata dall’erba e dai fiori, volevo scoprire e capire la madre natura nei suoi aspetti più vivi, più genuini, più riposti e nascosti,
Il seno riflesso
nel sole
Ifigenia arrivò poco dopo. Dissi: “vedi quanto è depresso questo fondo? Ti ci ho portato per mostrarti il correlativo oggettivo della mia decadenza. Non ti conviene amarmi bellezza. Potrei trascinare in basso anche te.
Non si lasciò impressionare: tirò dentro i polmoni l’aria recuperando la lena perduta, tirò fuori la voce e sorridendo disse:
“Gianni, dammi un bacio, ti prego”
Mi trovai spiazzato di nuovo. Ancora una volta mi stava superando con la forza della sua concretezza e semplicità.
Provai comunque a replicare per metterla in guardia da me:
“Perché vuoi che ti baci? Non hai sentito quello che ti ho detto? Potrei farti del male”.
“Ho sentito-rispose con sicurezza aristocratica, senza accennare a scomporsi né a stupirsi- ho sentito e ho capito ma non sono d’accordo. Non sarai tu a farmi precipitare in un burrone con te, sarò io piuttosto a tirarti su con l’entusiasmo che sento per te e la forza della mia giovinezza: tu salirai con me in luoghi alti e illuminati dal sole, com’è ancora la cima di questo colle dove torneremo tra poco tenendoci stretti per mano. Io ho bisogno di te, del tuo metodo, della tua cultura, della tua disciplina, e tu hai bisogno dei miei slanci, della mia ammirazione, se vuoi comprendere tutto il tuo raro, reale valore e trovare il coraggio di manifestarlo. Hai già avuto l’ammirazione dei tuoi studenti, ora hai il mio amore che può darti molto di più. Io ti adoro e non posso non fare di tutto per essere contraccambiata”.
Riuscii a non abbracciarla e baciarla, ma non potei evitare di guardarla con ammirazione mentre il suo volto si accendeva di luce amorosa e confidente nel fondo tenebroso di quelle colline. Le ero grato del fatto che mi incoraggiava a essere strano e inusuale, senza sentirmi in difetto per la mia radicale diversità dai più che poi sono i morti, gli stupidi e gli ignoranti.
Eppure avevo paura di amarla. Non ero ancora abbastanza inattuale rispetto alla volgarità del tempo. Mi inceppavano troppi pregiudizi contrari alla felicità. Temevo di perdere l’appoggio economico delle zie che mi volevano vedere con la testa a posto, cioè fidanzato e poi sposato con una vergine di “buona famiglia”, poi temevo di perdere le due amanti bolognesi che non amavo punto però mi facevano comodo venendo a letto con me non senza portarmi del cibo buono cucinato bene da loro, e dopo il concubinatus se ne tornavano a casa lasciandomi in pace.
Questa ragazza magari invece poteva crearmi difficoltà con il marito che avevo visto una volta venire a prenderla ed era grande e grosso: colui poteva spezzarmi le ossa leggere, da ciclista dotato per le salite, oppure lasciare la moglie, e allora avrei dovuto occuparmi anche troppo di lei. Insomma, chi me lo faceva fare? Tuttavia quella ragazza mi piaceva molto e addirittura l’amavo. Era dai tempi oramai lontani delle tre finniche che non desideravo tanto una donna. Le finniche però erano meno pericolose: sarebbero tornate nella loro terra lontana e tanti saluti!
Ifigenia a un tratto interruppe questo mio almanaccare.
“Gianni, fra pochi minuti quaggiù farà buio. Torniamo lassù a prendere l’ultimo sole, accompagnamolo a letto”. Pensai non senza apprensione che volesse poi accompagnare anche me fino al letto di casa mia.
“Dammi la mano-aggiunse- e tirami su perché sono stanca ma voglio risalire in fretta la china”
Non potei rifiutargliela. La sua piccola mano fremeva: la pelle sottile pulsava sollevata dal sangue. A mano a mano che si saliva, la luce cresceva. Quando giungemmo in cima, il sole non era ancora calato nel nido del suo riposo notturno. Ifigenia con volto raggiante disse: “hai visto gianni che hai avuto la forza di innalzare me e te stesso verso la luce? Io ti amo”
“Anche io pensai”, ma non glielo dissi per le ragioni dell’utile. Ma è un utile falso quello che nega l’amore. Me l’avevano inculcato fin da bambino. Quando portai Ifigenia a Pesaro l’estate successiva le donne di casa, mamma e zie, dissero in coro: “bella è bella, ma non ha un soldo”. Nemmeno vergine era, e lo sapevano bene. Per fare l’amore con lei dovevo farmi ospitare da un ex compagno di scuola e amico perché se l’avessimo fatto nella dimora delle pretificato sorelle ci avrebbero cacciato entrambi con ignominia. E mi avrebbero diseredato.
Disonorata e svergognata secondo loro era comunque Ifigenia poiché sapevano che eravamo amanti. Come potevo affidarmi a tale donna?
A qualsiasi donna pensavo io addirittura data la mala educazione ricevuta in casa e dai preti.
Ci accostammo dunque alla nera Volkswagen poi riprendemmo gli abiti cittadini per cambiarci di nuovo. Allora non usava la tuta in città.
Questa volta ci svestimmo e rivestimmo senza allontanarci l’uno dall’altro e dal cocuzzolo che solo oramai emergeva alla luce.
Ifigenia mi chiese di voltarmi e non guardarla spogliarsi fino a quando non ci saremmo accordati e trovati per fare l’amore. Mi spostai di pochi metri e mi girai verso il sole occidente.
Mentre guardavo il santo volto di luce le domandai a voce alta: “Ifigenia quale parte del tuo splendido corpo ti piace di più?”
“Il seno” rispose con uno squillo di gloria.
Allora mi parve di vedere riflesso quel magnifico seno nell’ultimo sorriso del sole. Il cielo intanto si stava accendendo di bagliori rossi da crepuscolo degli dèi.
Ifigenia arrivò poco dopo. Dissi: “vedi quanto è depresso questo fondo? Ti ci ho portato per mostrarti il correlativo oggettivo della mia decadenza. Non ti conviene amarmi bellezza. Potrei trascinare in basso anche te.
Non si lasciò impressionare: tirò dentro i polmoni l’aria recuperando la lena perduta, tirò fuori la voce e sorridendo disse:
“Gianni, dammi un bacio, ti prego”
Mi trovai spiazzato di nuovo. Ancora una volta mi stava superando con la forza della sua concretezza e semplicità.
Provai comunque a replicare per metterla in guardia da me:
“Perché vuoi che ti baci? Non hai sentito quello che ti ho detto? Potrei farti del male”.
“Ho sentito-rispose con sicurezza aristocratica, senza accennare a scomporsi né a stupirsi- ho sentito e ho capito ma non sono d’accordo. Non sarai tu a farmi precipitare in un burrone con te, sarò io piuttosto a tirarti su con l’entusiasmo che sento per te e la forza della mia giovinezza: tu salirai con me in luoghi alti e illuminati dal sole, com’è ancora la cima di questo colle dove torneremo tra poco tenendoci stretti per mano. Io ho bisogno di te, del tuo metodo, della tua cultura, della tua disciplina, e tu hai bisogno dei miei slanci, della mia ammirazione, se vuoi comprendere tutto il tuo raro, reale valore e trovare il coraggio di manifestarlo. Hai già avuto l’ammirazione dei tuoi studenti, ora hai il mio amore che può darti molto di più. Io ti adoro e non posso non fare di tutto per essere contraccambiata”.
Riuscii a non abbracciarla e baciarla, ma non potei evitare di guardarla con ammirazione mentre il suo volto si accendeva di luce amorosa e confidente nel fondo tenebroso di quelle colline. Le ero grato del fatto che mi incoraggiava a essere strano e inusuale, senza sentirmi in difetto per la mia radicale diversità dai più che poi sono i morti, gli stupidi e gli ignoranti.
Eppure avevo paura di amarla. Non ero ancora abbastanza inattuale rispetto alla volgarità del tempo. Mi inceppavano troppi pregiudizi contrari alla felicità. Temevo di perdere l’appoggio economico delle zie che mi volevano vedere con la testa a posto, cioè fidanzato e poi sposato con una vergine di “buona famiglia”, poi temevo di perdere le due amanti bolognesi che non amavo punto però mi facevano comodo venendo a letto con me non senza portarmi del cibo buono cucinato bene da loro, e dopo il concubinatus se ne tornavano a casa lasciandomi in pace.
Questa ragazza magari invece poteva crearmi difficoltà con il marito che avevo visto una volta venire a prenderla ed era grande e grosso: colui poteva spezzarmi le ossa leggere, da ciclista dotato per le salite, oppure lasciare la moglie, e allora avrei dovuto occuparmi anche troppo di lei. Insomma, chi me lo faceva fare? Tuttavia quella ragazza mi piaceva molto e addirittura l’amavo. Era dai tempi oramai lontani delle tre finniche che non desideravo tanto una donna. Le finniche però erano meno pericolose: sarebbero tornate nella loro terra lontana e tanti saluti!
Ifigenia a un tratto interruppe questo mio almanaccare.
“Gianni, fra pochi minuti quaggiù farà buio. Torniamo lassù a prendere l’ultimo sole, accompagnamolo a letto”. Pensai non senza apprensione che volesse poi accompagnare anche me fino al letto di casa mia.
“Dammi la mano-aggiunse- e tirami su perché sono stanca ma voglio risalire in fretta la china”
Non potei rifiutargliela. La sua piccola mano fremeva: la pelle sottile pulsava sollevata dal sangue. A mano a mano che si saliva, la luce cresceva. Quando giungemmo in cima, il sole non era ancora calato nel nido del suo riposo notturno. Ifigenia con volto raggiante disse: “hai visto gianni che hai avuto la forza di innalzare me e te stesso verso la luce? Io ti amo”
“Anche io pensai”, ma non glielo dissi per le ragioni dell’utile. Ma è un utile falso quello che nega l’amore. Me l’avevano inculcato fin da bambino. Quando portai Ifigenia a Pesaro l’estate successiva le donne di casa, mamma e zie, dissero in coro: “bella è bella, ma non ha un soldo”. Nemmeno vergine era, e lo sapevano bene. Per fare l’amore con lei dovevo farmi ospitare da un ex compagno di scuola e amico perché se l’avessimo fatto nella dimora delle pretificato sorelle ci avrebbero cacciato entrambi con ignominia. E mi avrebbero diseredato.
Disonorata e svergognata secondo loro era comunque Ifigenia poiché sapevano che eravamo amanti. Come potevo affidarmi a tale donna?
A qualsiasi donna pensavo io addirittura data la mala educazione ricevuta in casa e dai preti.
Ci accostammo dunque alla nera Volkswagen poi riprendemmo gli abiti cittadini per cambiarci di nuovo. Allora non usava la tuta in città.
Questa volta ci svestimmo e rivestimmo senza allontanarci l’uno dall’altro e dal cocuzzolo che solo oramai emergeva alla luce.
Ifigenia mi chiese di voltarmi e non guardarla spogliarsi fino a quando non ci saremmo accordati e trovati per fare l’amore. Mi spostai di pochi metri e mi girai verso il sole occidente.
Mentre guardavo il santo volto di luce le domandai a voce alta: “Ifigenia quale parte del tuo splendido corpo ti piace di più?”
“Il seno” rispose con uno squillo di gloria.
Allora mi parve di vedere riflesso quel magnifico seno nell’ultimo sorriso del sole. Il cielo intanto si stava accendendo di bagliori rossi da crepuscolo degli dèi.
Pesaro 25 settembre 2023 ore 10, 57
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