Bisogna imparare a diventare indifferenti agli artifici, alle lusinghe, alle speranze cui siamo sensibili poiché piacciamo a noi stessi:"Desinimus tarde, quia nos speramus amari;/ dum sibi quisque placet, credula turba sumus " (vv. 685-686), smettiamo tardi poiché speriamo di essere amati; finché ciascuno di noi piace a se stesso, siamo una massa di creduloni.
Su questo punto voglio confutare Ovidio.
Per esperienza posso dire che se uno non piace a se stesso non solo non può piacere agli altri, ma nemmeno gli altri possono piacergli.
Aggiungo, guidato da W. Jaeger, che Aristotele, nell'Etica Nicomachea , (IX 8) esprime un alto apprezzamento della filautiva, cioè dell'amore di sé che non è triviale egoismo, al contrario. "Le parole stesse d'Aristotele c'insegnano senza equivoco possibile ch'egli ha invece l'occhio rivolto anzitutto, per l'appunto, ad atti del più eccelso eroismo morale: chi ama se stesso deve essere instancabile nell'adoprarsi in pro degli amici, sacrificarsi per la patria, cedere volonteroso denaro, beni ed onore ‘facendo suo il Bello in se stesso…Invero vivere breve tempo in somma gioia sarà preferito, da chi sia animato da tale amor di sé, ad una lunga esistenza in pigra quiete. Egli vivrà piuttosto un anno solo per uno scopo elevato, che non condurre una lunga vita per nulla. Compirà piuttosto un'unica magnifica e grande azione, che non molte insignificanti’[1]. In queste parole è espressa la fondamentale concezione della vita dei Greci, nella quale ci sentiamo loro affini d'indole e di razza: l'eroismo"[2].
Un'altra insidia da cui dobbiamo guardarci secondo Ovidio è quella delle lacrime femminili:"Neve puellarum lacrimis moveare caveto;/ut flerent, oculos erudiere suos" (vv. 689-690), e bada di non farti commuovere dalle lacrime delle ragazze; hanno ammaestrato i loro occhi a piangere (moveare=movearis, erudiere=erudierunt).
E' questo un altro luogo comune della diffidenza verso le donne. Lo troviamo nel Coriolano di Shakespeare quando Tullo Aufidio, comandante dei Volsci, dice:" Per qualche goccia di lacrime di donna che sono a buon mercato come le bugie, egli ha venduto il sangue e la fatica della nostra grande impresa. Perciò deve morire" (V, 6).
Eppure le lacrime vanno rivalutate poiché testimoniano, al pari dei sorrisi, dell'unità del genere umano:"l'unità cerebrale dell'Homo sapiens si manifesta nell'organizzazione del suo cervello, unico in rapporto agli altri primati; c'è infine un'unità psicologica e affettiva: certo, le risa, le lacrime, i sorrisi sono modulati diversamente, inibiti o esibiti a seconda delle culture, ma, malgrado l'estrema diversità di queste culture e dei modelli di personalità imposti, risa, lacrime, sorrisi sono universali e il loro carattere innato si manifesta nei sordo-muti-ciechi dalla nascita, che sorridono e piangono senza aver potuto imitare nessuno"[3].
Le lacrime manifestano commozione e la creano. Alcuni autori hanno simpatia per le lacrime: Euripide è stimolato a comporre dal carattere patetico del soggetto: al drammaturgo ateniese, come a Virgilio[4], interessano le situazioni piene di pianto. Il piangere, come scarso controllo delle situazioni, come uscita dalla realtà, può essere consolatorio :"come sono dolci le lacrime per quelli che vivono male (wJ" hJdu; davkrua toi'" kakw'" pepragovsi )/e i lamenti dei pianti e una musa che narri il dolore " afferma il coro delle Troiane (vv. 608-609).
La razionalità viene sopraffatta dal patetico e dal pianto che può essere pure piacevole:"avanti, ridesta lo stesso lamento/solleva il piacere che viene dalle molte lacrime (a[nage poluvdakrun aJdonavn)", si esorta Elettra nella tragedia euripidea di cui è eponima (vv. 125-126).
Nell'Elena, Menelao che ha ritrovato Elena dichiara il suo amore e la sua felicità con il pianto: "le mie lacrime sono motivo di gioia: hanno più/dolcezza che dolore"(654-655).
La confusione e la mescolanza dei sentimenti, la voluttà delle lacrime è reperibile pure in D'Annunzio: Tullio Hermil, ebbro di sentimenti buoni e amorosi per Giuliana prima di scoprirla impura, ne beve le lacrime con felice voluttà:"-Oh, lasciami bere- io pregai. E, rilevandomi, accostai le mie labbra ai suoi cigli, le bagnai nel suo pianto"[5].
Il pentametro del distico successivo dei Remedia Amoris ricorda un'immagine dell'Edipo a Colono:"Artibus innumeris mens oppugnatur amantum,/ut lapis aequoreis undique pulsus aquis" (vv. 691-692), l'animo di chi ama è assalito da innumerevoli artifici, come uno scoglio battuto da tutte le parti dalle onde marine.
Nel III Stasimo dell'ultima tragedia di Sofocle, il coro, dopo un'affermazione di sapienza silenica con relativo rifiuto di tutta la vita e della vecchiaia in particolare, paragona l'anziano profugo cieco colpito da sciagure terribili a una scogliera boreale che battuta dalle onde da tutte le parti viene percossa d'inverno ( "pavntoqen bovreio" w{" , ti" ajkta;-kumatoplh;x ceimeriva klonei''''tai" Edipo a Colono, 1240-1241).
Mi venne in mente quando mi trovai sul lugubre scoglio di capo Nord che sovrasta un cupo mare dove dormono i mostri. Sapevo di essere stato orbato della compagna e della figlia avuta da lei. Ma ora so che doveva andare così perché potessi studiare con tutte le forze e scrivere con il talento acuito anche da questa esperienza dolorosa e funerea.
Segue il consiglio del silenzio:"Qui silet, est firmus; qui dicit multa puellae/probra, satisfieri postulat ille sibi" (697-698), chi tace è saldo; chi muove molti rimproveri alla sua fanciulla, pretende giustificazioni.
Nell'amore l'unica giustificazione è l'amore stesso e la medesima cosa si può dire per il non amore.
Sentite il Satyricon: “Sembra che il collante dell’unione di Trimalchio con Fortunata sia l'interesse economico: anzi degli smisurati beni del marito assente pare si occupi solo la moglie onnipresente:"ipse nescit quid habeat, adeo saplutus est; sed haec lupatria providet omnia, est ubi non putes. est sicca, sobria, bonorum consiliorum-tantum auri vides,-est tamen malae linguae, pica pulvinaris. Quem amat, amat; quem non amat, non amat" (37, 6-8), lui nemmeno sa quanto possieda tanto è straricco; ma questa troia vede e provvede a tutto, è dove tu non penseresti. E' astemia, frugale, di buoni propositi, vedi altrettanto oro, tuttavia ha una brutta lingua, una gazza da cuscino. Chi ama ama, chi non ama non ama.
Bisogna evitare tutte le occasioni di ricaduta: non rileggere le lettere:"scripta cave relegas blandae servata puellae;/constantis animos scripta relecta movent" (717-718), guardati dal rileggere gli scritti della ragazza messi da parte quando era carezzevole; gli scritti riletti commuovono anche animi forti. Infatti gli scritti del passato esprimono stati d'animo passati.- constantis=constantes. Segue un'immagine che potremmo definire "protobarocca" poiché Ovidio consiglia di fare bruciare anche l'ardore amoroso interno da un fuoco divoratore esterno:"Omnia pone feros-pones invitus-in ignes/et dic "Ardoris sit rogus iste mei" (vv. 719-720), getta tutto nel fuoco divampante, lo getterai contro voglia, e di' :"questo sia il rogo del mio ardore”.
Per rendere più concreta l'immagine e spiegare che non è impossibile buttare nelle fiamme una parte di se stessi, Ovidio ricorre a un esempio mitico: quello di Altea la quale gettò nel fuoco la vita del proprio figliolo Meleagro, ossia un tizzone spento dalla cui conservazione dipendeva il proseguimento della vita del giovane che aveva fatto infuriare la madre uccidendone i fratelli.
. Altro rischio di ricaduta sta nella vicinanza delle immagini che vanno allontanate:"Si potes et ceras remove; quid imagine muta/carperis? hoc periit Laodamia modo" (vv. 723-724), se puoi allontana anche le immagini; perché ti lasci afferrare da un muto ritratto? in questo modo morì Laodamia.
Questa donna, rimasta vedova del marito Protesilao , primo caduto tra i Greci sbarcati a Troia, cercò di consolarsi della perdita con un manichino di cera che abbracciava di nascosto. Quando il padre se ne accorse e gettò quel funereo surrogato nel fuoco, la donna lo seguì.
Un mito di amore e morte simile a questo si trova nell'Alcesti di Euripide quando Admeto promette alla sposa morente che non prenderà in casa un'altra femmina umana in carne ed ossa ma si farà costruire una bambola simile a lei e la abbraccerà nel loro letto invocando il suo nome:"yucra;n mevn, oi\mai, tevryin" (v. 353), gelida gioia, credo.
Anche i luoghi dell'amore perduto bisogna evitare:"Et loca saepe nocent; fugito loca conscia vestri/concubitus; causas illa doloris habent./"Hic fuit; hic cubuit; talamo dormiimus illo;/ hic mihi lasciva gaudia nocte dedit"./ Admonitu refricatur amor vulnusque novatum/scinditur; infirmis culpa pusilla nocet" (vv. 725-730), anche i luoghi spesso -fanno male; evita i luoghi consci della vostra unione; quelli conservano motivi di dolore. " Qui è stata; qui si è stesa; in quel letto abbiamo dormito; qui mi ha dato gioie in una notte sfrenata".
Dal ricordo viene ravvivato l'amore e la ferita rinnovata si riapre; ai malati fa male un errore pur piccolo. Obietto che se da un rimpianto doloroso si vuole ricavare un “capolavoro” a questo è funzionale il ricordo preciso di situazioni e luoghi che vanno rivisti magari prendendo appunti. Scrivere richiede non solo genio ma anche disciplina.
-nocent...nocet: pure questo termine, etimologicamente imparentato con nex, necis , "uccisione", con pernicies, rovina, e con il greco nevku" , morto, nevkuia , evocazione dei morti, richiama l'idea insistente della negazione della vita sempre presente in questo rimpianto," vano pascolo d'uno spirito disoccupato"[6].
-loca conscia: i luoghi al corrente delle nostre azioni o dei nostri pensieri echeggiano i fatti di cui sono stati testimoni. Leopardi attribuisce la coscienza delle sue notti travagliose al letto dove le passava:"sul conscio letto, dolorosamente/alla fioca lucerna poetando…" (Le Ricordanze, vv. 115-116), con un nesso però che risale piuttosto ad Apuleio il quale fa dire a un personaggio del suo romanzo:"gratabule, inquam, animo meo carissime, qui mecum tot aerumnas exanclasti, conscius et arbiter quae nocte gesta sunt…" ( Metamorfosi, I, 16), lettuccio, dico, carissimo all'animo mio, che con me tante tribolazioni hai sopportato, conscio e giudice di quanto è stato fatto questa notte.-gaudia…vulnusque novatum scinditur : è un'operazione contraria a quella del tw''''''''// pavqei mavqo" ossia della ferita che deve fiorire" in tanta luce"[7]: la gioia, non autentica, non profonda, solo epidermica, si capovolge in ferita.
Segue il rapporto cenere-fuoco-amore. Questa volta però leggiamolo prima in un moderno: il protagonista del romanzo Il piacere (del 1889) si sente ravvivato dalla visione di "Donna Maria…per Andrea quella signora alta e ondulante sotto il mantello di viaggio e velata, di cui egli non vedeva che la bocca e il mento, ebbe una profonda seduzione. Tutto il suo essere, illuso in quei giorni da una parvenza di liberazione, era disposto ad accogliere il fascino dell' "eterno feminino". Appena smosse da un soffio di donna, le ceneri davano faville"[8].
Ora vediamo quello che potrebbe essere il modello dell'immagine dannunziana:"Ut, paene extinctum cinerem si sulphure tangas, /vivet et e minimo maximus ignis erit,/ sic, nisi vitaris quidquid renovabit amorem,/ flamma redardescet, quae modo nulla fuit" (vv. 731-734), come se attizzi con lo zolfo la cenere quasi spenta essa si ravviverà e da un piccolissima scintilla verrà una grandissima vampa, così, se non avrai schivato tutto ciò che rinnovellerà l'amore, la fiamma che poco prima era sparita di nuovo divamperà.-vitaris=vitaveris.
Nemmeno il poeta di Sulmona che dall'esilio definirà se stesso " tenerorum lusor amorum"[9], lieto cantore dei teneri amori, riesce a trovare sempre qualche cosa di festoso nella fiamma erotica.
Segue un'affermazione di stampo platonico: la ricchezza è un'occasione per l'amore sregolato il quale ne viene nutrito:"divitiis alitur luxuriosus amor " (v. 746). Vengono fatti gli esempi delle famose cretesi lussuriose, Pasife e Fedra, che se fossero state povere come Ecale e Iro non sarebbero arrivati ai noti eccessi:"Nempe quod alter egens, altera pauper erat " (v. 748), evidentemente poiché uno era povero, e l'altra possedeva poco. Ecale é la vecchietta che, nell' omonimo epillio di Callimaco, diede ospitalità a Teseo, e Iro il pitocco di Itaca steso da Odisseo (Odissea XVIII libro).
Un platonismo applicato all'eros, si diceva: infatti il filosofo, nel Gorgia, denuncia il potere, e quindi anche la ricchezza ad esso congiunta, come occasione per fare il male e pone i tiranni tra i grandi criminali incurabili (ajjjjnivatoi, 525c) poiché hanno commesso i delitti più atroci e non espiabili. Costoro, non potendo più redimersi, servono come paradeivgmata, esempi negativi per gli altri, stando sospesi nel carcere dell'Ade. Tra questi contromodelli ci sarà il despota Archelao[10] e quanti altri, tiranni, re, dinasti e politici, sono portati dal loro stesso potere a delinquere gravemente. Per avallare questa affermazione è chiamato in causa Omero che ha rappresentato Tantalo, Sisifo e Tizio "ejn {{Aidou to;n ajei; crovnon timwroumevnou""(525e), puniti nell'Ade per sempre: questi erano appunto re e dinasti; mentre Tersite, e chiunque altro sia stato malvagio da privato cittadino ("ijdiwvth"") non ha avuto occasione di fare tanto male, e per questo si può considerare più fortunato dei potenti dai quali provengono "oiJ sfovdra ponhroiv" (526a) quelli malvagi assai.
Ovidio però consiglia la povertà:"Non habet unde suum paupertas pascat amorem;/non tamen hoc tanti est, pauper ut esse velis" (vv. 749- 750), la povertà non ha nulla con cui possa nutrire l'amore; tuttavia questo fatto non è tanto importante da voler essere povero. Sembra che il poeta propenda per quella teoria della classe media che abbiamo indicato in Euripide.
Ovidio procede esortando a non frequentare i teatri finché ci si vuole liberare dall'amore :" Enervant animos citharae lotosque lyraeque/et vox et numeris bracchia mota suis" (753-754), stremano la volontà le cetre il flauto e le lire e il canto e le braccia mosse secondo i ritmi impressi. –lotos è un grecismo: cfr. lwtov~ in Baccanti 687.
Si ricorderà che nell'Ars (I, 89 ) il poeta aveva consigliato il predatore erotico di andare a caccia soprattutto nei teatri, ma in quel contesto la condizione spirituale dell'allievo era diversa, e il maestro deve dare prova di flessibilità nell'interesse del discepolo.
Questo è così preminente che Ovidio nei Remedia arriva, pur controvoglia, a sconsigliare i poeti d'amore:"Eloquar invitus; teneros ne tange poetas! " (v. 757). Segue una rassegna di questi poeti teneri che inteneriscono l'animo quando questo al contrario si deve indurire. Li conosciamo quasi tutti; possiamo ripassarli nella prospettiva ovidiana.
"Callimachum fugito; non est inimicus Amori;/et cum Callimacho tu quoque, Coe, noces./Me certe Sappho meliorem fecit amicae,/nec rigidos mores Teia musa dedit./Carmina quis potuit tuto legisse Tibulli,/vel tua, cuius opus Cynthia sola fuit?/Quis poterit lecto durus discedere Gallo?/Et mea nescio quid carmina tale sonant" (vv. 759-766), evita Callimaco; non è ostile all'amore; e con Callimaco anche tu fai danni, poeta di Cos. Certamente Saffo mi ha reso più generoso con l'amica, né la musa di Teo ha prescritto costumi severi. Chi ha potuto leggere le elegie di Tibullo restando al sicuro, o le tue la cui occupazione fu la sola Cinzia? Chi potrà allontanarsi insensibile dopo avere letto Gallo? Anche le mie poesie echeggiano un non so che di simile.-fugito: il solito imperativo futuro delle prescrizioni e delle massime.-inimicus amori : Callimaco non è contrario all'amore ma certamente la sua poesia non è incline al pathos erotico, come nota Snell. L'autore di La cultura greca e le origini del pensiero europeo prende in considerazione alcuni epigrammi del poeta di Cirene, tra cui quello già citato (Anth. Pal. XII, 102) del suo amore che, come il cacciatore, insegue chi fugge mentre passa oltre chi gli giace disteso davanti. Un altro epigramma emblematico (A. P. XII, 134) è quello in cui il poeta nota i segni dell'amore doloroso di un commensale per vederci il proprio:"fwro;" d j i[cnia fw;r e[maqon", io ladro, riconosco le tracce del ladro.
"Egli descrive dunque l'amore altrui solo per poter confessare il proprio…Per mezzo di questa forma indiretta Callimaco ha evitato l'espressione patetica "io amo"; la confessione ne risulta ironicamente spezzata, e sembra che la dichiarazione d'amore gli sia sfuggita per caso"[11].-Coe: il poeta di Cos è Filita (IV-III sec. a. C.) ritenuto con Callimaco maestro della nuova poesia alessandrina. Properzio invoca insieme i mani dei due poeti perché lo lascino entrare nella loro selva sacra (III, 1, 1-2).-Teia musa: è quella di Anacreonte, nato a Teo, nella Ionia, e vissuto all'incirca tra il 570 e il 485 a. C. Frequentò i tiranni Policrate di Samo e Ipparco di Atene.-rigidos mores: infatti nell'opera di Anacreonte prevale la cavri" , la grazia:"cariventa mevn g jjjj ajeivdw, cariventa d j oi\da levxai (fr. 32 D., v. 2), canto cose piacevoli, parole piacevoli so dire.
Dicevo sopra della flessibilità di Ovidio.
Contro l'irrigidimento mentale, o morale o presunto tale, usa una bella immagine Emone nell'Antigone quando cerca di indurre il padre a una maggiore flessibilità, intesa come mitezza[12]:"Tu vedi presso le correnti gonfie come,/quanti tra gli alberi si piegano, salvano i rami, /mentre i renitenti sono annientati con le stesse radici" (vv. 712-714) .
Gli fa eco H. Hesse:" L'universale torrente delle forme, quello che Dio aspirava insieme con l'altro, ovvero che Dio espirava, continuava a scaturire. Klein vedeva esseri che si opponevano alla corrente e tra paurose convulsioni si inalberavano procurandosi orrendi dolori: eroi, delinquenti, pazzi, pensatori, amanti, religiosi"[13].
-Tibulli: il poeta nell'elegia proemiale (I, 19) in effetti si presenta, in contrapposizione al guerriero Messalla Corvino, suo amico e protettore del resto, come un servo legato e umiliato da Delia:"me retinent vinctum formosae vincla puellae,/et sedeo duras ianitor ante fores" (vv. 55-56), mi trattengono legato le catene della bella fanciulla, e siedo come portiere davanti ai duri battenti.-tua (sott. carmina): di Properzio.-Cyntia sola fuit: echeggia le dichiarazioni dello stesso poeta nel primo dei quattro libri di elegie, pubblicato nel 28 a. C. "Tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes (I, 11, 23) , tu sola sei per me, Cinzia, la casa, sola i genitori, e, nell'elegia successiva i già citati vv. 19-20 che escludono tutte le altre donne.
Siccome questi tovpoi amorosi si ripetono, in tutti i tempi, a vari livelli, ricordo una canzone di amore struggente, molto in voga nei primi anni sessanta, L'uomo del banjo, che faceva:" è lei la prima e l'ultima, che cosa mai ci avrà?/ è lei la più difficile che solo male mi fa!" Quindi: “potessi anch’io suonar così,/ il mondo scorderei,/ di notte ormai non dormo più/ per non sognarmi di lei! La mia generazione cantava canti d’amore fino al 67 poi canti politici. Ora c’è il rumore drogato e alcolizzato.
-lecto…Gallo: ablativo assoluto. E' il primo elegiaco del canone di Quintiliano che attribuisce grande credito a questi poeti:"elegia quoque Graecos provocamus"( Institutio oratoria, X, 10, 93), anche nell'elegia sfidiamo i Greci. Noi conosciamo Galli attraverso la mediazione di Virgilio. Lo abbiamo già ricordato, per pochi versi che contengono già le parole chiave dell'elegia latina:domina, servitium amoris, nequitia "che definisce uno dei caratteri distintivi di questa vita vissuta con sofferenza contro i valori portanti della morale quiritaria"[14]. Ma di questa Ovidio non si cura.
Pesaro 3 settembre 2023 ore 11, 15 giovanni ghiselli
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[1] Etica Nicomachea, IX, 8, 1169a 18 ss.
[2] W. Jaeger, Paideia, 1, p. 47.
[3] E. Morin, op. cit., p. 74.
[4] Cfr. :" sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt" (Eneide, I, 462), ci sono lacrime per le sventure e le vicende mortali toccano il cuore.
[5]L'Innocente.p. 145.
[6] G. D'Annunzio, Il Piacere, p. 40.
[7] H. Hesse, Siddharta , p.135.
[8] G. D'Annunzio, Il piacere, p. 155.
[9] Tristia, IV, 10, 1.
[10]Tiranno di Macedonia dal 413 a. C.
[11] Il giocoso in Callimaco, in La cultura greca e le origini del pensiero europeo, di B. Snell, p. 379.
[12] Ora invece significa facoltà di licenziare arbitrariamente.
[13]H. Hesse, Klein e Wagner , p. 162.
[14] G. B. Conte, Scriptorium classicum, 2, p. 104.
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