Nella cronaca di Bologna del quotidiano “la Repubblica” di ieri, nella pagina 6, leggo questo titolo:
La lezione del professor Prodi
“Ragazzi, la politica è vita e umanità”
Nell’articolo firmato da Silvia Bignami trovo citate alcune parole dell’intervistato.
E’ necessario, dice il professore, ritrovare la fiducia:
“La differenza più grande tra me stesso alla vostra età, e voi, è che la mia generazione aveva una grande fiducia nel futuro. Il paese deve ritrovare il senso di ottimismo”.
Questo va benissimo, però manca la ricerca della causa di questa perdita della fiducia. Ho qualche anno meno di Prodi ma ho vissuto anche io il disincanto dei giovani della sua età.
Ho provato più volte a dirne i motivi.
La rivoluzione culturale del 1968 fu evento mondiale che mi aiutò a riconoscere e approvare del tutto gli aspetti migliori del mio carattere e ad assumere i tratti decisivi del mio stile di insegnante: non demagogicamente permissivo come furono molti durante l’auge del movimento studentesco, né, tanto meno, dispotico come altri, o magari gli stessi sono diventati nella fase regressiva della restaurazione iniziata alla fine del ’69 in concomitanza con la prima delle stragi .
Allora cominciavo a insegnare e volevo diventare un educatore interessato alla crescita umana e culturale degli studenti. Sarebbe stata parallela alla mia.
“L’umanità visse allora-scrive Benedetto Croce- uno di quei rari momenti nei quali la lieta fiducia di sé stessa e del suo avvenire tutta la riempie, e ampliandosi nella purezza di questa gioia, essa si fa buona e generosa, e vede attorno a sé fratelli e ama”[1]
Cito queste parole riferendole al momento di lieta fiducia della mia generazione.
Da questo movimento studentesco, dunque, presi la fiducia di poter ridurre lo squilibrio che ancora sentivo tra la mia vita e i miei sogni, tra le mie capacità e i miei atti.
Ma nel 1969 iniziarono le stragi. La fiducia dei giovani nel futuro continuò per inerzia circa un triennio. Nell’estate del 1974 era già finita.
Ecco come la racconto
Decadenza e morte dell’ethos politico dei primi anni Settanta
Vidi Päivi nell’ombroso cortile dell’Università il
giorno del ricevimento del rettore, giovedì 25 luglio, verso le quattro del
pomeriggio.
Nell’estate del ’74 erano tornati là con me Danilo, Ezio, Alfredo, Fausto, Silvano, e
Bruno . Quel pomeriggio di luglio, noi Italiani superstiti della Debrecen ’66,
prossimi alla soglia dei trenta, cantavamo canzoni comuniste e partigiane come
i reduci di una guerra perduta: la nostra rivoluzione giovanile era
invecchiata, senza lasciare ai ventenni l’eredità di un ethos politico. Noi
stessi eravamo variamente appassiti, quanto meno segnati da rughe evidenti nel
volto e sul collo, mentre le mani erano percorse da grosse vene bluastre in
rilievo. Alcuni avevano perduto i capelli, altri erano incanutiti, altri
ingrassati; insomma noi eravamo ormai gli “ospiti antichi” dell’Università
estiva di Debrecen, così ci salutò il rettore che ci aveva conosciuti ragazzi e
battezzati quali matricole otto anni prima, così ci chiamavano anche i nuovi
ventenni, poiché è proprio vero che noi mortali siamo come le foglie
Il nostro gruppo di nati alla fine della seconda guerra mondiale, presentava
personaggi ancora giovani, eppure avvizziti, piegati e ripiegati su se stessi,
anche se non degradati proprio del tutto come sosteneva a gran voce il povero
Bruno, del resto non senza qualche ragione. Si erano comunque già appesantiti
gli arti di tutti noi, e nel frattempo il sogno di realizzare presto su questa
terra la giustizia, l’eguaglianza, il comunismo, o cristianesimo vero , perdeva
forza, forma e colore nei nostri cervelli. La borghesia affaristica e il suo
dio, il denaro, la mercificazione universale che riduce tutto al lucro,
compresi gli affetti, stava prendendo di nuovo il sopravvento. Da cinque anni
oramai le stragi dai mandanti impuniti facevano i loro massacri di vite umane e
di simpatia, di fiducia tra gli umani.
Non riconoscevamo nei nuovi giovani i nostri eredi spirituali.
Dirigeva il coro di reduci vinti, da sopra una seggiola zoppa, Antonella, una ragazza romana, intelligente e carina sebbene claudicante anche lei.
Suonava il pianoforte, e in veste di ierofante guidava il nostro coro di confratelli e compagni comunisti delusi, un austriaco cieco, o non vedente come si dice adesso ipocritamente. Fatto sta che, mentre suonava, quell’uomo muoveva furiosamente gli inutili occhi, scuoteva la testa grossa e ricciuta, sbuffava da froge enormemente dilatate e ogni tanto apriva le fauci, facendo uscire dalla chiostra dei denti e dalle tumide labbra, una lingua piena di brame. Credo di non togliergli niente ricordandolo come appariva.
Era comunque un bravo suonatore di piano e una cara persona.
Anzi, mi fece pure pensare a opere d’arte: a
diversi quadri di Picasso e al prato della sventura di Empedocle, l’Agrigentino
vissuto e morto miticamente.
In quel nostro cantare così accompagnato e diretto dai movimenti della testa
del pianista, c’era qualcosa di stanco e penoso: un poco perché la fede
politica cui inneggiavamo si era affievolita nelle coscienze, e ancora di più
poiché sentivamo che una fase dell’esistenza, i venti anni, le brevi avventure
amorose, le bevute con chiacchiere prolungate fino alle luci dell’alba, le
ragazzate goliardiche, stava finendo, e bisognava trovare qualche cosa di nuovo
da fare, di cui emozionarci o appassionarci, se non volevamo morire.
Pesaro 18 settembre 2023 ore 10, 33 giovanni ghiselli
p. s.
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