martedì 12 settembre 2023

Corso di ottobre-novembre XXV Satyricon 19. Tradimento e pena. L’orrore della derisione.


 

La cena è finita. Procediamo cercando qualche altra situazione densa di significati.

 Alla fuga segue la notte d'amore con la trasfusione delle anime (79), di cui si è già detto, tra Encolpio e Gitone, poi il puer finisce tra le braccia di Ascilto. Succede una scenata dei due fratres rivali che arrivano vicini alla violenza; ma tra loro si frappone Gitone:"inter hanc miserorum dementiam infelicissimus puer tangebat utriusque genua cum fletu petebatque suppliciter ne Thebanum par humilis taberna spectaret neve sanguine mutuo pollueremus familiaritatis clarissimae sacra" (80, 3), in mezzo a questa follia di disgraziati il ragazzo abbracciava le ginocchia dell'uno e dell'altro e chiedeva supplicando che quella misera locanda non diventasse teatro della coppia di Tebe e che non contaminassimo con sangue reciproco la sacralità di un'amicizia luminosissima. La dementia evoca i folli amori, già indicati (Bucoliche, II, 69; VI, 47; Georgica IV, 488) di alcuni personaggi virgiliani; il Thebanum par allude a Eteocle e Polinice i figli reciprocamente fratricidi di Edipo e Giocasta i quali "per duplice destino, in un sol/giorno morirono, avendo colpito e pure/ battuti con la contaminazione della loro stessa mano".

Così li presenta Creonte nell'Antigone (vv. 170-172) di Sofocle; ma Petronio ha in mente piuttosto le Fenicie di Euripide, rielaborate dalle Phoenissae di Seneca. In questo dramma Giocasta cerca di metter pace tra i figli che guidano gli eserciti nemici offrendo il ventre:"civis atque hostis simul/hunc petite ventrem, qui dedit fratres viro!" (vv. 446-447), cittadini e nemici insieme, colpite questo ventre che diede fratelli al marito! Un  gesto che Tacito attribuisce ad Agrippina, come vedremo, quasi un tovpo" gestuale.

 Gitone invece offre la gola:"Quod si utique-proclamabat-facinore opus est, nudo ecce iugulum, convertite huc manus, imprimite mucrones. Ego mori debeo, qui amicitiae sacramentum delevi" (80, 4), che se un delitto è comunque necessario-gridava- ecco io denudo la gola, rivolgete qua le mani, piantateci i pugnali. Devo morire io che ho distrutto il vincolo santo dell'amicizia.

E' una sceneggiata che va dal pugnale al riso. Il contrario nel Macbeth :"There's daggers in men's smile" (II, 4), ci sono pugnali nei sorrisi degli uomini.

La Giocasta di Seneca tenta di fermare la guerra fratricida con parole non dissimili:"In me arma et ignes vertite, in me omnis ruat/ unam iuventus…/hunc petite ventrem, qui dedit fratres viro,/haec membra passim spargite ac divellite:/ego utrumque peperi…/…si placuit scelus, maius paratum est: media se opponit parens" (Phoenissae, vv. 443-457), volgete contro di me le armi e il fuoco, su me sola si avventi tutta la gioventù…assalite questo ventre, che ha dato fratelli al marito, lacerate e spargete queste membra da ogni parte: io ho generato entrambi…se è deciso il crimine, ne è pronto uno più  grande: si contrappone in mezzo vostra madre. Come si vede il modello tragico è ripreso da vicino, ma il comportamento successivo di Gitone, che poi senza esitare sceglie Ascilto e se ne va con lui, svuota di pathos  la sua offerta svelandola come "gesticolazione melodrammatica"[1] priva di ogni serietà.

Conte indica modelli precedenti che hanno influenzato a loro volta questo senecano: "il mito delle donne sabine che si interpongono tra padri e mariti per impedire la strage reciproca" in Tito Livio (I, 13) e "il grido disperato di Niso che offre la propria vita per quella dell'amico Eurialo nel celebre episodio dell'incursione notturna al campo dei Rutuli in Eneide, 9, 427-430…Proprio in virtù della sua "tipicità", la sceneggiatura principale permette a Petronio di lavorare per accumulo di paradigmi mitici; la coppia di Tebe con Giocasta ma non solo: anche le Sabine, anche Eurialo e Niso amplificano l'illusione sublime che cattura il povero Encolpio fino a renderlo vittima di quella realtà che non sa decifrare"[2].

 Finalmente i due rivali depongono le armi e Ascilto propone che sia il puer a scegliersi il frater più congeniale:"Puer ipse quem vult sequatur, ut sit illi saltem in eligendo fratre salva libertas" (80, 5), il ragazzo segua chi vuole, perché abbia piena libertà almeno nella scelta del fratello. La libertas, condizionata, che rimane in tale situazione è quella di scegliere tra due pretendenti  pervertiti.

"In realtà al rivale, forte dell'adulterio appena consumato con Gitone, bastano gli strumenti della più elementare psicologia per avere gioco facile: parlando in nome di una libertà da tutelare ("affinché abbia integra almeno la libertà di scegliere il fratello": al puer ogni altra libertà era dunque negata), Ascilto  dipinge Encolpio nelle vesti odiose del padrone e arroga per sé il ruolo di difensore dei diritti violati"[3].

Encolpio pensava che una vecchissima consuetudine fosse diventata vincolo di sangue e non ebbe timore, anzi afferrò la proposta con fretta precipitosa e affidò la sentenza nelle mani del giudice:"Ego qui vetustissimam consuetudinem putabam in sanguinis pignus transisse, nihil timui, immo condicionem praecipiti festinatione rapui commisique iudici litem" (80, 6). Qui appare l'ingenuità dello scholasticus che non ha imparato né dalla vita, né dai libri dove si legge[4] che i vincoli di sangue non sono necessariamente legami di affetto.

In effetti Gitone neppure esitò "et fratrem Ascylton elegit" e scelse come amante Ascilto. Gitone insomma, a proposito del paradigma mitico tebano, non è Antigone la quale sente come vincolanti i legami di sangue, quelli che secondo Encolpio si erano costituiti,  ma li rifiuta, al pari di Eteocle e Polinice. Ascilto "egreditur superbus cum praemio" (80, 8), esce superbo con il premio, come un guerriero o un atleta vincitore, in questo caso un atleta del sesso, "et paulo ante carissimum sibi commilitonem fortunaeque etiam similitudine parem in loco peregrino destituit abiectum" e abbandona in luogo straniero, dopo averlo gettato via, il compagno d'armi fino a poco prima carissimo e in coppia con lui anche nella somiglianza della sorte. Così Encolpio si identifica con l'amante tradita, Arianna e le altre che abbiamo visto nella sezione loro dedicata.

Seguono quattro distici che denunciano la non affidabilità dell'amicizia e la mutevolezza dei ruoli che assumiamo via via nella commedia della vita:"nomen amicitiae sic, quatenus expedit, haeret;/calculus in tabula mobile ducit opus./cum fortuna manet, vultum servatis, amici;/cum cecidit, turpi vertitis ora fuga./grex agit in scaena mimum:pater ille vocatur,/filius hic, nomen divitis ille tenet./mox ubi ridendas inclusit pagina partes,/vera redit facies, assimulata perit"(80, 9), il ruolo dell'amicizia  rimane attaccato fino a quando è utile; la pedina sulla scacchiera conduce l'azione volubile; mentre resta la buona fortuna, conservate il volto amici; una volta caduta, girate la faccia in fuga vergognosa. La compagnia mette in scena un mimo: quello fa la parte del padre, questo del figlio, quello ha il ruolo del ricco. Appena però la pagina ha chiuso le parti comiche, torna la faccia vera, la simulata sparisce.

 Questo guasto estremo per il quale gli affetti vengono simulati in vista dell'utile viene già lamentato da Teognide che denuncia i matrimoni d'interesse tra nobili impoveriti e cafoni arricchiti, poi da Euripide nella Medea attraverso la già indicata cultura pragmatica di cui è portatore Giasone. E' il culto del denaro che porta questo stravolgimento dei valori aristocratici: "con la ricchezza, la più bella e desiderata di tutte le cose, anche un uomo vile diventa nobile" leggiamo nella Silloge teognidea (vv. 1117-1118). Cicerone nel suo libretto De amicitia (del 44) fa sostenere da Lelio, contro gli Epicurei, che che l'amicizia deve essere indipendente dalla considerazione dell'utile:"mihi quidem videntur, qui utilitatis causa fingunt amicitias, amabilissimum nodum amicitiae tollere" (14), a me certo sembra che coloro i quali rappresentano amicizie in vista dell'utile dissolvono il nodo più amabile dell'amicizia. Infatti in questo caso essa diventa una simulatio, una finta. Il vero amico infatti si riconosce nelle difficoltà, afferma più avanti Cicerone citando Ennio:"Amicus certus in re incerta cernitur" (17) e aggiunge che la base della stabilità necessaria all'amicizia è la "fides; nihil est enim stabile quod infidum est" (18), niente infatti di ciò che è sleale è stabile.

 Così abbiamo trovato un  punto di contatto con l'amore che ha altrettanto bisogno della fides.      

  Ma il modello di questi versi del Satyricon è costituto da alcuni esametri di Lucrezio:"Quo magis in dubiis hominem spectare periclis/convenit adversisque in rebus noscere qui sit;/nam verae voces tum demum pectore ab imo/eliciuntur <et> eripitur persona, manet res" (De rerum natura, III, 55-58), tanto più è necessario provare la persona nei pericoli rischiosi e conoscerne la qualità nelle situazioni sfavorevoli; infatti le parole autentiche allora finalmente escono dal fondo del cuore e si strappa la maschera, rimane la sostanza.

 Dell'amore come partita a scacchi abbiamo già detto; qui tutti i rapporti umani sono assimilati a un gioco, più massacrante che divertente, di calcolo e d'astuzia.

 

 Il tema del mondo come palcoscenico e della vita come recita dove uomini e donne sono attori è spesso ripreso dal teatro barocco.

Sentiamo per tutti Shakespeare:" All the world's a stage-And all the men and women merely players" (As you like it, II, 7), tutto il mondo è un palcoscenico e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi, continua il malinconico Jaques, hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti, poiché sette età costituiscono gli atti". Segue la descrizione dei sette atti. Ci interessa il secondo: quello dello "scolaro piagnucoloso che con la sua cartella e col suo mattutino viso si trascina come una lumaca malvolentieri alla scuola"; poi il terzo quello dell' innamorato "che sospira come una fornace, con una triste ballata composta per le sopracciglia dell'amata". Infine "l'ultima scena che chiude questa storia strana e piena di eventi è seconda fanciullezza e completo oblio, senza denti, senza vista, senza gusto, senza nulla". Nella Vita di Svetonio troviamo l'ultima scena di Augusto il quale supremo die , fattisi mettere in ordine i capelli e le guance cascanti, domandò agli amici "ecquid iis videretur mimum vitae commode transegisse" (99), se a loro sembrasse che  avesse recitato bene la farsa della vita, quindi chiese loro, in greco, degli applausi con la solita clausula delle commedie:" eij de; ti-e[coi kalw'" to; paivgnion, krovton dovte", se è andato bene questo scherzo applaudite.    

Tale idea che la vita umana è "una parte" da recitare è contenuta nel vocabolo greco che indica il destino: movro" infatti è il mevro" , la parte che tocca ad ogni uomo. Queste due parole, come moi'ra (sorte)  derivano dalla radice mer-/mor-/mar-. Imparentato con questi termini è il verbo latino mereo , guadagno, merito, poiché la propria parte bisogna meritarla come ci ha fatto notare Hillman.    

 

Dopo questo smacco Encolpio va a lamentarsi vicino al mare come tutti gli  amanti desolati della tradizione, con la variante del fiume:" collegi sarcinulas locumque secretum et proximum litori maestus conduxi" (81), raccolsi la mia poca roba e, triste, presi in affitto un luogo appartato e vicino alla spiaggia.

Qui il desolato giovane rimane tre giorni a battersi il petto, a singhiozzare e a gridare invocando la morte con pose e parole suggerite dalla suggestione libresca o "l'abito letterario", che a Emilio Brentani di Svevo  "fece pensare il paragone fra quello spettacolo[5] e quello della propria vita. Anche là, nel turbine, nelle onde di cui una trasmetteva all'altra il movimento che aveva tratto lei stessa dall'inerzia, un tentativo di sollevarsi che finiva in uno spostamento orizzontale, egli vedeva l'impassibilità del destino"[6].

Leggiamo qualche parola del melodrammatico lamento di Encolpio:"Ergo me non ruina terra potuit haurire? Non iratum etiam innocentibus mare?" (81, 2-3), dunque la terra non poteva inghiottirmi in una voragine? Non il mare, infuriato anche con chi non ha colpe?  Questa obsecratio del vagabondo ricorda pure le automaledizioni degli eroi tragici ed epici: Didone, per esempio, quando sente le tracce dell'antica fiamma, rinnovatsi per Enea, cerca di scongiurare quanto poi invece farà, lanciando un anatema contro di sé:"Sed mihi tellus optem prius ima dehiscat,/vel pater omnipotens abigat me fulmine ad umbras,/pallentis umbras Erebi noctemque profundam,/ante, Pudor, quam te violo aut tua iura resolvo" (Eneide, IV, 24-27), ma per me la terra prima dal suo fondo si apra, o il padre onnipotente mi cacci con il suo fulmine tra le ombre, le pallide ombre dell'Erebo e nella notte profonda, prima o Pudore che offenda te o le tue leggi infranga. Sappiamo come andò a finire.

"La metafora mare iratum, attestata la prima volta in Orazio (Epodi, 2, 6), è qui ampliata dall'aggiunta etiam innocentibus, a prima vista ingenua, ma resa inopinatamente pertinente dal contesto successivo, in cui Encolpio confesserà di essere tutt'altro che innocens"[7].  E' un accumulo di paradigmi letterari.

 

 Segue la confessione dei crimini da parte di Eumolpo che quindi può assumere il ruolo, anche serio, del personaggio tragico il quale soffre in conseguenza delle sue malefatte secondo la legge delfica che chi ha agito male patisce , come sentenzia già Esiodo nelle Opere  :"oi| g j aujtw'/ kaka; teuvcei ajnh;r a[llw/ kaka; teuvcwn" (v.265), a se stesso apparecchia il male l'uomo che lo prepara per un altro. Segue Eschilo nel primo dramma dell' Orestea:"paga chi uccide.Rimane saldo, finché Zeus rimane nel trono che chi ha fatto subisca: infatti è legge divina" ( Agamennone, vv.1562-1565).

Encolpio ha perfino ucciso un ospite (hospitem occidi) che costituisce uno dei peccati capitali dell'antichità. Vediamone altri in tre diversi autori.

 

Eschilo nelle Supplici  fa dire al coro che il rispetto dei genitori è scritto al terzo posto nelle tavole della Giustizia:"to; ga;r tekovntwn sevba"--trivton tovd& ejn qesmivoi"-Divka" gevgraptai"(vv. 707-709). Le altre due regole sono evitare la barbarie della guerra e onorare gli dèi.

Nelle Rane  di Aristofane Eracle avverte che si trova attuffato nel fango e nello sterco, tra gli altri, chi maltrattò la madre o colpì la mascella del padre (vv. 149-150), infine Virgilio colloca tra i peccatori del Tartaro "quibus invisi fratres, dum vita manebat,,/pulsatusve parens " [8], quelli dai quali furono odiati i fratelli, finché la vita restava, o maltrattato il padre.

 

 La nemesi dei delitti di Encolpio sta nel trovarsi mendico, esule, abbandonato in una taverna di una città greca (81, 3). Segue l'invettiva contro gli amanti che l'hanno abbandonato. Ascilto è un depravato, "omni libidine impurus" (81, 4), sconcio di ogni lussuria, stupro liber, stupro ingenuus, che si è fatto stuprare per diventare libero e di buona razza; inoltre ha messo in vendita la propria gioventù con un cartello, e si è prestato come ragazza a chi lo aveva affittato quale maschio. E' interessante notare che i delitti attribuiti al rivale sono tutti sessuali: il sesso in questa fase è  l'unico criterio del male e del bene.

 L'altro amante, ossia l'adolescente Gitone, viene bollato in maniera analoga:"qui die togae virilis stolam sumpsit" (81, 5), lui che il giorno della toga virile si è messo la stola, ossia la lunga veste delle matrone, come si ricorderà.

 

Secondo vari commentatori qui c'è un'eco della requisitoria di Cicerone contro Antonio:"sumpsisti virilem, quam statim muliebrem togam reddidisti. Primo volgare scortum; certa flagiti merces nec ea parva" (Filippica II, 44), hai preso la toga virile e l'hai resa subito  da donna. Prima, puttana pubblica, il prezzo dell'obbrobrio era fisso e non piccolo.

 

 Invero Gitone ha preso una veste rispettabile, sia pur da femmina, e forse Encolpio intende dire che lui l'avrebbe trattato e rispettato come una sposa. E' quello che, secondo Cicerone, fece Curione con Antonio:" Curio…qui te a meretricio quaestu abduxit et, tamquam stolam dedisset, in matrimonio stabile et certo conlocavit" (Filippiche , II, 44), Curione che ti ha tolto dal traffico della prostituzione e, come se ti avesse dato la stola, ti ha sistemato in un matrimonio stabile e certo.

Insomma l'invettiva contro Gitone contiene anche aspetti protettivi e comprensivi nei confronti del ragazzo che non ha nemmeno tutte le colpe "qui ne vir esset a matre persuasus est" (81, 5), lui che si è lasciato convincere dalla madre a non essere un uomo, poi ha fatto la donna, senza dignità, in ergastulo, in una galera di schiavi, poi anche peggio:"postquam conturbavit et libidinis suae solum vertit, reliquit veteris amicitiae nomen et, pro pudor, tamquam mulier secutuleia unius noctis tactu omnia vendidit", dopo avere perso i conti e rivoltato il terreno della sua lussuria, ha messo via la maschera dell'antica amicizia e, vergogna!, come una donna in calore ha liquidato tutto per i toccamenti di una sola notte.-conturbare nel senso di far saltare il conto (dei baci) si trova in Catullo (5, 11) e nel senso di fallire, fare bancarotta, nello stesso Satyricon (38, 16). Quanto al solum, questo evoca il corpo femminile come abbiamo visto , e rivoltarlo rende l'idea di un ampliamento del campo della lussuria, con nuovi atti di libidine  muliebre, da donna ninfomane. Infatti mulier secutuleia è quella che corre dietro agli uomini con insistenza ( l'aggettivo è un hapax formato da sequor e il suffisso -uleius che si trova, p. e. , in leguleius). Il nomen amicitiae era stato già smontato nel capitolo precedente: Gitone, figlio del suo tempo,  se ne è servito quatenus expediebat, fino a quando conveniva (cfr. 80, 9). 

 

L'abbandonato chiude il suo monologo con il lamento dell'amante chiuso fuori dalla porta e con la minaccia di una vendetta tremenda:"Iacent nunc amatores adligati noctibus totis, et forsitan mutuis libidinibus attriti derident solitudinem meam. Sed non impune. Nam aut vir ego liberque non sum aut noxio sanguine parentabo iniuriae meae" (81, 6), ora gli amanti giacciono avvinghiati per nottate intere, e forse, esauriti dalle passioni reciproche, scherniscono la mia solitudine. Ma la pagheranno. Infatti io non sono un uomo e una persona libera, o vendicherò l'offesa subita con il loro sangue colpevole.

Encolpio si tormenta immaginando le delizie dei due amanti e lo scherno nei suoi confronti .

Così già Properzio:"quin etiam multo duxisti pocula risu:/forsitan et de me verba fuere mala" (II, 9, 23-24), e anzi hai anche tirato giù molte coppe tra le risate: forse ci sono state anche parole offensive sul mio conto.

 

 

Excursus Il riso dei nemici.

L'orrore di essere derisa è un motivo, che ricorre nella Medea di Euripide  (cfr. vv. 405), ed è tra quelli che scatenano la furia della donna la quale non sopporta il disonore. Fallire non le dispiacerebbe tanto per il danno costituito dalla propria morte, quanto per la beffa subita dai nemici. Il riso come il pianto e il sorriso "non vengono appresi nel corso dell'infanzia ma sono innati. Le culture modulano diversamente le loro espressioni, possono indurre alla loro esibizione o alla loro inibizione, ma l'universalità di ciò che manifesta gioia, piacere, felicità, divertimento, tristezza, dolore, testimonia l'unità affettiva del genere umano. I grandi sentimenti sono in effetti universali: amore, tenerezza, affetto, amicizia, odio, rispetto, disprezzo"[9]. In questo caso Medea è mossa dal risentimento per il disprezzo che legge in quel gevlw" .

Anche la Medea di Apollonio Rodio, quando teme di essere lasciata da Giasone poco dopo averlo aiutato a conquistare il vello d’oro, lo minaccia dicendo che lui e gli altri Argonauti, se la abbandoneranno violando i patti, non resteranno lungo tempo tranquilli a schernirla (moi ejpillivzonte~, Argonautiche, 4, 389). Giasone allora si prese paura, e i due sciagurati ordirono l’assassinio di Assirto.

Nell'Eracle, Megara minacciata di morte con i figli dal tiranno Lico, afferma  che offrire occasione di riso ai nemici, per lei è un male peggiore della morte (vv. 285-286).

Nell' Aiace il Coro dei Marinai di Salamina dichiara il suo dolore per la degradazione dell'eroe resa evidente e penosa dal fatto che tutti sghignazzano (pavntwn kacazovntwn, v. 198). In questa tragedia il riso dei nemici è un Leitmotiv: poco più avanti (v. 367). lo stesso Telamonio lamenta di avere subito dai nemici l’ u{bri" della derisione

  Nell’ Elettra di Sofocle, Oreste è spinto alla vendetta anche dal desiderio di togliere il riso dalla faccia dei nemici con la sua venuta:"gelw'nta" ejcqrou;" pauvsomen th'/ nu'n oJdw'/ " (v. 1295).

Quando Alessandro Magno si apprestava a fondare Alessandria  jEscavth, l’ultima, sul fiume Tanai, gli Sciti d’Asia al di là del fiume lanciavano insolenze barbariche “barbarikw`~ ejqrasuvnanto[10] contro il comandante macedone per offenderlo, gridando che non avrebbe osato attaccarli. Quindi  Alessandro ordinò dei sacrifici che però non venivano bene; li fece ripetere e l’indovino Aristandro spiegò che essi indicavano un pericolo per  lui. Il condottiero macedone allora disse che era meglio affrontare l’estremo pericolo[11] (krei'sson e[fh ej" e[scaton kinduvnon ejlqei'n)  piuttosto che, dopo avere sottomesso quasi tutta l’Asia, gevlwta ei\nai Skuvqai~  (4, 4, 3),  essere oggetto di riso per gli Sciti, come era stato una volta Dario, il padre di Serse[12]. Questi re persiani sono due contromodelli.

Successivamente Alessandro attaccò xu;n ojrgh`/ , con ira, una fortezza impervia della Sogdiana provocato dall’altezzosità dei barbari. Questi, a una proposta di resa onorevole, gli avevano risposto ridendo (su;n gevlwti)  (p. 291) di cercarsi soldati con le ali per conquistare quel luogo impervio: “pthnou;~ ejkevleuon zhtei`n stratiwvta~” (4, 18, 6).

Nell’Olimpo rimpicciolito delle Argonautiche Era vuole aiutare Giasone perché prevalga sullo zio usurpatore  “affinché  non rida di me Pelia, sfuggendo alla sorte cattiva” (Argonautiche, 3, 64), dice ad Afrodite, chiedendole di mandare Eros a fare innamorare Medea del figlio di Esone. Del resto Giasone aveva aiutato la dea trasformata in una povera vecchia ad attraversare il fiume Anauro prendendola sulle spalle e portandola al di là dell’acqua impetuosa (vv. 72-73).

Nella Carmen di Bizet (libretto di Meilhac e Halévy tratto dal racconto di Mérimée) don José prima di uccidere la donna le dice che non sopporta di vederla correre entre ses bras rire de moi (IV, 2), tra le sue braccia a ridere di me. Nell’ultima scena della trasposizione cinematografica di Otto Preminger ( Carmen Jones, 1954) Harry Belafonte dice a Dorothy Dandrige: “ I’ll have no man laugh at me while you’re rolling around in his arms”, non voglio subire alcun uomo che rida di me mentre tu ti rotoli tra le sue braccia.

 

 Fine del’excursus

 

Pesaro 12 settembre 2023 ore 11, 26 giovanni ghiselli

 

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[1] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 6, p. 13.

[2] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 6, p. 16.

[3] G. B. Conte, Scriptorium Classicum 6, p. 16.

[4] Nel notissimo caso di Medea, per esempio, o in quello di Admeto dell'Alcesti.

[5] Del mare.

[6]Svevo, Senilità , pp. 225-226.

[7]G. B. Conte, Scriptorium Classicum 6, p. 23.

[8]Eneide , VI, vv. 608-609.

[9] E. Morin, L'identità umana, p. 41.

[10] Arriano,  Anabasi di Alessandro, 4, 4, 2.

[11] Il maestro che spinge alle imprese pericolose è Pindaro la cui casa venne risparmiata da Alessandro Magno quando (335 a. C.) distrusse Tebe che si era ribellata.

Nell’Olimpica VI   si legge :“ ajkivndunoi d  j ajretaiv-ou[te par j ajndravsin ou[t j ejn nausi; koivlai"-tivmiai” ( vv. 9-11), virtù senza pericolo non hanno onore tra gli uomini, né sulle concave navi.

 

[12] Erodoto nel IV libro racconta che gli Sciti schierati davanti ai Persiani si misero a inseguire una lepre. Allora Dario capì che quegli uomini lo disprezzavano e comprese il significato del dono simbolico che aveva ricevuto : un uccello, un topo, una rana e cinque frecce. Era giusta l’interpretazione di Gobria: se diventati uccelli non volerete in cielo, o topi non andrete sotto terra, o rane non salterete nelle paludi, sarete trafitti da queste frecce(4, 132). Gobria, sentito della lepre, disse che vedeva che quegli uomini si prendevano gioco dei Persiani: “oJrw'n ejmpaivzonta" hJmi'n” (4, 134, 3).

  

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