A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Del resto quel giorno, il 13 ottobre, ero tornato allegro grazie alla compensazione trovata nella splendidissima collega: recitai le due parti preparate sulla funerea Antigone e su decadente Petronio con vigorosa allegria: il solo pensiero di lei dissipava ogni nebbia. Mi donava gioia il solo pensiero che presto avrei abbracciato quella ragazza e che avrei potuto educarla. Poteva essere una lunga costruzione di crescita reciproca. Allora non sapevo che le mie fatiche impiegate per lei sarebbero andate in gran parte perdute come vedrete, cari lettori.
In quel tempo non avevo bisogno di donne amanti: due ne avevo a Bologna e almeno altre due a disposizione poco lontano, ma Ifigenia era più che una donna qualunque: per me incarnava un’idea: quella della vita piena, cioè sana, felice, trionfante nel sole, senza paure, divieti, rimpianti, rimorsi. Tutto questo vedevo in lei. Anche troppo, probabilmente, ma dovevo compensare il doloroso smacco subito nel lavoro dopo che per tre anni mi ero quasi ammazzato di studio perché nel liceo corresse la voce che aveva spinto Ifigenia verso la mia persona: che ero il professore più bravo del mazzo.
Lei era la femmina più bella e non solo tra le colleghe, e dunque la mia bravura era stata adeguatamente premiata. Ma una volta retrocesso al ginnasio, dovendo insegnare i tecnicismi del greco e del latino, e mi domandavo: con tale lavoro sarei rimasto all’altezza professionale e culturale cui ero arrivato o sarei regredito a ripetitore dei paradigmi verbali che già si trovano nel vocabolario?
Così avevo iniziato tre anni prima a Imola imitando i miei professori, e presto avevo capito che non bastava ad attiarare l’attenzione dei ragazzi i quali mi indicarono la strada giusta: “studiati e spiegaci la Nascita della tragedia” mi dissero, e lo feci, e sono ancora grato a quegli allievi adolescenti di avermi assegnato dei compiti più impegnativi e accrescitivi di quelli che mi avevano imposto i professori per anni.
Potevo consolarmi pensando: “ ma sì, dopo avere passato un intero triennio a studiare i testi greci e latini, a tradurli e commentarli, rimaneva la letteratura moderna da studiare: grandi autori che conoscevo appena, come Gončarov, Turgenev, Gogol, Dostoevskij, Tolstoj, Flaubert, Huysmans, Wilde, Joyce, Proust, Kafka, Thomas Mann, T. S. Eliot.
Poi anche la grammatica delle lingue antiche potevo insegnarle attraverso le parole più belle degli autori più bravi che avrebbero colpito la sfera emotiva dei ragazzini impressionando la loro memoria. Aggiungo adesso che all’epoca la scuola non era degradata come oggi e chi si iscriveva al ginnasio aveva una predisposizione per le lettere e una preparazione di base che ora non c’è.
Per lo meno conoscevano discretamente la lingua italiana.
Inoltre potevo e dovevo educare Ifigenia anche facendole ripassare il greco come mi aveva chiesto lei stessa. Iniziai raccontandole il Simposio di Platone. Facevo la parte di Diotima, la maestra dell’amore. Quindi passai al Fedro. Cercavo di comunicare a Ifigenia che Amore è il valore fondante, quello che avvalora la vita, il valore che ci spinge e innalza verso le vette più alti e durature: l’eroismo, l’arte, la gloria, insomma tutto quanto ci imparadisa e ci indìa.
Scoprirò con disincanto che Ifigenia in effetti mirava a elevarsi più che altro da una condizione socioeconomica modesta. Mi sembrava che tendesse a una scalata sociale prima di tutto. Vedevo che adorava esibirsi. Infatti mi disse presto che le sarebbe piaciuto recitare a teatro.
Anche la relazione con me era almeno in parte una scena.
Replicavo che anche insegnando si recita e cercavo pure di chiarirle il metodo, la via per ottenere l’ attenzione degli studenti, problema che è il primo di ogni giovane docente inesperto. Vero è che Ifigenia era bella assai, ma l’utenza del Minghetti era costituita prevalentemente di femmine, piuttosto rivali che inclini a innamorarsi di lei.
Questo duplice impegno di insegnarle dei contenuti e un metodo per presentarli fu una ragione di contatto reale, concreto e costruttivo tra noi. Fatto sta però che la vivevo come un’allieva e una figlia piuttosto che quale collega, sebbene la differenza di età fosse di soli nove anni.
Forse con lei recuperavo la diciannovenne Josiane, venuta a Debrecen dopo avere preso il diploma di maturità classica al liceo di Strasburgo , poi la stessa Josiane del 74 che studiava greco e latino all’Università e mi donò una rosa bianca con la dedica magister tibi l’ultima volta che la vidi, ed era appunto una ragazza più giovane di me quanto Ifigenia, una che mi era piaciuta assai lì a Debrecen, ma non ci avevo provato per serbare fedeltà la prima volta, nel 71, alla finnica Helena incinta di un altro, e la seconda, nel 74, alla finnica Päivi incinta di me.
Josiane è ancora uno dei grandi rimpianti della mia vita. Oramai dovrebbe essere sui Settanta anni se è viva. Se la incontrassi per la terza volta la corteggerei a oltranza.
Nell’autunno del 78 non avevo problemi di fedeltà promessa a chicchessia. Ero e mi sentivo libero come un fringuello.
Pesaro 24 settembre 2023 ore 16, 55
giovanni ghiselli
p. s
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