A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Mentre osservavo l’ultimo spicchio di sole cadere sotto l’orizzonte, mi tornarono in mente le preghiere di tanti giorni sereni: quando osservavo il tramonto dal mio studio dove avevo passato la mattina e buona parte del pomeriggio impegnato sui classici greci e latini, o quando scorgevo il dio luminoso che si annidava accarezzato da lievi, sereni venti estivi, mentre tornavo a casa in bicicletta alle nove di sera dopo avere scalato il colle di san Luca o la Croara o il monte Donato con impegno delle forze fisiche e mentali, o quando lo vedevo declinare nel cielo degli stadi dove spremevo tutte le energie correndo i 5000 metri nel minor tempo possibile, oppure ero sul molo del porto di Pesaro e lo vedevo calare nel mare a nord ovest del grattacielo di Rimini, e se ero solo, non mi saziavo di lacrime. Osservando i tramonti precoci dell’inverno o quelli meravigliosamente lunghi e attardati della stagione bella, sempre ho pregato la santa faccia del dio luminoso e non gli ho mai chiesto i miseri quattrini per gonfiare il ventre di cibo in ristoranti esosi, o per dormire in alberghi costosi, o comprare vestiti firmati; nemmeno il potere di fare del male agli altri ho mai chiesto nelle orazioni alla Mente dell’Universo, al primo tra tutti gli dèi, alla fiamma che nutre la vita, bensì amore, l’amore di una donna bella, fine, colta, intelligente, e non una volta sola Elio mi aveva esaudito; ed ecco che mentre ancora una volta il 28 ottobre del 1978 lo vedevo annidarsi, potevo rendergli grazie di avermi fatto ottenere la borsa di studio meritata con le grandi fatiche psicofisiche e le tante preghiere dirette a lui che porta la più evidente significazione di Dio.
Tramontato il sole, tornammo a Bologna. Quando ci salutammo dentro la Volkswagen a 300 metri da casa sua perché il cerbero di guardia non la vedesse accompagnata da un uomo, Ifigenia mi chiese un bacio. Trovai il coraggio di darglielo e riuscii a gustare l’aroma di quel frutto freschissimo: una prugna bruna bruna, inumidita da qualche goccia tiepida caduta da chissà dove rapida e fuggitiva, o una fragola ancora variegata di verde e profumata di bosco.
Il conto della perdita e del profitto. Il
pauroso gesuita ritrosetto
Dopo averla baciata, alla beatitudine succedette la paura. Paura di che? Dei morsi del cane bicefalo appostato a poche centinaia di metri? Della povertà conseguente al mancato sostegno familiare? Magari se mi fossi messo con Ifigenia e l’avessi portata a Pesaro ci avrebbero cacciati quali due peccatori dissoluti impudenti, e a me avrebbero fatto pagare l’affitto della casa che mi avevano comprato a Bologna.
“Non devi trasformarla in un casino, o guai a te” mi avevano detto. “Abbiamo avvertito il prete del Fossolo di tenerti d’occhio”. Il domine era venuto un paio di volte a bussare ma, riconosciuto lo spione dallo spioncino, non gli avevo aperto la porta, mettendolo certamente in sospetto.
Magari arrivava una zia e a questa avrei dovuto aprire.
In effetti tre anni più tardi venne la più anziana detta la badessa da sua madre e controllò le lenzuola del mio letto, grande e capace.
Sarebbe arrivata la povertà, quella vera, se mi avessero trattato da affittuario. Sicché feci una mezza marcia indietro e quando Ifigenia mi disse: “ti amo tanto!”, le risposi : “io abbastanza”. Ci rimase male e si allontanò un poco ingobbita.
Tornai a casa rattristato anche io. Non erano nemmeno le sette di sera ed era già notte. Il sole mi aveva tolto il suo favore, sicché ero caduto in disgrazia. Senza il conforto del dio luminoso avevo perduto il sostegno del mio difficile procedere sulla via del chiarimento di quanto volevo.
Certo, desideravo portarmela a letto, magari congedando le altre due che non potevano reggere il confronto con lei per l’aspetto assai meno lepido e l’età più avanzata. Ma quelle mi portavano a casa prelibatezze varie preparate da loro, questa, a quanto avevo capito, non sapeva fare nemmeno un uovo sodo. Per giunta aveva un marito grosso e ringhioso che poteva azzannarmi con quel ceffo e quei denti da cane molosso .
E i cerberi della mia scuola si sarebbero astenuti dallìabbaiare vedendoci amoreggiare?
Insomma la ragazza era deliziosa ma io potevo rovinarmi attraverso una relazione con lei. Sicché, afflitto dal buio del cielo e da quello della mia povera mente, mi chiedevo: “posso azzardare un assenso alla sua e alla mia concupiscenza?”. Non ne ero sicuro.
D’altra parte era arrivato il tempo di decidere se valeva la pena di correre il rischio, se non volevo perdere del tutto l’intraprendente bella ragazza che aveva mille altre possibilità, e non mi avrebbe permesso di eludere ancora la sua richiesta già iterata.
Ed io senza essere né andaluso, né bello, né giovinetto ero rimasto tutte le volte alquanto ritrosetto da pauroso gesuita qual sono
Dopo averla baciata, alla beatitudine succedette la paura. Paura di che? Dei morsi del cane bicefalo appostato a poche centinaia di metri? Della povertà conseguente al mancato sostegno familiare? Magari se mi fossi messo con Ifigenia e l’avessi portata a Pesaro ci avrebbero cacciati quali due peccatori dissoluti impudenti, e a me avrebbero fatto pagare l’affitto della casa che mi avevano comprato a Bologna.
“Non devi trasformarla in un casino, o guai a te” mi avevano detto. “Abbiamo avvertito il prete del Fossolo di tenerti d’occhio”. Il domine era venuto un paio di volte a bussare ma, riconosciuto lo spione dallo spioncino, non gli avevo aperto la porta, mettendolo certamente in sospetto.
Magari arrivava una zia e a questa avrei dovuto aprire.
In effetti tre anni più tardi venne la più anziana detta la badessa da sua madre e controllò le lenzuola del mio letto, grande e capace.
Sarebbe arrivata la povertà, quella vera, se mi avessero trattato da affittuario. Sicché feci una mezza marcia indietro e quando Ifigenia mi disse: “ti amo tanto!”, le risposi : “io abbastanza”. Ci rimase male e si allontanò un poco ingobbita.
Tornai a casa rattristato anche io. Non erano nemmeno le sette di sera ed era già notte. Il sole mi aveva tolto il suo favore, sicché ero caduto in disgrazia. Senza il conforto del dio luminoso avevo perduto il sostegno del mio difficile procedere sulla via del chiarimento di quanto volevo.
Certo, desideravo portarmela a letto, magari congedando le altre due che non potevano reggere il confronto con lei per l’aspetto assai meno lepido e l’età più avanzata. Ma quelle mi portavano a casa prelibatezze varie preparate da loro, questa, a quanto avevo capito, non sapeva fare nemmeno un uovo sodo. Per giunta aveva un marito grosso e ringhioso che poteva azzannarmi con quel ceffo e quei denti da cane molosso .
E i cerberi della mia scuola si sarebbero astenuti dallìabbaiare vedendoci amoreggiare?
Insomma la ragazza era deliziosa ma io potevo rovinarmi attraverso una relazione con lei. Sicché, afflitto dal buio del cielo e da quello della mia povera mente, mi chiedevo: “posso azzardare un assenso alla sua e alla mia concupiscenza?”. Non ne ero sicuro.
D’altra parte era arrivato il tempo di decidere se valeva la pena di correre il rischio, se non volevo perdere del tutto l’intraprendente bella ragazza che aveva mille altre possibilità, e non mi avrebbe permesso di eludere ancora la sua richiesta già iterata.
Ed io senza essere né andaluso, né bello, né giovinetto ero rimasto tutte le volte alquanto ritrosetto da pauroso gesuita qual sono
Bologna 25 settembre 2023 ore 16, 47.
giovanni ghiselli
p. s.
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