A. Feuerbach, Iphigenie (1862) |
Martedì 31 ottobre, a scuola, le diedi appuntamento per il giorno seguente, alle tre del pomeriggio, davanti alla libreria Feltrinelli.
La mattina del primo novembre mi accinsi all’incontro erotico che avevo deciso di proporre alla bella giovane donna come se avessi dovuto affrontare una difficile competizione sportiva premiata con un attestato dal valore trascendente quello dell’oro; una medaglia che anzi avrebbe ricevuto valore dalla mia vittoria in questo agone davvero olimpico e pure pitico e istmico e nemeo: una gara nel significato più alto.
Dovevo gareggiare con me stesso per superare ogni dubbio: mostrarmi sicuro, lieto e forte: infondere piacere e sicurezza nella ragazza davvero bella, io che tuttalpiù ero un lepido moretto nemmeno di primissimo pelo.
“Se vinco - mi dissi - conseguo un trionfo sulle debolezze, le meschinità e le miserie di questa mia esistenza inficiata da una sconfitta lavorativa e intrisa di caos mentre vorrei condividere l’ordine della mente divina ordinatrice del cosmo. Cosmica, almeno fisicamente è Ifigenia e ne trarrò ispirazione, forza e salute”.
Quella mattina dunque volevo che il primo convegno amoroso tra noi riuscisse nel migliore dei modi. Perciò chiamai una brava fantesca perché ripulisse con cura l’appartamento, soprattutto la stanza da letto e il bagno, poi andai a girare in bicicletta sui colli, nonostante la pioggia del resto leggera, faticando abbastanza per sudare e purificami, ma non tanto da restare a corto di energie che sarebbero state preziose ne pomeriggio per le tante repliche che avevo messo in programma se la ragazza avesse accettato di salire nel santuario del letto per compiere l’orgia sacra con me e replicarla più volte. Quindi mi lavai meticolosamente ogni parte del corpo e pur nutrendomi a sufficienza, evitai di appesantirmi; quando infine mi vestii per l’incontro scelsi un paio di mutande nuove, azzurre quanto il cielo di aprile. Ero emozionato come se avessi dovuto affrontare il primo incontro amoroso, mentre in realtà ripetevo un rito che, almeno materialmente, avevo compiuto già diverse volte, contando la prima con ciascuna delle mie amanti. Ma Ifigenia era anche altro: era figlia, allieva, mito e poesia. Era Silvia di Leopardi risuscitata, era Nerina, era la bella Armida, era Elena, era Margherita, era Angelica, era Natascia, insomma era l’amore di tutte le donne più belle e care.
La Kore attica
Ifigenia arrivò con la solita aria contenta, invitante, tanto che mi diede il coraggio di chiederle a bruciapelo se volesse venire subito a casa mia.
“Andiamoci tosto!”, rispose senza esitare, anzi con allegria.
Durante il percorso in automobile ci fu un leggero imbarazzo nell’attesa dell’evento fatale che poteva cambiarci la vita, forse in meglio. Facevamo commenti inutili sullo stato del tempo che non era buono: scendeva una fredda pioviggine da un cielo assai basso e oscuro. Quando fummo entrati in casa, per prima cosa la guidai nello studio. Qui le indicai i miei non pochi libri di letteratura, storia, filosofia, religioni, arte per un tempo non breve, come se lo scopo della visita fosse vedere la biblioteca del professore. Invece avevamo già deciso entrambi di entrare nel letto quel pomeriggio stesso. Il tempo a sua disposizione non era più lungo di tre ore, sicché sedetti presto sul divano posto di fianco al tavolo grande dei miei assidui lavori, la guardai con aria invitante e distesi verso di lei le braccia con le mani aperte, piene di desiderio. Mi stava davanti, in piedi: teneva la mano sinistra appoggiata sul tavolo e la destra aderente alla coscia. Mi osservava fissamente, con curiosità. Nella sua posizione eretta, immobile e un poco rigida, nel volto pallido orlato dai folti capelli neri e animato da un sorriso sottile, ma profondo nel senso che sgorgava dai penetrali del corpo e dell’anima, nella veste lunga e piegata come la colonna scanalata di un tempio, c’era qualcosa di religioso e di antico, o per lo meno io lo vedevo in quel momento solenne: mentre la guardavo ammirato mi venne in mente una Kore attica chiusa nel peplo, statica e intangibile, ma dalle labbra vibranti di vita e prossime a schiudersi per manifestare un pensiero. Dopo qualche istante di contemplazione muta, le domandai se avesse paura di posarsi accanto a me sul divano. Rispose di no e sedette abbastanza vicina. Le presi la mano destra, gliela accarezzai, la baciai, poi le baciai la bocca. Quindi le dissi: “ andiamo di là”. Ci alzammo senza dire altro e facemmo il nostro ingresso nella stanza del letto. Ci stendemmo trasversalmente, in fondo al talamo grande, vestiti. La baciai di nuovo, quindi le domandai se preferiva svestirsi senza che io la guardassi
“No. Anzi: spogliamoci subito insieme e nel farlo osserviamoci bene a vicenda perché questo momento è epocale, segna l’inizio di un’era nuova delle nostre vite e noi siamo felici come non siamo stati mai. Io almeno non lo sono mai stata così”
“Anche io sono proprio felice”, la assecondai
La Venere di Cnido e quella di Bologna
Cominciammo con l’osservarci attenta mente a vicenda. In quel pomeriggio lontano non temevo di fare brutta figura siccome ero, e mi sentivo, nella forma migliore. Sicché potei godermi la scena della splendidissima giovane che si cavava le vesti, mentre io, meno giovane e splendido ma non proprio privo di ogni lepòre, mi toglievo le mie. A mano a mano che Ifigenia si denudava, mi sembrava che fosse la santa forza del sole a scoprirsi dalle nuvole invide, a mostrarmi il bel volto radioso e mi invitasse a osservare e adorare debitamente il suo nume.
La solare ragazza era snella, compatta, fiorente e diffondeva davvero la luce beatificante nella stanza già aduggiata dalla sera autunnale che rapidamente calava sulla fosca Bologna.
Ifigenia si tolse tutto, senza scatti, morbidamente e quando ebbe finito, prima di me, attardato dal desiderio di contemplarla, si fermò a guardarmi anche lei. Il suo corpo svestito, slanciato, eppure già un poco inclinato verso il grande letto dei tripudi desiderati, mi fece venire in mente un’altra scultura sacra, ieratica e antica, però meno severa e statica dell’attica Kore con il peplo; così nuda e ondulata, mi ricordò la prassitelica Afrodite Cnidia dalle forme flessuose, candide e palpitanti alla luce, ma, in più, oltre la divina armonia, nella carne della mia vicinissima amante, c’era la natura viva, la vita fiera di sé, tanto che mi riempivo di orgoglio nel contemplare una creatura siffatta nuda accanto al mio letto, come se avessi avuto la forza di portare nel talamo tutta la bellezza dei Musei della terra, e il rincuorante sole di primavera, e i prati della valle di Fassa coperti dall’erba alta e dai fiori coloriti del mese di giugno, e pure l’innumerevole sorriso delle onde marine che luccicano riflettendo i raggi del sole o della luna e li muovono a danza in arcana armonia con i passi delle Nereidi che fanno girare rapidamente gli agili piedi immortali imprimendo piccole orme leggere sul fondo sabbioso dell’abisso marino.
Ifigenia insomma stenebrava tutto lo spirito mio e mi riempiva di gioia non solo con la propria figura ma con tutte le immagini di sovrumana bellezza che la sua umana bellezza evocava. Al suo sorriso corrispondevano il cielo e la terra e le salse onde del mare che osservavo da bambino e tornavamo a lambirmi la mente sul far della notte. Ifigenia ruppe l’estasi notando con allegria la vivacità del colore delle mutande che mi stavo levando. Aggiunse che avremmo dovuti farci filmare così come eravamo da un bravo regista che rendesse eterni quei nostri minuti carichi di storia e di mito
Pesaro 26 settembre 2023 ore 9, 45
giovanni ghiselli
p. s.
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