NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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giovedì 14 settembre 2023

Corso di ottobre-novembre XXX, Satyricon 24 La decadenza della cultura e dell'arte. Ricerca delle cause


 

Eumolpo cerca di chiarire le cause sel tramonto dell’arte  :"pecuniae- inquit- cupiditas haec tropica instituit. priscis enim temporibus , cum adhuc nuda virtus placeret, vigebant artes ingenuae summumque certamen inter homines erat, ne quid profuturum saeculis diu lateret" (88, 2), la brama di denaro, disse, ha provocato questi cambiamenti. Infatti nel buon tempo antico, quando ancora piaceva la virtù nuda, erano in auge le arti liberali e tra gli uomini c'era una nobilissima gara affinché nulla di quanto sarebbe stato utile alle generazioni future rimanesse ignoto a lungo.

-priscis temporibus: la laudatio temporis acti parte dall'estetica e arriva alla morale. "Priscus si dice di ciò che è stato in precedenza (cfr. prae), "antico", "primitivo", con la connotazione positiva di ciò che è degno del buon tempo antico"[1].-

summum certamen: la sussistenza della "nobile gara benefica per la città" come competizione democratica, di ingegni, e magari pure ginnica non truccata da droghe né inquinata dal denaro,  viene invocata da Sofocle nell' Edipo re (v. 879) invano.

Quindi vengono fatti i nomi dei filosofi Democrito e Crisippo e del matematico Eudosso, poi si torna alle arti figurative con Lisippo e Mirone. Di Mirone abbiamo già detto qualche cosa, di Lisippo, lo scultore di Alessandro Magno, Eumolpo afferma che "statuae unius lineamentis inhaerentem inopia extinxit" (88, 5), lo uccisero gli stenti mentre non riusciva a staccarsi dai contorni di un'unica statua. Ma questi eroi e martiri dell'arte non hanno avuto eredi:"at nos vino scortisque demersi ne paratas quidem artes audemus cognoscere, sed accusatores antiquitatis vitia tantum docemus et discimus" (88, 6), noi invece, sommersi nel vino e nelle puttane, non vogliamo nemmeno conoscere le opere d'arte già pronte, ma, accusatori della tradizione insegniamo e impariamo soltanto i vizi.

Vizio è ignoranza della tradizione, insensibilità  alla bellezza dell'arte, oltre che la frequentazione delle prostitute.

Il grande corruttore è sempre l'oro, la comune bagascia, l'universale mezzana:"noli ergo mirari, si pictura defecit, cum omnibus diis hominibusque formosior videatur massa auri quam quicquid Apelles Phidiasque, Graeculi delirantes, fecerunt" (88, 10), non ti meravigliare dunque se la pittura è morta, quando a tutti gli dèi e gli uomini sembra più bello un mucchio d'oro che tutti i capolavori creati da Fidia e Apelle, Grechetti farneticanti. Il fatto è che artisti quali Fidia insegnano la dignità dell'uomo, mentre il denaro la nega: i Greci "sapevano che la vita non solo guadagna dall'arte la spiritualità, la profondità del pensiero e del sentimento, il turbamento o la pace dell'anima, ma che essa può formarsi sulle stesse linee e colori dell'arte, e può riprodurre la dignità di Fidia come la grazia di Prassitele"[2].

 

Già Tito Livio con il suo moralismo deprecava l'enormità dei vizi del suo tempo dovuti al decadere della disciplina e dall'accrescersi del lusso, dell'avidità, della cupidigia:"donec ad haec tempora, quibus nec vitia nostra nec remedia pati possumus perventum est" (Praefatio, 9), finché si è giunti a questi tempi nei quali non possiamo sopportare né i nostri vizi né i rimedi.

 

Plinio il Giovane scriverà a proposito delle votazioni segrete in senato:"Ubique vitia remediis fortiora " (Ep., IV, 25), dappertutto i vizi sono più forti dei rimedi. 

 

Il problema della decadenza è trattato dall'Anonimo Sul sublime .

 Tale questione la  pone nel trattato "uno dei  filosofi" (44) che potrebbe essere Filone di Alessandria il quale fece parte di un'ambasceria di giudei alessandrini a Caligola nel 39 d. C.

  La decadenza della letteratura nel Peri; u{you" prende il nome di universale carestia letteraria (lovgwn kosmikh;... ajforiva, 44).

Essa secondo il filovsofo" dipende dalla fine della democrazia che è la vera nutrice della grandezza. La sorgente dell'eloquenza è la libertà; noi siamo fin dall'infanzia imbalsamati nei costumi della servitù e non siamo altro che dignitosi adulatori (kovlake"... megalofuei'"). Un servo infatti non potrà mai diventare oratore per la sua incapacità di parlare liberamente e per la cautela inculcata dalle abituali vessazioni. Come dice Omero (Odissea , XVII, 322-323) il giorno della schiavitù toglie all'uomo metà del suo valore. Ogni schiavitù è una gabbia della mente e una comune prigione.

 

Tacito nel Dialogus de oratoribus dà una spiegazione del genere. Curiazio Materno, portavoce di Tacito, sostiene che una grande oratoria era possibile solo con la libertà o addirittura con la licenza della peggiore repubblica, nel fervore dei tumulti e dei conflitti civili. "Magna eloquentia, sicut flamma, materia alitur, et motibus excitatur et urendo clarescit ", la grande eloquenza, come una fiamma, si alimenta con del materiale, si ravviva con il movimento e bruciando diventa più luminosa (36).

 

Ma l’ Anonimo autore del trattato risponde al filosofo in maniera diversa: non è la pace del mondo a corrompere le grandi nature, bensì la guerra delle passioni che assaltano la nostra vita. Avidità (filocrhmativa) e pure edonismo (filhdoniva) ci rendono schiavi. In seguito a tali vizi la grandezza dell'anima si consuma poiché gli uomini amano le parti mortali ed effimere e trascurano ciò che in loro è eterno. Tutto è corrotto in questo putrido contagio dell'esistenza quando viviamo per arricchirci, per annientare gli altri, per dare la caccia ai testamenti. In tali condizioni è forse meglio essere dominati che liberi, perché, se si aprissero le gabbie, le nostre brame sommergerebbero il mondo intero con le loro miserie. Vizio capitale è l'indolenza (rJaqumiva) per la quale cerchiamo solo ciò che ci procura successo o piacere.

 

Pesaro 14 settembre 2023 ore 18, 09 giovanni ghiselli

 

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[1] Dionigi, Morisi, Riganti, Verba et res, p. 90.

[2] O. Wilde, La decadenza della menzogna in Wilde, Opere,  p. 223.

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