NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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venerdì 22 settembre 2023

Corso del 3 ottobre quinta parte. La noia e il veternus. Moravia, Virgilio, Leopardi.

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Il desiderio inappagato della felicità e dell’infinito

 

Moravia La noia. “La noia per me è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo nel petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi:e così non riesce mai a prendere sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in casa: un momento tutto è chiaro, ed evidente (…) un momento dopo non c’è più che buio e vuoto

 Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla polvere. Il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità della realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza”  (…)“l’avvizzimento degli oggetti  mi ispirava la consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto (…) La noia consiste principalmente nella incomunicabilità

Moravia, La noia, Bompiani, Milano 1984 p. 7 e ss.)

 

Nell'età primitiva un gravis veternus –pesante torpore- paralizzava l'attività umana: Virgilio nella Georgica I[1] dà questa spiegazione della genesi dell'età moderna: Giove procurò agli uomini fatiche  aguzzando con inquietudini i cuori dei mortali (curis acuens mortalia corda, 123) in quanto  non lasciò che il suo regno restasse paralizzato in un pesante torpore"nec torpere gravi passus sua regna veterno " (v. 124). Infine il lavoro ostinato vinse tutte le difficoltà: “Labor omnia vicit-improbus” (vv. 145-146). Il compito di Virgilio nelle Georgiche in effetti è quello di celebrare il lavoro del bonus agricola.[2]

“Centrale è il concetto di veternus , una specie di pigra indolenza, un torpore che affliggeva l'umanità nell'età dell'oro, e che avrebbe indotto Giove a introdurre il lavoro nel mondo, per stimolare l'ingegno umano e rendere gli uomini attivi, vigile e intraprendenti"[3] .

 

Leopardi nell'operetta morale Storia del genere umano (del1824), racconta una favola bella e triste come una tragedia.

Dapprima gli uomini erano felici poiché si pascevano di lietissime speranze, ma poi si accorsero che la terra, ancorché grande, aveva termini certi. Per la qual cosa cresceva la loro mala contentezza e furono occupati da un espresso fastidio dell'essere loro.

Giove, per riconciliarli con la vita, pensò bene di propagare i termini del creato: ingrandì la terra e infuse il mare, interrompendo i cammini e rappresentando ai loro occhi una viva similitudine di immensità. Voleva pascere la loro immaginazione.

Ma, in progresso di tempo, mancata la novità, tornò il tedio della vita, e gli uomini facevano come i Traci-Trausi di Erodoto (cfr. V, 4), "che nascendo alcuno, si congregavano i parenti e i loro amici a piangerlo; e morendo era celebrato quel giorno con feste e ragionamenti che si facevano congratulandosi con l'estinto.

All'ultimo tutti i mortali si volsero all'empietà, o che paresse loro di non essere ascoltati da Giove, o essendo propria natura delle miserie indurare e corrompere gli animi eziandio più bennati, e disamorarli dell'onesto e del retto".

Quindi ci fu il diluvio, mandato per punire la protervia umana poi Deucalione e Pirra restaurarono la nostra specie gettandosi pietre dietro le spalle poiché non sostenevano di dare opera alla generazione.

Giove per conservare questo misero genere deliberò di mescere la vita con mali veri, di implicarla in mille negozi e fatiche per distogliere gli uomini dal conversare con il proprio animo. Diffuse una varia moltitudine di morbi per accrescere il pregio dei beni con la opposizione dei mali. Gli uomini, oppressi dai morbi, non si uccidevano più, infatti i patimenti sogliono allacciare i sofferenti alla vita.

Poi spaventò gli uomini con i fulmini poiché i timori riconciliano alla vita. Infuse nuovi bisogni, di cibi e bevande che si potessero procurare solo con la fatica. Fece le stagioni, in modo che gli uomini dovessero ripararsi dall'inclemenza del cielo, e creò rivalità tra le città. Poi mandò sulla terra  fantasmi quali Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e Amore terrestre, poiché prima non era amore ma impeto di cupidità a spingere un sesso verso l'altro come si è attratti dai cibi che non si amano ma si appetiscono. Grazie a queste meravigliose larve, le cose andarono meglio, ma poi si rinnovellò il fastidio. La catastrofe avvenne quando la Sapienza, una delle larve, promise la Verità di cui gli uomini fecero richiesta a Giove che era stomacato dagli umani parimenti incapaci e cupidi dell'infinito.

La Verità scopre agli dei la beatitudine e agli uomini la loro infelicità: la vanità di tutto fuor che del dolore. Così li priva della speranza ed essi smetteranno di agire ma saranno sempre punti e cruciati dal desiderio della felicità che infatti è congenito all'animo umano. La terra apparirà più piccola: una mela vizza. La patria non esisterà più, e la stirpe umana si dissiperà in tante patrie quanti uomini ci sono. L'unico conforto potrà venire dal fantasma dell'amore.

Sicché gli dèi per pietà mandano sulla terra Amore figlio di Venere celeste che alberga nei cuori più teneri e generosi, e assai di rado ne congiunge due insieme poiché la felicità che nasce da tale bene è di troppo breve intervallo superata dalla divina. Dove egli si posa tornano le larve già segregate dalla consuetudine umana. Rinverdisce l'infinita speranza con le belle e care immagini degli anni teneri. Eppure molti mortali inesperti e incapaci dei suoi diletti lo scherniscono e mordono tutto giorno con isfrenatissima audacia: ma esso non ode i costoro obbrobri, e quando gli udisse, niun supplizio ne prenderebbe, tanto è di natura magnanimo e mansueto.

 

Ogni argomento insomma si presta a essere presentato come percorso problematico e variamente rimodulabile.

 

Pesaro 22 settembre 2023 ore 19, 46 giovanni ghiselli

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[1] Le quattro Georgiche costituiscono un poema didascalico sull'agricoltura. Furono composte tra il 37 e il 30 a. C.

[2] “Il protagonista delle Georgiche-il paziente, tenace agricola  capace di coronare la sua fatica con il successo-è anche un carattere non privo di ombre, e richiede, anche lui, della vittime” . Tradotto dall’inglese di Gian Biagio Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press., n. 30, p. 205. Tale è Aristeo, e non farà meno vittime il “pio”Enea.

[3]M. Bettini,  La letteratura latina, 2, p. 453.

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