L’asino si sveglia di notte e vede la luna, immagine di Iside e la prega, attribuendole molti nomi. Chiede di deporre diram faciem quadripedis e di renderlo a se stesso redde me meo Lucio (11, 2), rendimi al Lucio che sono.
E’ il diventa, o ridiventa quello che sei di Pindaro gevnoio oi\o~ essiv (Pitica II, 72). L’uomo è ajeikhv~, sconcio, quando non assomiglia a se stesso. “L’infelicità è l’avvertimento dello squilibrio tra il nostro essere in potenza e il nostro essere in atto” (Ortega y Gasset, Meditazioni sull’infelicità).
“Nella natura nessuna creatura è più ripugnante e squallida dell’uomo che è sfuggito al suo genio e sbircia a destra e a sinistra, indietro e dovunque. Tale uomo è tutta esteriorità senza nocciolo, uno spettro agghindato che non può suscitare paura né compassione” (Nietzsche, III Inattuale, Schopenhauer come educatore).
La dea è chiamata con molti nomi Cerere, Venere Celeste, Diana, Proserpina.
Cerere, Venere e Diana sono i tre aspetti luminosi della dea cosmica; Proserpina, nocturnis ululatibus horrenda, è l’aspetto oscuro.
Nel sonno appare a Lucio una divina figura, una dea con foltissimi, lunghi capelli, con una veste di lino sottile, dal colore cangiante , ora candida, ora gialla come fiore di croco, ora rossa. Era coperta da una sopraveste di un nero splendente.
Il lino
In De Iside et Osiride Plutarco spiega che il lino spunta dal seno della terra immortale e produce una veste semplice e pura parevcei kaqara;n ejsqh`ta che non pesa ma offre riparo dal calore ed è adatta ad ogni stagione e non genera insetti 352F.
Nel De Magīa Apuleio scrive che la lana è escrescenza di un pigrissimo corpo segnissimi corporis excrementum (56). Già Orfeo e Pitagora la riservavano alle vesti dei profani. Invece mundissima lini seges, la purissima pianta del lino, tra i migliori frutti della terra, copre i santi sacerdoti d’Egitto e gli oggetti sacri.
Erodoto scrive che gli Egiziani considerano empio entrare nei santuari e farsi seppellire vestiti di lana (II, 81).
Le vesti di Iside sono di colore screziato, stolaiv poikivlai, poiché la potenza della dea accoglie tutto e in tutto si trasfigura (De Iside, 76).
Iside teneva nella destra un sistro di bronzo aereum crepitaculum e nella sinistra un piccolo recipiente d’oro a forma di barchetta cymbium aureum dal suono argentino sul cui manico levava la testa un aspide. (Cfr. Tacito, Germania, 9).
Il sistro
Il sistro secondo Plutarco serve a mettere in fuga Tifone.
To; sei`stron o{ti seivesqai dei` ta;; o[nta kai; mhdevpote pauvesqai fora`~ (De Iside, 376D), il sistro perché le cose che sono vanno scosse e non devono mai cessare dal moto, ma essere svegliate e spinte quando dormono. Il sistro può essere paragonato al campanello della messa. Attira l’attenzione dei fedeli e tiene lontano i profani[1].
Iside parla, chiama Lucio per nome ed enumera tutti i propri nomi.
E’ la grande madre: “pollw`n ojnomavtwn morfh; miva” (Prometeo Incatenato, 2010.).
Minerva, Cibele, Venere, Diana, Proserpina, Cerere, Giunone, Bellona, Ecate. Ma gli Egizi che sono di antica dottrina, la chiamano Iside. Prisca doctrina pollentes Aegyptii (11, 5).
Platone nel Timeo (22b) racconta che un sacerdote egizio molto vecchio disse a Solone. “Solone, voi Greci siete sempre fanciulli; \W Sovlwn, Sovlwn, {Ellhne" ajei; paidev" ejste, gevrwn d j { Ellhn oujk e[stin (22b). non avete ricordi antichi a causa dei diluvi. Il diluvio celeste infatti lascia sopravvivere solo gli ignari di lettere e di Muse”.
Una catastrofe fece sprofondare Atene dentro la terra e Atlantide nel mare.
Iside dice che il suo sacerdote porterà nella destra, vicino al sistro, una corona di rose. Lucio così potrà liberarsi dalla cotenna dell’orribile animale odioso a Iside. Quindi Lucio dovrà dedicare la sua vita alla dea.
Per questo dovrà essere casto[2].
Iside apparirà splendente anche nell’Acheronte[3].
Lucio si alza in preda a una trepida gioia e vede una natura primaverile, rinnovata. Quindi una processione di uomini mascherati con vari componenti, tra cui dicati magno Sarāpi tibicĭnes (11, 9) i flautisti sacri al dio Serapide.
Plutarco sostiene che non bisogna formalizzarsi con i nomi; comunque Osiride è un nome greco, mentre Sarapide è egiziano (De Iside 61). Gli dei non sono diversi essenzialmente: hanno solo nomi diversi da popolo a popolo, come il sole e la luna (67). Il culto di Serapide era diffuso a Roma: in Catullo (10) c’è una puttanella- scortillum- che chiede al poeta un paio di portantini: “nam volo ad Serāpin deferri”.
La processione
Ed ecco gli iniziati e i sommi sacerdoti con vesti di lino strette alla vita e lunghe fino ai piedi. Portavano vari arnesi: uno un attrezzo a forma di barchetta, uno degli altarini, uno una palma e il caducĕo la verga di Mercurio sormontata da due serpenti, un altro un’immagine di una mano sinistra con la palma aperta, simbolo di equità, in quanto la sinistra è nulla calliditate nulla sollertia praedita, non ha scaltrezza né artificio (sollus=totus e ars). Questo portava anche aureum vasculum in modum papillae, un vasetto d’oro a forma di mammella, Il quinto reggeva un’auream vannum (11, 10). Questa vannus, il vaglio che separa il grano dalla pula, è il simbolo di Osiride che muore e risorge come il grano[4].
Poi gli dèi: Anubi con la testa canina, il caduceo, lo scettro di Mercurio, e una palma.
Seguiva una vacca, simbolo della fecondità e della Magna Mater. Poggiava le zampe anteriori sulle spalle di un sacerdote. Un altro portava la cista con gli oggetti segreti del culto. Un altro ancora portava un simbolo ineffabile: una piccola urna d’oro con un aspide.
Arriva il momento della grazia. Un sacerdote si avvicina con le rose.
Nel De Platone et eius dogmate Apuleio scrive che si diventa perfetti d’un tratto e repentinamente (248).
Insufficiente è il criterio della razionalità.
Lucio ridiventa uomo quando il sacerdote gli offre la corona di rose.
La nuova metamorfosi consiste soprattutto nell’assottigliarsi e nel raffinarsi, umanizzarsi, delle parti grossolane: mihi delabitur deformis et ferina facies…cutis crassa tenuatur, venter obesus resĭdet…dentes saxei redeunt ad humanam minutiam…cauda nusquam (11, 13).
Lucio tornato uomo si vergogna di essere nudo e chiede un panno di lino.
Il sacerdote lo saluta. Gli dice che spinto dall’età è ad serviles delapsus voluptates (11, 15) e ha riportato un sinistrum praemium (bell’ossimoro) per la curiositas inprospera non corrispondente alle speranze.
Eppure la Fortunae caecitas[5] tormentandoti inprovida malitia, con cattiveria priva di chiaroveggenza, ti ha portato ad istam beatitudinem. Questa è una nefaria Fortuna, è empia, e ora sei in tutelam Fortunae, sed videntis che con il suo splendore illumina anche le altre divinità.
Lucius de sua Fortuna triumphat (11, 15). Trionfare sulla fortuna che è propria, significa prima di tutto riconoscerla, poi identificarsi con lei.
"Il fatalismo turco contiene l'errore fondamentale di contrapporre fra loro l'uomo e il fato come due cose separate…In verità ogni uomo è egli stesso una parte di fato…Tu stesso, povero uomo pauroso, sei la Moira incoercibile che troneggia anche sugli dèi"[6]. Cfr. h\qo~ ajnqrwvpw/ daivmwn[7] di Eraclito.
Lucio ora deve sottomettersi al giogo della disciplina religiosa.
Quindi fu preparata una nave che, caricata di vanni onustae aromatis , vagli pieni di aromi, e altre offerte, poi fu affidata alle onde (11, 16). Successivamente i fedeli entrano nel tempio e i pastŏphori (pastov~ è il reliquario) dissero parole di augurio al sommo imperatore, al senato, ai cavalieri, all’intero popolo romano (11, 17). Il rito non ha niente di eversivo dunque.
Invocarono anche ploiafevsia ritu Graeciensi, l’apertura della navigazione Poi tornarono alle loro case. Lucio vide arrivare gli amici e i parenti che avevano saputo della sua salvezza. Li salutò poi si mise al servizio della dea. Un sogno gli preannuncia il ritorno del servo Candido da Ipata. In effetti poi tornano i servi che aveva lasciato a casa di Fotide che gli riportarono equum colore candidum (11, 21).
Nel sistema platonico il cavallo bianco è lo qumoeidev~, la parte irascibile che si allea alla razionalità, logistikovn, contro il cavallo nero, l’ejpiqumhtikovn.
Nel Fedro Platone racconta che l’anima umana è formata da tre parti: un auriga, un cavallo buono, di colore bianco, ben fatto, amante di gloria e di temperanza; e un cavallo nero, contorto massiccio, messo insieme a casaccio (eijkh`/,), amico della protervia e dell’impostura 253e. Il bianco è obbediente all’auriga (oJ me;n eujpeiqh;~ tw`/ hJnivovcw/, 254a) ed è tenuto a freno dal pudore e si trattiene dal balzare addosso all’amato. L’altro invece si porta avanti skirtw`n de; biva/, balzando con violenza. L’auriga e il bianco vengono trascinati e si sentono costretti a cose vergognose e inique. Giunti vicino all’amato, l’auriga ricorda la natura del Bello e lo vede collocato con la Temperanza (meta; swfrosuvnh~, 254b) su un piedistallo immacolato. Sicché l’auriga tira indietro le redini e i due cavalli devono piegarsi sulle cosce; il riottoso contro la sua volontà. Quando riprende fiato, il cavallo nero lancia insulti con ira (ejloidovrhsen ojrgh`/, 254c) contro l’auriga e il compagno accusandoli di viltà e debolezza. Quindi riprende a tirare (met j ajnaideiva~ e{lkei (254d), trascina con impudenza. Ma l’auriga tira indietro il freno dai denti del cavallo protervo con maggior forza e insanguina la lingua maldicente e le mascelle e gli fa piegare a terra le cosce. Dopo che questa mossa si è ripetuta più volte il malvagio fa cessare la sua protervia, umiliato dalla previdenza dell’auriga, e quando vede il bello si sente venir meno per la paura: kai; o{tan i[dh to;n kalovn, fovbw/ diovllutai (254e).
Il sommo sacerdote spiega a Lucio i gradi dell’iniziazione: il donarsi del fedele alla dea è una forma di voluntaria mors (11, 21).
E’ la rinuncia a una identità gregaria, fondata sui luoghi comuni.
Seneca scrive: “si ad naturam vives, numquam eris pauper, si ad opiniones, numquam eris dives. Quindi dobbiamo evitare di seguire antecedentium gregem, pecorum ritu, pergentes non quo eundum est, sed quo itur (Ep. 16, 7).
La dea fa rinascere quelli che abbandonano la vita precedente. Intanto Lucio deve astenersi da cibi impuri e interdetti. Lucio attende senza impazienza miti quiete et probabili taciturnitate (11, 22) in encomiabile silenzio.
Finalmente arriva il dì della rinascita. Lucio deve astenersi per dieci giorni dai piaceri della tavola. Il sacerdote lo copre con un panno di lino. Le parole che furono dette devono restare segrete per non soddisfare alcuna temeraria curiositas. Lucio può dire solo che giunse sulla soglia di Proserpina e a metà della notte vide il sole risplendere in presenza degli dèi inferi e superi. L’iniziato non può raccontare tutto.
Cfr. Matteo 13, 44 “simile est regnum caelorum thesauro abscondito in agro, quem qui invēnit homo abscondit ”.
Lucio però continua a osservare. Si è salvato perché invece di rassegnarsi a essere un asino, osservava quanto gli accadeva intorno e rifletteva. Se si fosse lasciato andare nell’asino, non sarebbe tornato indietro.
Lucio viene abbigliato come il dio sole in una oJmoiwvsi~ qew`/, assimilazione a dio (cfr. Platone, Teeteto, 176b). Lucio se ne sta immobile come una statua e il popolo gli gira intorno. Così l’iniziazione è compiuta.
Quindi il convertito prega Iside, la dea del to; i[esqai met j ejpisthvmh~ ( Plutarco, De Iside 59c) lanciarsi con sapienza. La salvezza è uno slancio dello spirito. Il male è la morta gora, l’acqua stagnante della palude ferma. La preghiera a Iside si rivolge a una forza della vita che sconfigge il male e la morte.
Quindi Lucio torna a casa, poi va a Roma, nella sacrosancta civitas (11, 26). Iside a Roma è venerata nel Campo di Marte. Era dicembre e giunse il nuovo anno. A Lucio manca il fatto di essere iniziato a Osiride.
Plutarco scrive che [Osiri~ trae il nome dalla fusione di o{sio~ santo e iJerov~, sacro, la sintesi del santo celeste e del sacro infero. Il nome Osiride è greco, quello egiziano Sarapide (De Iside, 61). Osiride sbranato da Set corrisponde allo sparire della luna.
Lucio sogna, quindi vede un pastòforo che gli ricorda l’immagine onirica e si chiama Asinio Marcello, reformationis meae non alienum nomen (11, 27). Anche questo sacerdote era stato preavvisato da un sogno: il dio gli aveva detto mitti sibi Madaurensem sed admodum pauperem, cui sacra sua deberet ministrare. All’uomo di Madaura sarebbe derivata grande gloria negli studi. Lucio dunque rinnega l’origine greca vantata nei primi capitoli. Diventa quello che è. Lucio viene consacrato anche a Osiride. E’ molto povero e deve vendere il suo vestito. L’ordine del dio è di abbandonarsi alla povertà. Quindi Lucio si astenne da carni animali e si rasò. Poi poté alzare il suo tenore di vita patrocinando cause in lingua latina.
Infine una terza iniziazione. Gli viene ordinata nel sonno. Di nuovo Lucio si astenne dai cibi animali, questa volta per più di dieci giorni, spontali sobrietate. Tuttavia i suoi guadagni di avvocato crescevano. Infine gli apparve il sommo Osiride invitandolo a continuare le sue arringhe senza curarsi delle malevolorum disseminationes quas studiorum meorum laboriosa doctrina ibīdem exciebat (11, 30) le divulgate calunnie dei malevoli che la faticosa dottrina dei miei studi suscitava in quel luogo. E’ la provocazione del genio sui mediocri. Osiride lo elesse trai pastofori, il collegio dei sacerdoti che portavano l’immagine del dio dentro dei pastoiv, dei tempietti. Fu rasato e inserito anche tra i decurioni quinquennali, un antichissimo collegio che risaliva al tempo di Silla.
Testi consultati
Aldo Carotenuto, Le rose nella mangiatoia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1994.
Silvia Mattiacci (a cura di) Apuleio, Le novelle dell’adulterio, Casa editrice, Le Lettere, Firenze, 1996.
Gigliola Maggiulli e Franca Buffo, L'altro Apuleio, Loffredo Napoli, 1996.
Marie-Louise Von Franz, L’asino d’oro, trad it. Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
Giuseppina Magnaldi e Franco Gianotti (a cura di) Storia del testo e interpretazioni, Edizioni dell'Orso, Alessandria, 2000.
Ma soprattutto ho utilizzato le mie conoscenze delle letterature europee, a partire da quella greca e quella latina.
Dedico questo mio studio su Apuleio al carissimo e compianto amico Ferruccio Bertini, ordinario di Letteratura latina nell'Università di Genova, che me lo commissionò perché andassi a esporlo con lui nel suo Ateneo alcuni anni fa.
Pesaro 18 settembre 2023 ore 20, 48
giovanni ghiselli
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[1] Pascoli in L’assiuolo sente il sistro nelle cavallette: “squassavano le cavallette finissimi sistri d’argento/tintinni a invisibili porte/che forse non s’aprono più/e c’era quel pianto di morte chiù”.
[2] Ovidio espone i consigli di una mezzana: fatti desiderare, négati. Il pretesto sarà il mal di testa, oppure Isis erit (Amores, I, 8, 74).
[3] Nelle Rane di Aristofane, Eracle descrive il luogo degli iniziati come una zona dove Dioniso vedrà fw`~ kavlliston (v. 155).
[4] Al pari di Adone ucciso dal cinghiale in Ammiano Marcellino: quod in adulto flore sectarum est indicium frugum (22, 9), è il simbolo delle messi recise quando sono mature.
[5] Cfr. 7, 2.
[6]Nietzsche, Umano troppo umano , II, Il viandante e la sua ombra, 61 Fatalismo turco..
[7] Fr. 91 Diano, il carattere è il destino dell’uomo.
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