NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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mercoledì 14 dicembre 2022

Il 1969. 8. Progetti e speranze nella solitudine di un venticinquenne.

La sera di martedì 28 ottobre 1969 dopo la cena dal Gobbo e due passi nel paese deserto, tornai nel Motel. La 64 del sesto piano era una bella stanza con due letti separati e una terrazza. Rispondeva all’ovest. Mi affacciai. Nella grande pianura pedemontna non c’era ancora la nebbia. Vedevo tante luci più o meno grandi e mobili. Mi ricordarono le barche nel mare di Pesaro in una notte d’estate. “Le cose dl mondo sono tutte imparentate tra loro”, pensai aiutato da Platone[1]. Ce l’avrei fatta a insegnare bene, ne ero quasi sicuro.
Ero ottimista ma non tanto quanto avrei dovuto.

Tra la gens non dura [2] dei Veneti avrei di fatto raccolto belle amicizie e affetti profondi,  e in seguito avrei avuto l’incarico di ruolo in un liceo classico di Bologna dove la più giovane e bella delle colleghe sarebbe diventata un delle mie amanti più ardenti e mi avrebbe reso felice per una decina di mesi. Quella sera, dopo la visione notturna dalla terrazza, guardai la televisione senza tristezza poiché non sapevo quante sere avrei passato in tale maniera durante i successivi mesi del buio, mentre la nebbia annichiliva le luci della pianura e del cielo, oppure il vento freddo soffiato dalla Valsugana o quello umido della laguna faceva sventolare le bandiere della città murata cui la notte precoce o la nuvolaglia grigia del giorno piovigginoso aveva tolto tutti i colori; oppure nell’aria pulita la luna faceva brillare come sciabole di una parata i rami rinsecchiti e incanutiti dal gelo.

Dopo lo studio pomeridiano, la cena e la televisione mi mettevo nel letto dove  talvolta non potevo dormire siccome mi mordeva la carne e l’anima il desiderio degli occhi espressivi, delle cosce lisce, sode e profumate, di una donna giovane, piena di vita, di mitezza e di forza. Non disperavo di trovarla. Nella scuola fin dall’inizio mi trattarono quasi tutti con simpatia. La solitudine di quelle serate non era desolata: germogliavano tante speranze dai ricordi buoni: il ’68 non ancora esaurito, Fulvio e gli altri amici di Debrecen, la giovanissima amante di Praga, la cara amica di Monaco. Quindi mi addormentavo. I successi precedenti mi avrebbero indicato la via di quelli a venire. Il metodo l’avevo trovato.
A Cittadella del resto non era sempre notte, né inverno, anzi la buona stagione del 1970 fu la più lunga e soleggiata che adesso ricordi.
Per diverse settimane consecutive il cielo sereno brillava alto e turchino sulle montagne dalla mattina alla sera, quando il sole al tramonto indorava o iridava le cose: anche le cupe vetrate del Motel e le tetre mura di Cittadella, perfino le mosche apparivano variopinte. Notavo con gioia questo dono di luce offerto dal dio presente per tante ore nel cielo, e osservavo il volo elegante delle rondini, lo svolazzare contento delle farfalle e mi si apriva l’anima a questi segni di promesse che mi facevano presentire e antivedere la felicità prossima: le donne belle e fini che mi avrebbero amato, l’educazione che avrei donato ai discepoli e un giorno avrei potuto estendere a un popolo intero, a milioni di anime vive scrivendo. Insegnare mi piaceva davvero: era nel mio carattere e nel mio destino che dopo tutto coincidono[3].
Però la mattina del 29 ottobre quando mi presentai al preside fu dura.
Il suo ruolo di capo istituto, con la logica di gestore del piccolo potere che aveva,  gli aveva tolto la bonarietà diffusa tra le persone di quel paese.
 
 
 Bologna 14 dicembre 2022 ore 11, 35
 
giovanni ghiselli  

   
 


[1] Menone 81 d “a{te ga;r th`"  fuvsw" ajpavsh" suggenou`" ou[sh" ,  poiché tutta la natura è imparentata con se stessa
[2] Cfr. Lucano, Pharsalia, IX, 439
[3] Cfr. Eraclito: “h\qo" ajnqrwvpw/ daivmwn” (fr. 91 Diano, 119 Diels-Kranz)

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