lunedì 19 dicembre 2022

1971. La storia di Elena. 10. Il picnic crepuscolare. Elena alla finestra del collegio

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Il giorno seguente cercai distrazione dalla dolce, materna Sarjantola parlando e giocando con gli amici e i conoscenti che in quel luogo e in quel tempo erano già, e ancora, molti; insomma feci un tentativo di togliere significati speciali a quella donna che era bella, fine e buona quanto si vuole, ma era pure incinta di un altro uomo.

Magari era stata ingravidata da un gonzo tra il sonno e la veglia, in un letto freddo, in un amplesso senza passione né attenzione, pensavo.
Comunque l’immagine di lei, eternamente viva[1], mi volteggiava sempre davanti e mi assillava.
Non potevo essere più forte di Zeus che ha potere sul cosmo, eppure è schiavo di Afrodite. Del resto la mia intenzione in quella circostanza non era lo scatenato libertinaggio del dio che è stato il primo dongiovanni della storia.
La tenacia del sentimento e del proposito  voleva dire che Elena, anche solo pensandola, mi insegnava più cose e più importanti di quante ne potevo imparare dal resto dell’ambiente di studio e di eros, dove, in seguito a quattro estati di varie esperienze, avrei potuto passare un quinto mese piacevole con una ragazza gradevole, lieta e disinvolta, come avevo fatto l’anno precedente, o anche vivere un amore mensile allegro  con una femmina umana già conosciuta o con una carina ancora intentata, una donna che significasse qualcosa, ma  non mi obbligasse a pensarla continuamente e spietatamente al pari di Elena, intensa e piena di simboli come un’opera d’arte, e pure problematica da ogni punto di vista.
Non volevo soffrire troppo  JElevnh~ e[nek j hjukovmoio[2], per Elena dalla bella chioma, eppure non riuscivo a staccare il mio pensiero da lei, e ne dedussi che lasciar trascorrere invano quel mese importante, ossia ricco di rapporti con il passato e con il futuro, come lucidamente lo prevedevo, trascorrerlo con una qualsiasi, anzi con qualsiasi altra donna, non era destino per me e non mi conveniva; allora dovevo impegnare tutte le mie forze in un rapporto pur faticoso e travagliato con la Sarjantola perché mi guidasse a conoscere nuovi e reconditi aspetti dell’anima mia.
Non potevo eliminare Elena che non doveva eliminare me[3].
Ci sono difficoltà e ascese impervie che non dobbiamo evitare poiché ci salvano da cadute retrograde in precipizi scoscesi.
Nel pomeriggio venne a cercarmi Katalin. Mi invitò a una cena in un giardino situato nella zona universitaria. Con noi ci sarebbero stati altri ungheresi; io potevo portare Claudio che piaceva a una sua amica, una montagna di donna con i fianchi enormi cinti di drappi coloriti, un “porcone, un maiale doppio[4]”, la definì impietosamente il compagno, già destinato alla galera futura, come la vide. Subito dopo però aggiunse: “questa ingrassa campando a lardo e burro, tuttavia grugnisce di voglia anche erotica: potrei levargliela facendo la cosa più degenerata della mia vita”. Parole prive di carità, com’era l’amico. 
Comunque avremmo arrostito della carne e, probabilmente seduti, o distesi, sull’erba del prato ameno, avremmo dato spinta e incentivo all’estasi orgiastica bevendo il noto vino rosso della terra magiara, l’Egribikavér, ossia il “sangue di toro di Eger”.
 Dopo cena, siccome il marito di Katalin era andato, per affari suoi, sul lago Balaton, cioè agli antipodi della peraltro piccola terra magiara, io e la bella sposa lasciva avremmo potuto fare l’amore quasi tranquillamente. Il programma mi lusingava e, per dirla tutta, mi stuzzicava. Il destino mi offriva il destro concreta di sfuggire a un amore pieno di problemi quanto una tragedia greca. “Molte sono le cose inquietanti, e nulla è più inquietante di Elena”, pensai[5].
 
 Katalin non era una cima, ma, te lo rammento lettore, era una vera bellezza. La donna più bella tra quante, del resto non tante, non ho conosciuto del tutto mentre avrei potuto. Libertino a metà, dimidiatus impudicus.
Con questo stato d’animo inquieto, mi recai al picnic sul prato. Era il tramonto di una sera estiva, “piena di voli”[6] e propizia all’oblio della finlandese pregnante: una di quelle sere di luglio nelle quali si gode la potenza dell’estate matura,  scemata ancora di poco rispetto al culmine di giugno, eppure in misura  percettibile dalla posizione del sole occidente già retrocesso, e dai colori meno vivaci; comunque si preannunciava una di quelle notti ancora brevi e calde, dall’aria liscia, calma e odorosa dove è piacevole indugiare a oltranza, anche fino all’aurora, per non perdere, con lungo, sconsolato rimpianto, nell’autunno buio e piovoso, un dono di Dio raro, bello e fugace come la gioventù, come l’amore, come  la  stessa vita.  Garrivano tutt’intorno le rondini, le rane remote del laghetto  gracidavano alla boscaglia il loro verso brekekeke;x koa;x koavx [7] . Le azzurre cetonie ronzavano ancora lampeggiando nell’aria. Alle carezze del vento caldo, ondeggiava adagio il mare  verde della grande, felice  foresta.
Si respirava con gioia la dolce e piena tranquillità della bella stagione suscitata dall’aurea Afrodite che ama il sorriso. Quanto a fare l’amore con Katalin, avrei deciso più tardi. Avevo intenzione di mangiare e bere non troppo, studiando la situazione, e considerando bene se mi conveniva, e piaceva davvero lasciare cadere il sentimento forte, inquietante appunto, e molto difficile da concretizzare, per l’artistica, pierfrancescana donna del parto, in cambio di un’orgia non dionisiaca, né apollinea, insomma non santa, con una ragazza tanto giovane e bella, quanto disordinata,  stonata e confusa. Veramente la sera prima avevo promesso a Elena che sarei andato a cercarla, ma questo, casomai, potevo farlo più tardi, anche molto più tardi. Erano appena le otto. “C’è tempo per mangiare, bere, osservare e decidere”, pensai. “Tutto il tempo”.
Ma quando ebbi assaggiato un poco di carne arrostita e bevuto un bicchiere di sangue di toro, sentivo angoscia per quanto dicevano quei giovani consumisti magiari, seriamente occupati a parlare di vestiti, di motori, di scarpe. Lo facevano in modo tale da offendere la mia sensibilità estetica ed etica, mentre il fumo della carne arrostita dal  cupo fulgore del fuoco contaminava la dolce aria notturna con volute dense e acri che prendevano a schiaffi il cielo e   nascondevano tutte le stelle . “Eschilo sostiene che Giustizia brilla nelle case dal povero fumo”[8], pensai, “ma questo fumo, prima che povero, è brutto e irritante”  Lì, nonostante la bellezza di Katalin, non c’era cosmo, ma guazzabuglio e caotica stupidità. La quintessenza della deformità c’era in quel prato di ottenebrati dall’ignoranza.

A un tratto mi alzai per allontanarmi da quella teppa, segno oltretutto del fallimento educativo di un regime che speravo fosse molto migliore del nostro. Io già allora auspicavo una società di donne e uomini uguali, dove non ci fossero sperequazioni. Di persone buone e contente. L’uguaglianza  è legge di natura, è legge cosmica cui si sottopone perfino la luce: "l'oscura palpebra della notte e la luce del sole infallibile, percorrono uguale il ciclo annuo”, dice Giocasta[9] ammonendo il figlio Eteocle che ha fatto l’elogio della tirannide, un’ingiustizia fortunata[10] secondo la madre.
“Questi non sono comunisti - pensai - sono consumisti volgari.
 Se il comunismo non è capace di educare i giovani, non potrà durare a lungo.
I  suoi teorici dovrebbero rammentare  Platone: nella società in cui non sia presente né ricchezza né povertà, direi che i costumi potrebbero essere nobilissimi: infatti né la violenza, né l’ingiustizia, né gelosie né invidie possono nascervi. Erano buoni[11] in grazia di questa vita e di quella che si dice semplicità”[12].
 Uno di quei poveretti mi domandò quanti cavalli avesse la mia “bella macchina nera”. Non lo sapevo, proprio non lo sapevo, e non mi interessava saperlo. “Uno bianco e uno nero”, risposi. Contro la volgarità e la stoltezza, l’unico argomento è l’ironia. Grazie alla coscienza che stavo prendendo dalla finnica mia, la volgarità mi appariva più volgare, la stoltezza più stolta.
 Pensai del resto che i poveri saranno sempre fregati finché ammireranno e cercheranno di scimmiottare  i reputati ricchi.
La pubblicità gioca su questa misera mimesi dei miserabili. 
 Di bere altro vino, pur buono, in mezzo a quella greggia stremata, di fare l’amore con Katalin, pur bella e disponibile assai, in quanto la poveretta, errando, vedeva in me un giovin signore dell’agognato mondo capitalistico, non mi andava. Il desiderio mio unico e fisso era lei: Elena. Ero  pieno dello spirito santo di Elena, anche se alcuni presenti vedendomi tanto distratto potevano pensare che fossi pieno di vino. Si stava compiendo il giorno della mia Pentecoste[13].
Sentivo con dolore la mancanza e l’atroce bisogno di quella mirabile donna finlandese, delle parole, dello stile, dell’aspetto di lei. Mi scusai con Katalin, poco cortesemente, anzi un poco crudelmente, ma del tutto sinceramente: non potevo rimanere, poiché mi mancava una persona che a sua volta aveva bisogno di me. Parlavo senza imbarazzo, siccome dicevo parole sentite profondamente. “Senti Katalin-dissi con aria compunta- tu sei splendida e probabilmente un giorno rimpiangerò di non avere fatto l’amore con te. Adesso però sono innamorato di un’altra e devo, e voglio andare da lei. Non posso fare diversamente”. Ci rimase male parecchio, ma non cercò di trattenermi. Balbettò alcune parole insignificanti, che non ricordo. La memoria è un affresco scrostato delle parti meno belle. O di quelle migliori, secondo il carattere.
Gli altri crapuloni, sparsi nel prato del fumo che oscurava le stelle, nemmeno si accorsero che me ne andavo, sicchè , alzata appena la mano per un saluto collettivo e generico,  mi lanciai di corsa verso la radura del laghetto illuminato dalla luna scoperta. 
Soffrivo la mancanza di una relazione amorosa profonda, mi sentivo come viene descritto Eros, figlio di Penia[14], nel Simposio di Platone: un  mendicante dell’amore e della bellezza.

 Passai, sempre di corsa, sopra il ponticello di legno che risuonò non cupamente al battito svelto dei miei agili piedi, attraversai d’impeto il piazzale con la fontana dagli zampilli variopinti, come la mia vita, pensai,
vedendo l’acqua che fiammeggiava  policroma per i raggi   lanciati da fonti di luce.
La luce che mi sentivo dentro però veniva da Elena.
In poco tempo arrivai sul prato antistante il collegio dove la mia compagna, speravo, mi stava aspettando. Se non era già andata via. Speravo, temevo, pregavo. La terra è in mezzo alle stelle che danzano gioiosamente guidate da Dio, e sulla terra, qui a Debrecen, ci sei tu Elena, e forse mi pensi, e mi aspetti, e sei innamorata di me.
Infatti, infatti Elena c’era: era stata provvida la rinuncia a ubriacarmi di vino, a ingozzare tanta carne degli spiedini di porco, l’abnegazione dimostrata nel non rimanere  a lisciare, a sfregare, la carne ben tornita di Katalin, anche se il premio doveva rimanere soltanto quello: avere visto Elena che mi aspettava in camera sua affacciata alla finestra aperta sul prato umido di rugiada che luccicava di luna. Innumerevole sorriso dei roridi steli[15]. 
Vedere la sua figura  mi riempì di alta letizia. “Dio, accetto l’augurio”, pensai.
“Ciao”, dissi, come giunsi anelo sul rettangolo di erba illuminata non solo dalla casta diva celeste, ma anche dalla luce della finestra che incorniciava Elena. La donna, “sì lieta come bella”[16] aveva un’espressione di contentezza, forse proprio perché mi aveva visto arrivare. Traluceva dagli occhi dolcemente ridenti la gioia dell’attesa appagata. Elena aveva un’anima più buona e meno  contorta della mia. Anche per questo l’amavo.
“Ciao, sono venuto qua di corsa per te”. Ripresi fiato quasi subito, siccome quell’estate correvo sistematicamente, ossia tutti i giorni, anche due volte al giorno, cinquemila metri allo stadio. In meno di diciannove minuti. Dovevo essere in forma perfetta per l’amore che mi spettava e aspettava.
Dovevo avere un aspetto quintessenziale,  artisticamente stilizzato.
Ci ero vicino. Sentivo che padroneggiavo il mio corpo, lo dirigevo dove e come volevo, quasi senza fatica. Non ero appesantito da carne che non fosse la mia. Avevo voluto una figura priva di ridondanze, effigies ingenii mei, un’immagine del mio carattere che cercavo di scolpire nella roccia del Bene e del Bello. 
  Fatta una breve pausa, ricominciai: “Scusa, ho dovuto riprendere fiato. Poco fa mi trovavo dall’altra parte del bosco con gente che non mi piaceva, persone poco belle, poco fini, e ho sentito la mancanza, il bisogno della tua nobile semplicità”[17].   


Bologna 18 dicembre 2022 - ore 9, 20
Giovanni ghiselli

p. s
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Sto andando a prendere il treno per Roma. Conoscerò nuove persone che mi valorizzeranno dell’altro, ne sono sicuro. Tornerò mercoledì sera. Riprenderò questa storia e vi farò sapere come in quale modo e misura è andata bene. Saluti gianni
 
 


[1] Cfr. Sofocle,  Edipo re, v.482.
[2] Esiodo, Opere e Giorni, 165.
[3] Faccio un gioco di parole tra il verbo eliminare e il nome Elena. L’ho imparato dalle Troiane di Euripide, tragedia che portai alla maturità, nel 1963. In questo dramma Ecuba suggerisce a Menelao di ammazzare Elena  (  J Elevnh)  mhv s j e{lh/ povqw/, v. 891), perché non ti prenda con il desiderio.  Anche io, come Callimaco “non canto nulla che non sia testimoniato” pur quando racconto fatti miei. Questi devono avere  interesse e assumere valore per tutti. 
[4] Cfr. doppelt Schwein, Goethe, Faust I, La taverna di Auerbach a Lipsia.
[5] Avevo in mente  lo squillo iniziale del I stasimo dell’Antigone :"polla; ta; deina; koujde;n ajn-qrwvpou deinovteron pevlei" (vv. 332-333). 
[6] Cfr. Pascoli, Paulo Uccello, 16-17.
[7] Avevo in mente quelle di Arisofane (Rane225)
[8] Divka de; lavmpei  me;n ejn -duskavpnoiς dwvmasin, Agamennone, 773-774.
[9]  Cfr- Euripide, Fenicie, 543-544.
[10] Euripide, Fenicie, 549.
[11] Il personaggio “l’Ateniese” parla degli uomini sopravvissuti al diluvio.
[12] Platone, Leggi, 679b-c.
[13] Cfr. Nuovo Testamento,  Atti degli Apostoli, 2: Et cum compleretur dies Pentecostes repleti sunt omnes Spiritu Sancto…alii autem irridentes dicebant: “Musto pleni sunt isti”. 
[14] Povertà.
[15] Cfr. Eschilo, Prometeo incatenato,  pontivwn te kumavtwn-ajnhvriqmon gevlasma (vv. 89-90). innumerevole sorriso/delle onde marine 
[16] Dante, Paradiso I, 28.
[17] Confronta la nobile semplicità e la quieta grandezza (edle Einfalt und stille Gröbe) delle statue greche in Pensieri sull’imitazione dell’arte greca di J. Winckelann

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