Ci soffermammo sul significato della parola cultura, come contrappeso al pur pregevole scatenamento istintivo del pomeriggio.
L’apollineo dopo il dionisiaco.
“Cultura per me - dissi - non è il sapere dell’erudito, l’umbraticus doctor[1] dall’anima gobba, ma è sapienza che sa di vita, ossia è potenziamento della natura.
Queste formula le ho imparate da Petronio, da Nietzsche e da altri, ma il fatto l’ho sperimentato nella prassi, anche con te.
Oggi abbiamo toccato la bellezza della realtà: la realtà della realtà.
Non credo che saresti venuta a letto con me se non ti avessi attirata con alcune frasi belle prese a prestito dai miei autori. Non li ho derubati, siccome il fascino delle parole per fortuna non è sottoposto alla legge iniqua della proprietà privata.
Cultura è “conosci chi sei”, poi “diventa chi sei”. Cultura è “niente di troppo”. Se mi chiedi a che cosa serve, ti rispondo che serve ad amare, amare l’umanità umanisticamente, come dicesti tu, e anche a fare l’amore magnificamente, come lo facciamo noi due: tu con me e io con te”.
“Cultura è rispetto e amore per la vita”, aggiunse Elena.
“Alta cultura è l’amore nostro, l’amore tra noi due, il farlo tante volte, non esserne mai sazi. Io ti amo per il tuo aspetto bello che riflette un’anima bella e fine, come le tue parole”. Le dissi.
“Io ti amo perché sei buono, Gianni, e non giochi con il cuore delle persone, come fanno tanti, troppi truffatori .
Ti amo perché fai l’amore con me, per come lo fai.
Ti amo perché sai ascoltare, osservi con attenzione le persone e la natura, e per questo tu sei naturale, non artefatto”.
“Osservo soprattutto te, amore mio, con enorme attenzione. La mia naturalezza comunque , se non proprio costruita, certo è stata educata, dai libri e dagli incontri buoni che ho fatto, il migliore di gran lunga questo con te. Chi non viene corretto e motivato da buoni educatori, rimane vittima della pubblicità, o dei partiti che vogliono portare le teste all’ammasso, o resta schiavo dei luoghi comuni estranei alla realtà effettuale. Noi due, con il nostro parlare e fare l’amore confutiamo in continuazione i pregiudizi degli imbecilli e le astute menzogne dei mascalzoni e dei profittatori ”.
Intanto gli zigàni suonavano musiche popolari ungheresi.
Si mangiava e si beveva bene, e tutta l’atmosfera ci infondeva certezza del nostro amore, sicurezza nei nostri ruoli, insomma felicità.
A un certo punto mi scusai e andai in bagno. Soprattutto per guardarmi allo specchio, osservare la mia faccia giovane, tutt’altro che brutta, e compiacermene. “Ce l’hai fatta Gianni”, mi dissi. “Ce l’hai fatta.
Ricordi come arrivasti qui cinque anni fa, nel ’66?
Questa tua immagine gradevole era ancora fasciata di grasso, di sudiciume, e intorno aleggiava il fetore . Eri come un bastone di legno marcio che avvolga e racchiuda un verga d’oro[2], quella che vedi ora.
Rendi grazia al Creatore, a Elena, alla mamma che ti hanno modellato così bene. E dopo tutto anche al padre tuo, e alle zie, la Rina, la Giulia, la Giorgia che ti hanno aiutato. E a tua sorella Margherita che si è fatta educare da te quando era una bambina, alla nonna Margherita che tante volte ti ha offerto il suo sostegno, e non solo affettivo. Ai suoi genitori, i bisnonni Scattolari che ci hanno lasciato la terra di Tavullia e di Montegridolfo. E al nonno Carlo Martelli dal quale hai ereditato qualcosa di più della roba e dei soldi: lo sconfinato amore per le donne, per il sole, e il talento ciclistico.
Hai dentro il loro sangue, e ora anche quello del sole[3].
Questa donna ha trovato e raccolto i tuoi pezzi mentali ancora sparsi e confusi, e li sta mettendo insieme giusto in tempo per rimetterti in vita e in gioco, in questo gioco competitivo, terribile e bello che è la vita umana. D’ ora in avanti non voglio perdere più nemmeno una gara. Ai miei consanguinei e pure a Elena sarò grato per sempre.”.
Quindi tornai al nostro tavolo e ripresi a parlare con lei, ad ascoltarla, a osservarla e ammirarla. Più tardi facemmo ancora l’amore, nel grande bosco, una specie di santuario del nostro connubio sacro, della nostra ierogamia.
Le cantai e tradussi, con variazioni minime, una strofe della Canzone di Marinella di Fabrizio de Andrè, un altro dei miei educatori.
“E c’era il sole e avevi gli occhi belli,
io ti baciai le labbra ed i capelli.
C’era la luna e avevi gli occhi stanchi,
io misi le mie mani sui tuoi fianchi”.
Minä rakastan sinua [4], sussurrò nella sua lingua dolce. Le risposi con un sorriso: non sapevo dire “anche io” con altrettanta dolcezza, in finlandese. Ma si vedeva che l’amavo. Si vedeva dal piacere mai esausto. Non c’era bisogno di dirlo.
Eravamo felici. Una donna e un uomo in mezzo alla natura. Dove “Italia e Finlandia si sono strette in alleanza”[5].
Senza calcoli, senza arzigogoli, senza dolore, senza noia: nient’altro che noi due, il nostro amore e la nostra felicità. Sono rari nella vita momenti del genere.
Vengono e vanno. Comunque ritornano, siccome il cammino della vita, come quello dell’eternità ha le sue curvature[6], i suoi giri.
Andammo a dormire ciascuno nel proprio collegio, ma nel sonno gocciava davanti agli occhi il sogno che eravamo nello stesso letto e facevamo l’amore. Elena e io.
Bologna 24 dicembre 2022 ore 9, 59
giovanni ghiselli
[1] Nel Satyricon, l’io narrante Encolpio mette sotto accusa il tipo dello studioso, estraneo alla vita, lo stesso che Nietzsche definirà "l'eterno affamato, il "critico" senza piacere e senza forza, l'uomo alessandrino, che è in fondo un bibliotecario e un emendatore, e si acceca miseramente sulla polvere dei libri e degli errori di stampa" Nietzsche, La nascita della tragedia p. 12.
Il protagonista del romanzo di Petronio lo contrappone ai grandi tragici:"nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui, nondum umbraticus doctor ingenia deleverat " (2, 3-5), ancora i giovani non erano chiusi nelle vuote declamazioni, quando Sofocle e Euripide trovarono le parole con le quali dovevano parlare.
[2] Livio (I, 56) racconta che Bruto aveva portato in dono ad Apollo una verga d'oro inclusa in un bastone di corniolo con un incavo fatto a questo scopo, recando un’ immagine enigmatica del suo carattere:"aureum baculum inclusum cornĕo cavato ad id baculo tulisse donum Apollini dicitur, per ambagem effigiem ingenii sui".
[3] Cfr. il faraone Amenhotep (Amenophi IV) nel romanzo di T. Mann Giuseppe e i suoi fratelli: “Guarda qui!” disse a Giuseppe. “Avvicinati e guarda!” E scostando la batista dall’esile braccio gli mostrò le vene azzurre nella parte interna dell’avambraccio. “Questo è il sangue del Sole!” Giuseppe il nutritore (IV volume), p. 204.
Anche Medea ha sangue del sole.
[4] Io ti amo
[5] Nietzsche, Umano, troppo umano, Il viandante e la sua ombra, 338.
[6]
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