Mi scusai con gli amici storici che nell’estate del ’71 erano tutti a Debrecen. Andai a controllare la forma mia in uno specchio dei gabinetti. Non ero male. Fisicamente ero nella condizione migliore: molto magro, abbronzato, con i capelli bruni bruni corti, ancora un poco militareschi che tuttavia non mi imbruttivano; portavo senza difficoltà le lenti a contatto e avevo un vestito azzurro che si intonava bene con il colore assai scuro della mia pelle da etrusco adusto dal sole, il dio che mai mi ha lasciato sbiadire. Anche in caserma trovavo il modo di prendere il suo colore caldo e beneficentissimo.
Avevo le sembianze corporee dalla mamma mia, Luisa Martelli, una ragazza bella, speciale, di Borgo Sansepolcro, il paese di Piero, quello, della Resurrezione di Cristo, della Madonna del parto[1], e di altro.
Gli occhi azzurri di Luisa no, purtroppo, non li avevo presi, ma andava bene lo stesso.
Mi piacevo abbastanza. Non ero male per niente: infatti passando in mezzo ai tavoli per andare a specchiarmi, avevo notato che diverse fanciulle mi guardavano con simpatia, qualcuna mi sorrideva perfino, e questa è la prova migliore, l’unica, che sei in buona forma e puoi piacere[2]. Ringraziai la mamma mia benedetta. Andava bene così. Con gli occhi azzurri magari mi sarei montato la testa e avrei peccato di u{bri~.
Non volevo iniziare una vita diversa ma proseguire nel percorso in salita della mia.
Mi confortai: la bella donna non mi aveva scartato per via dell’aspetto, altrimenti mi avrebbe scansato subito e completamente, come stava facendo con alcuni giovanotti petulanti che la invitavano a ballare; no, Elena aveva provato noia della mia parola banale, priva di qualsiasi bellezza. Con l’eloquio vuoto di idee e di sentimenti forti mi ero macchiato di squallore. Come fa la gente comune, e lei, come la mamma mia, non era una persona comune. Io nemmeno. Dunque potevo trovare un rimedio. Una donna siffatta esigeva, e meritava, il meglio di me. Motivo di più per amarla. Era un’impresa ardua, del resto ogni cosa difficile ributta l’uomo imbelle. E viceversa.
Mi venne in mente Pindaro che nell’ Olimpica I racconta l’impresa di Pelope il quale per conquistare Ippodamia deve battere, in una gara furiosa su un cocchio tirato da cavalli, il sanguinario padre di lei, Enomao[3], assassino dei pretendenti ogni volta sconfitti. L’eroe eponimo del Peloponneso, la parte più autentica e bella dell’Ellade, la notte prima dell’agone rischioso prega il dio Poseidone:
“Dato che è necessario morire, perché uno dovrebbe
smaltire invano una vecchiaia anonima seduto nell'ombra
senza parte di tutte le cose belle? ma questa
gara giacerà sotto di me: tu dammi propizio l'evento"[4].
Una preghiera opportuna.
Per vincere la mia gara dunque, per evitare una sconcia disfatta, dovevo trovare il modo di farmi ascoltare con interesse in un secondo incontro con la bella donna cosciente del bello. Dovevo piacerle tanto da farla giacere nuda con me nudo in un letto, cosa che è il solo rimedio al dolore della pena amorosa. Dovevo espugnarla.
Era dunque necessario preparare una conversazione più intensa, più densa e pastosa; un logos più profondo e più alto, un pathos pieno di vita, parole e pensieri sublimi, com’era lei nella mia valutazione, non so se eccessiva ma senza dubbio necessaria a stimolare e potenziare tutte le mie energie migliori. I miei slanci amorosi dovevano avere il fascino parole geniali: un fraseggiare di brevità, di bellezza e di forza; con meno di tanto non potevo farcela. Dovevo quel successo al prosieguo della mia esistenza terrena.
Come Pelope.
“E il vincitore per il resto della vita
ha una dolce serenità”[5], mormorai.
Bologna 16 dicembre 2022 ore 13, 45
giovanni ghiselli
p. s
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[1] Questa veramente si trova a Monterchi, una quindicina di chilometri da Sansepolcro.
[2] Non la pensa così Giocasta nelle Fenicie di Euripide. La donna domanda al figlio Eteocle: “pensi che essere guardati sia segno di valore? (periblevpesqai timion; ;) Secondo lei è kenovn, cosa vuota (kenovn) v. 551.
[3] Il momento che precede la partenza è raffigurato dalle sculture del frontone orientale del tempio di Zeus a Olimpia.
[4] Pindaro, Olimpica I, vv. 83-84 tradotti quasi letteralmente.
[5] Pindaro, Olimpica
I, vv. 97-98, tradotti letteralmente.
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