Quindi diedi inizio alla prova guardandola intensamente e tentando di mostrarle, attraverso gli occhi, i miei contenuti interiori dai quali, immaginavo, non dovevano divergere troppo i suoi, se non mi ingannavo nel valutarne lo stile che, a vedersi, era abbastanza simile al mio, anche se, forse, più al mio di adesso, dopo il processo di identificazione con lei, che a quello di allora.
Sebbene la ragazza rossa e pensosa non mi sembrasse il tipo che si guarda intorno per farsi guardare e per mostrarsi disponibile, non escludevo che mi notasse e si incuriosisse di me a prima vista, poiché quella finnica era pur sempre una femmina umana giovane e non accompagnata da un maschio ed era priva di anelli quali ceppi alle dita e all’amore; era dunque probabilmente libera e magari pure desiderosa di innamorarsi. Al pari di me. Io mi sentivo, e forse ero anche nella migliore tra le mie forme possibili: i trent’anni, del resto non ancora compiuti, non mi avevano incanutito nemmeno un poco, né spelacchiato, né ingrassato, come altri della mia età, anzi, avevano impresso sul mio viso molto abbronzato e un poco segnato, leggeri solchi, poi seminati con cura dal Sole, la santa faccia di luce che nutre la vita. Sapevo bene quanto volevo: bramavo con forza quella finnica rossa e questa certezza mi dava un’espressione consapevole che potenziava la forza attrattiva dell’insieme.
In quel pomeriggio di luglio dunque nutrivo una certa fiducia nella buona riuscita del mio intento, un poco ricordando i successi[1] del ’71[2] e del ’72[3] in circostanza analoghe, e ancora di più perché avevo qualcosa di preciso da dire, da chiedere e offrire, a una donna probabilmente dotata e ricca di anima, quale pareva quella creatura dai capelli lunghi, dall’aria intelligente, vestita di velluto purpureo. Allora non sapevo che la porpora può essere sinistramente ominosa e annunciare la morte vicina[4]. Sarebbe stata quella della nostra bambina.
Ma in quel momento aspettavo e agognavo soltanto il momento opportuno, l’occasione che mi venisse offerta di avvicinarmi alla meta e gettarmi sul campo fiorente del suo seno, del suo ombelico che identificavo già con il centro del mondo. Volevo andare a pregare piegato su l’ ojmfalov" di quella donna, come avevo fatto più volte sull’ombelico di Delfi, dove il Dio pitico mi aveva quasi sempre esaudito.
“Dio, come mi piace! - pensai ancora una volta - Dio, fai che io possa piacere a lei. Se mi dai quella donna, Dio, e se è come appare, ti prometto che d’ora in avanti farò di tutto per evitare qualsiasi commercio con femmine stolte.
“Tu sei piena di spirito” pensavo poi, rivolgendo lo sguardo a quell’ideale incarnato nella finlandese purpurea.
Cercavo di farle scoprire l’anima mia, mediterranea, ma ugualmente non ordinaria, lanciando occhiate piene di pathos intelligente.
Lei però, con mio smacco, non mi contraccambiava, forse nemmeno mi aveva visto. Parlava con un’altra, finlandese probabilmente, senza guardarsi intorno come fanno gli eterni cercatori di amore.
“Stai a vedere che è incinta anche questa - pensai - non sarebbe comunque un ostacolo insormontabile. Io l’amo. Non cederò. La grande difficoltà scoraggia il fanciullo o l’uomo imbelle. Tu, gianni, non sei né l’uno né l’altro. Misura le possibilità di successo con il metro delle tue forze mentali e somatiche. Non contare i tuoi anni, ma le non poche donne che hai conosciuto, alcune anche meravigliosamente”.
Vero è che le due conoscenze più belle erano state interrotte dopo un solo mese di gioia, e tale sarebbe stata anche questa con ogni probabilità, ma non era il momento di lasciarsi frenare da tale pensiero.
Un mese è meglio che una settimana pensavo allora, adesso so per esperienza che è pure meglio di un anno.
Me ne sentivo già innamorato, ne andavo pazzo, poiché il suo stile serio e naturale la distingueva da tutte, e accresceva in ogni momento la prima impressione che quell’immagine potesse contenere un’interiorità ricca e rara, e fosse proprio l’antitesi dell’istriona nevrotica, sempre bramosa di spalancare il suo insopportabile vuoto, gesticolando, sbraitando, dando ordini con fiero cipiglio, o fingendo di struggersi in lacrime.
Ogni minuto che passava, mentre nel pomeriggio dell’estate già declinante si allungavano tutte le ombre, la necessità dalle mani d’acciaio mi spingeva, con forza sempre maggiore, a entrare in contatto con quella che mi appariva il mio stesso ideale di donna, anzi di essere umano.
“Tu sei nobile e seria - recitavo e pregavo - tu sicuramente leggi, impari e capisci, creatura. Tu parli di rado con voce soave. Non c’è in te alcuna traccia di posa, di civetteria, di menzogna. Io ho bisogno di te.
Cerca di capire anche questo. Noi due dobbiamo parlare: vedrai che, ispirato da te, riuscirò a dirti qualche cosa di interessante, di bello e degno della tua nobiltà”.
Mentre pregavo l’idolo mio, osservavo la ragazza reale, volendo significarle la mia profondità interiore e il bisogno che avevo dell’amore, dell’amore di lei.
Ma nonostante i grandi sforzi espressivi, non progredivo: dopo cinque minuti di quella scena, fin troppi, mi accorsi che non potevo colpire il bersaglio soltanto guardandola, seppure intensamente e con occhi pieni di intelligenza e ardenti di pathos, poiché lei non mi prestava attenzione; forse nemmeno si era accorta di me. Capii che dovevo andare da lei anche se non mi aveva notato, né guardato, dovevo proprio, dato che la splendidissima rossa vestita del colore di fiamma viva, con gli occhiali da vista e l’aria pensosa, poteva essere proprio colei che mi avrebbe spinto alle cose egregie che dovevo a me stesso, ai miei studenti, e a voi lettori cari[5].
Le arrivai vicino, la guardai a più riprese, aspettai che mi desse un’occhiata, e quando, come Dio volle, lo fece, le rivolsi la parola, in inglese ovviamente, con calma, a bassa voce, affinché comprendesse subito che ero diverso dal coro della gente fangosa, gracidante nella palude dei più, e che non mi presentavo per scherzo, cercando solo un’avventura amorosa con una straniera nordica e pure un po’ asiatica, presumibilmente più libera in cose erotiche di un’italiana ancora inceppata da divieti e superstizioni, ma volevo una relazione profonda proprio con lei, lei sola, identificata con la felicità, ossia con il destino buono che doveva essere il mio.
Bologna 29 dicembre 2022 giovanni ghiselli
p. s
Statistiche del blog
Sempre1306399
Oggi198
Ieri302
Questo mese8089
Il mese scorso8344
[2] Cfr. la storia di Helena .
[3] Questa è la storia di Kaisa .
[4] Nel V dell’Iliade purpurea è la morte che prese il troiano Ipsenore colpito da Euripilo: “e[llabe porfuvreo~ qavnato~ kai; moi'ra krataihv” (v. 839, lo prese la morte purpurea e la moira possente. Questo verso viene ripetuto da Giuliano quando, il 6 novembre del 354 viene nominato Cesare dal cugino Costanzo. In quella circontanza risplendeva nel fulgore della porpora imperiale ( imperatorii muricis fulgore), i soldati lo avevano acclamato battendo gli scudi sul ginocchio, e, salito sul cocchio imperiale, procedeva verso la reggia.
[5] Oggi il “caro” si lesina, anche nel saluto epistolare, per diffidenza, grettezza, avarizia. Io l’ho sempre usato, come segno di cortesia almeno, spesso pure di affetto, e se chi lo riceve si spaventa o addirittura si offende, peggio per lui.
p. s
Statistiche del blog
Sempre1306399
Oggi198
Ieri302
Questo mese8089
Il mese scorso8344
------------------------------
[1] Cfr. quanto dice Giuliano Augusto quando si prepara ad attaccare Costanzo e parla ai soldati: quid agi oporteat bonis successibus instruendi (Ammiano Marcellino, Storie, 21, 5, 6).[2] Cfr. la storia di Helena .
[3] Questa è la storia di Kaisa .
[4] Nel V dell’Iliade purpurea è la morte che prese il troiano Ipsenore colpito da Euripilo: “e[llabe porfuvreo~ qavnato~ kai; moi'ra krataihv” (v. 839, lo prese la morte purpurea e la moira possente. Questo verso viene ripetuto da Giuliano quando, il 6 novembre del 354 viene nominato Cesare dal cugino Costanzo. In quella circontanza risplendeva nel fulgore della porpora imperiale ( imperatorii muricis fulgore), i soldati lo avevano acclamato battendo gli scudi sul ginocchio, e, salito sul cocchio imperiale, procedeva verso la reggia.
[5] Oggi il “caro” si lesina, anche nel saluto epistolare, per diffidenza, grettezza, avarizia. Io l’ho sempre usato, come segno di cortesia almeno, spesso pure di affetto, e se chi lo riceve si spaventa o addirittura si offende, peggio per lui.
Nessun commento:
Posta un commento