sabato 17 dicembre 2022

1971. La storia di Elena. 7. Il “ricevimento del rettore”. Il tragitto attraverso la puszta

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Dopo la festa della conoscenza, per due giorni interi non la rividi, né la sentii, ma non smisi di cercarla con gli occhi, con le orecchie e perfino con il naso, ovunque mi aggirassi, pensandola spesso: sul prato, nel grande bosco, in piscina dove nuotavo di giorno, allo stadio dove correvo a mezzogiorno e la sera, dentro l’università, durante gli intervalli tra le lezioni, come facevo nei corridoi del liceo Mamiani di Pesaro quando, diciassettenne, ero innamorato di una ragazza bionda, di Fano.

Un amore mai contraccambiato, e, con il senno del poi, per fortuna.
I bersagli mancati non sono adatti a noi e fallirli è un successo.
 
Pure nella mensa  cercavo Elena,  tra lo schioccare dei piatti e il vociare delle inservienti. Non la incontravo, ma l’avevo in mente, e sentivo il bisogno ansioso di vederla, di parlarle ancora, di ascoltarla, per fare l’amore con lei e formare dentro di me un modello di capolavoro umano e artistico. Volevo entrare in comunione con quella donna per diventare migliore. Mi avevano colpito i suoi sguardi e il suo stile sublime, appropriato alle parole che diceva, dense di senso, belle e morali. Avevo invece dei dubbi sullo stile mio, sull’eloquio inadeguato alla sua  persona augusta,  e cercavo un’altra occasione per muovermi e parlare meglio: una sorta di esame di riparazione nella scuola dell’amore. Dovevo darle a vedere che non ero un uomo volgare, nemmeno banale: amavo l’amore, credevo nell’educazione, volevo sapere di letteratura, di filosofia,  di arte, di cinema, la più moderna e progressiva delle arti[1]; avevo  voglia e la capacità di fare sport con metodo. Questo e altro potevo realizzare, se quella donna bella e fine mi avesse aiutato.
Ero innamorato di lei. La pensavo continuamente.
Dovevo incontrarla di nuovo per tentare ancora la sorte: Cloto fa girare ogni fato, ricordai, speranzoso.
 
 Finché, due giorni più tardi, la vidi di nuovo seduta nel Megaron, la grande sala centrale dell’Università. Parlava con una bionda. Eravamo al “ricevimento del Rettore”: la festa pomeridiana. Nel mezzo della sala c’era un tavolo grande coperto di piatti con dolci, e di bottiglie con liquidi vari, per lo più alcolici. Mi sentivo meno insicuro che al primo incontro serale: questa volta sapevo già chi cercavo e che cosa volevo; inoltre, nel pomeriggio estivo il salone veniva irradiato da un sole ancora alto attraverso il lucernario del soffitto, e quando sono evidenziato da una fonte luminosa, soprattutto se naturale, mi sento più bello e più sicuro che nella penombra, più capace di comunicare simpatia a chi mi piace, forse perché provo una gran simpatia per la fiamma del dio che nutre la vita e la rende variopinta.
Il primo di tutti gli dèi, lo chiama Sofocle nell’Edipo re[2] che è il testo più denso e profondo tra quanti ne conosco della letteratura occidentale.
Il dio Elio in effetti occupava il posto che verrà attribuito a Cristo: il 25 dicembre, il solstizio d’inverno nel calendario giuliano[3], prima dell’affermarsi del cristianesimo, era il  dies natalis solis invicti.
 
A dire tutta la verità, quando vidi il termine fisso dei miei continui pensieri, sentii il bisogno di farmi coraggio con una palinka all’albicocca, una specie di grappa ungherese, un farmaco per la mia insicurezza: infatti, nonostante la preparazione mentale, la santa luce del sole estivo, e l’ottimismo di fondo, io con la bella donna che, probabilmente annoiata, dopo due soli balli con me, era tornata direttamente al tavolo suo, ero svantaggiato in partenza. Come nella vita del resto. Stavo risalendo la china lunga ed erta, uno Stelvio dalla parte di Prato da fare in bicicletta in non più di due ore. Sono venticinque chilometri di salita continua, ora più dura ora meno. Non erano finite le prove dunque.
 Dovevo provarci di nuovo.
Dopo avere bevuto, non a dismisura, e averla guardata con una certa insistenza, non proprio con fissità, ma in modo piuttosto tenace, senza del resto venirne contraccambiato, se non di sfuggita, mi avvicinai a lei mentre beveva una birra, con lentezza, e parlava con voce bassa, adagio, alla vicina, verosimilmente un’altra finnica, bionda però, e non bella.
A dirla tutta, un cesso di donna quell’altra.

Salutai Elena con calore, ma lei, quasi stupita, sembrava non ricordarsi, o ricordarsi appena, di me; quindi, con fatica e imbarazzo, cercai di rammentarle il nostro incontro serale; poi, in modo diretto, giacché oramai era l’unica cosa da fare, la ratio extrema, dissi che io due sere prima l’avevo notata subito per il suo stile, e non l’avevo scordata neppure per un momento. Anzi, avevo pensato a un nuovo colloquio tra noi. Avevo passato due giorni aspettando di incontrarla un’altra volta per dirle che avrei voluto conoscerla meglio.
 Speravo di parlare ancora con lei.
“Quando, e di che cosa?”, mi domandò con miglior labbia e senza intonazione retorica, guardandomi, del resto, con un’espressione di curiosità vagamente ironica. Sembrava volesse lasciare la scelta e l’iniziativa a me, visto che ero, e chissà perché, tanto interessato.
Comunque mi sentii incoraggiato, e, sorridendo, risposi: “il più presto possibile! Adesso! Se vuoi, ti porto a vedere la puszta, la grande pianura senza alberi. Conosco una csárda dove suonano le danze ungheresi di Brahms, si beve del vino buono e si può parlare stando in pace. Sono sicuro che abbiamo qualche cosa, anzi molto da dirci!
Hai un’aria da persona riflessiva. Mi piacerebbe sapere che cosa pensi e dirti qualcosa di me, se vuoi”.
Mi guardava con un’espressione quasi benevola, comunque non riluttante. L’altra mi fissava con gli occhi sgranati e poco espressivi: non capivo nemmeno se fosse in grado di comprendere quanto dicevo nel mio inglese quasi tutto neolatino. 
“Se vuoi, puoi invitare anche la tua amica”, dissi, accennando con il capo alla biondastra imbambolata e brutta assai, a dire il vero.
Accanto alla bellezza, appare più brutta la deformità.
“In questo caso, chiamo un mio amico italiano intelligente; così, in modo più vario, ci scambiamo notizie sulle culture, credo alquanto diverse, dei nostri paesi”. Avevo aggiunto altri due perché non si sentisse troppo pressata da me.
 
Il tono doveva essere quello giusto: la Sarjantola, dalla prima curiosità generica, era passata a uno sguardo più attento, quasi di blando interesse. Anche l’idea di farla salire sulla mia automobile nuova e poco comune, mi faceva coraggio nella mia debolezza di allora. Helena mi aveva guardato con simpatia, finalmente: forse si era accorta che non ero brutto del tutto, né proprio cretino, né completamente vuoto e volgare. Quindi, con tono ed espressione non avversi alla mia proposta, si rivolse in finlandese all’altra chiedendole, immagino, che cosa ne pensasse. La bionda tardava a rispondere. Allora Helena cominciò a parlarle in inglese, probabilmente per significarmi che potevo intervenire in favore del programma.
Lo feci con foga, caldeggiando la puszta sconfinata,  la caratteristica osteria di Hortobágy, i violini e i cembali degli zigani che suonano le danze popolari magiare e le danze ungheresi di Brahms.  Fuori dalla csárda invece si poteva ascoltare il canto del vento estivo che soffiava dalla puszta sulle nove arcate del celebre ponte e le rendeva arcanamente sonore .
L’altra, l’attonita bionda che si chiamava Marja Liisa e sembrava intronata, continuava a fissarmi con gli occhi sbarrati senza dire parola, come Argo, il mostro insonne dalle mille pupille, messo dal padre Inaco a guardia di Iò, la fanciulla concupita da Zeus.
Allora ruppi gli indugi e dissi: “Va bene. Ora chiamo il mio amico”.
E la Sarjantola: “ Sì,  andiamo nella puszta”.
Veramente si poteva parlare anche lì, ma la puszta era un pretesto per andare via insieme e creare un precedente, magari con una complicità costruttiva. Come quella instaurata con Fulvio, la prima volta di Debrecen, nel luglio, già allora lontano, del 1966.
 Corsi a chiamare l’amico, trattenendomi per non fare salti di gioia. Sì, quella donna, molto probabilmente, era destino. La stessa Afrodite dal dolce sorriso ci spingeva benignamente all’unione.

“Fulvio”, dissi concitatamennte. “sono innamorato e chiedo il tuo aiuto! Vieni,  andiamo via con due donne, due finlandesi”. Gliele indicai con un cenno forse pur troppo evidente. Fulvio, per sua cortesia e umanità, infatti era chiaro di quale delle due potevo volere  l’amore con tanto slancio, rispose: “sì vengo volentieri, però ti prego, lasciami la bionda dagli occhi di Medusa”. Gentile, gentiluomo di Parma. “Sì, certo” dissi “ma vedi di non lasciarti pietrificare.”.
Ancora l’amico non aveva ingranato con la futura moglie, l’insolente del Carso.
“Va bene, va bene”, lo incalzai, “io voglio la mora vestita di bianco. Non è per gioco né per vanità che la voglio. Io la amo. Quella non è una donna, è una dèa. Sbrighiamoci però: non posso perdere per colpevole inerzia quello che mi offre il destino!”, aggiunsi con un’ enfasi tale che togliesse ogni dubbio alle mie intenzioni.
Così tutti e quattro salimmo sulla nera Volkswagen decappottata. Cercavo di fare bella figura anche guidando l’automobile. Se non altro, da appassionato ciclista quale sono, davo sempre la precedenza alle biciclette. Ma anche ai pedoni. Ai più deboli insomma. Da bambino tenevo per Ettore e per i Troiani. E per gli Indiani massacrati dai bianchi nei film western.

A metà strada, Elena disse che da come mi comportavo alla guida sembravo una persona gentile e sicura. Ero tutto contento. Duravo fatica a non scoppiare di gioia. Ma non dovevo esplodere. Era necessario procedere sfruttando l’abbrivio del successo appena iniziato. La bella donna, presa di mira dalle mie brame, dal bisogno del suo corpo e del mio riscatto, stava entrando in sintonia con me. Stavo ritrovando l’amore difficile,  spesso smarrito, di mia madre, della nonna Margherita, di mia sorella, Margherita anche lei, e delle nostre zie.
Attraversando la puszta con gli occhi umidi dalla felicità, notavo con simpatia le oche e le pecore bianche, gli enormi maiali neri, le falangi di girasoli verdi e gialli,  i cavalli pezzati, le farfalle variopinte, i pozzi dalle lunghe antenne scenografiche; tutto con simpatia e gioia guardavo, perfino le grosse nuvole scure e acquose che da occidente minacciavano  pioggia.
Scorreva un torrente cromatico  con un mormorio che faceva eco ai miei sentimenti.
Ogni cosa aveva una sua attrattiva poiché  faceva parte di un processo naturale che mi apparteneva e al quale appartenevo. Era lo scenario della mia crescita in termini umani.  
Mi sentivo in armonia e in comunione con il mondo, come sempre succede quando si viene contraccambiati nell’amore o quando si crea qualche cosa di bello. Questo l’avrei fatto più avanti, se quella donna ispiratrice di sentimenti forti avesse riconosciuto e favorito il mio genio.

 
Bologna 17 dicembre 2022- ore 11, 57
giovanni ghiselli

p. s.
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[1] Cfr. Sergej Ejzenštein, Memorie, trad. It. Se, Milano 2000,  p. 84
[2] Nell'Edipo re  il sole oltre essere  " pavntwn qew'n provmo""(660),  il primo fra tutti gli dei, è anche la fiamma che nutre la vita , "th;n..pavnta bovskousan flovga"(v.1425); nell'Edipo a Colono (v.869) è, con una ripresa dell'idea omerica,"oJ pavnta leuvsswn JvHlio"", Elio che vede tutto.
[3] Del 46 a. C.

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