domenica 18 dicembre 2022

1971. La storia di Elena. 9. Il corteggiamento pressante nel bosco, di notte

Giunti là, sedemmo su una panchina sotto una quercia immensa, sull’orlo dell’acqua. Elena mi parlò della sua vita in Finlandia, del suo lavoro che amava e del suo uomo di cui, invece, non sembrava innamoratissima. Disse comunque che intendeva  rispettarlo, e che gli voleva bene, particolarmente da quando, negli ultimi tempi, avevano quasi deciso di vivere insieme perché lei forse, probabilmente, aspettava un bambino. Quest’ultima notizia mi impressionò, ma non fu un deterrente tale da farmi cambiare proposito. Anzi, il desiderio di unirmi a lei ne fu incentivato: all’amore si aggiungeva il gusto del proibito e quello della rivalsa: lei era bella e fine; di lui disse che era facoltoso, una specie di Puntila brechtiano, non colto, un poco strambo, buon bevitore e fisicamente prestante.

 Sentite queste parole,  il mio demone avido, magro, cupamente famelico, mi spingeva più che mai a corteggiarla perché si unisse con me e mi nutrisse con la sua carne bianca e sostanziosa, dopo avere abolito tutti i divieti di cui ero stato imbevuto in famiglia e in parrocchia, tabù che in passato mi avevano oscurato la gioia di vivere.
“Perché hai scelto quell’uomo?” Le domandai a bruciapelo.
“Perché è buono, mi dà sicurezza e il suo aspetto mi piace”.
 Gongolando dentro di me senza farlo vedere, anzi con aria compunta, un poco gesuitica, le feci notare che non lo aveva descritto come dotato di cultura e di genio, qualità che alle donne  dotate di tali gioielli piacciono assai, magari al di sopra di tutte le altre. La potenza suprema che attira le femmine umane belle e fini, Elena non l’aveva riconosciuta al suo compagno finnico, mentre in me la stava rilevando e potenziando dopo un’ora di conversazione.

La partita a scacchi dunque poteva procedere. Lo svantaggio della prima serata era stato colmato e si stava rovesciando in vantaggio.
Per confermarlo, passai all’attacco. Le domandai: “E’ anche  intelligente il tuo fidanzato?”
“Crede di esserlo” rispose non senza ironia, aprendo la strada al mio trionfo, infondendo ulteriore coraggio al mio demone lupo affamato.
“Un particolare decisivo”, pensai
E subito dissi: “Anche se tu hai un uomo e aspetti un figlio da lui, io ti amo, e sento che se  mi ricambierai, noi ci rafforzeremo e diverremo più felici”.
“Forse non aspetto un bambino”, replicò,  “né rimarrò con lui. Sai, io non sto del tutto bene. A volte sento grandi dolori nel ventre. Quand’ero più giovane, da adolescente, mi hanno operata. Poi stavo molto meglio, ma ultimamente, con l’interruzione delle mestruazioni, sono tornati i dolori. Un medico di Yväskylä, poco prima che partissi, mi ha detto che devo farmi vedere presto, qui a Debrecen. Potrei essere incinta, ma potrebbe essere cancro. Ho paura. Comunque devo fare una serie di analisi, cominciando dal test di gravidanza. Ho molta paura. Non sono sicura di aspettare un bambino, né di volerlo, e ho terrore di essere malata a morte. Poi ho altri timori”.
Qui si interruppe. “Cioè?” le domandai spaventato, commosso, eccitato. Quella donna era la femmina incinta: la madre, amata nobis quantum amabitur nulla [1], la mamma che fino allora non era stata abbastanza affettuosa con me sebbene, ora credo, mi amasse, né io ero stato incoraggiato a manifestarle affetto, per quanto l’amassi; Elena era inoltre la giovane bisognosa di aiuto e conforto: la figlia che non avevo e forse non avrei avuto mai il coraggio di mettere al mondo; era la donna intelligente, ammirata e desiderata: l’amante e l’amica quale mai avevo incontrato.
Le femmine leziose, le sbiadite e le variopinte, le morte di studio e di sonno, le commedianti incolte, le chiacchierone petulanti in vari modi incontrate fino a quel momento non avevano mai suscitato un così grande e forte interesse nell’anima mia.
“Cioè non so parlare ungherese, e in clinica temo di non potermi spiegare”.
“Ti aiuto io”, proposi, “io me la cavo, anzi, per te sarei capace di improvvisarmi eloquente anche in questa lingua magiara”. Non dissi “ostrogota” poiché l’ungherese e il finlandese hanno una lontana parentela. Sarebbe stato offensivo. Aggiunsi che le mie parole si sarebbero accese di una luce chiarissima, riverberando la sua splendente bellezza. Una bellezza, conclusi, che era anche intelligenza e moralità.

Ma Elena non si lasciò impressionare granché dal mio slancio: mi prese la mano destra e disse: “Gianni, io non ho bisogno di un amante. Tu sembri buono. Possiamo essere amici, se vuoi. In ogni modo mi piaci: sei intelligente, sei simpatico, sei gradevole. Tu sai piacere, davvero, e io sto imparando a stimarti, a volerti bene. Però non deludermi con una richiesta che ora non posso esaudire. Adesso non lo farei con nessuno, nemmeno con lui”.
La guardavo con aria di assenso.
Dissi: “non preoccuparti. Ti farò questo piccolo favore senza aspettarmi niente in cambio. E su questo non giustificarti, non dire altro. L’aiuto che posso darti non ha bisogno di lunghi discorsi”.
Intanto però pensavo: “Sembra un rifiuto, ma non lo è. Mi ha riconosciuto tutte le qualità per cui una donna di valore ama un uomo. Mi chiede di non chiederle amore, mentre è lei che me lo offre. Sennò tornava in collegio con l’altra,  la medusa attonita, dallo sguardo tremendo. La faccenda della lingua ungherese è un pretesto, magari suggeritole dal fato, un’occasione offerta alla crescita della nostra intesa. I medici ungheresi o vietnamiti o uzbeki della clinica universitaria un poco di inglese lo sanno. Che noi due si faccia l’amore è destino. Dio stesso lo vuole e io non recalcitro mai al volere di Dio.
Sono perfino disposto ad aiutarla gratis et sine corporis voluptatibus, se il Fato dispone questo e lei davvero non può darmi nulla in cambio. Ma è molto improbabile, quasi impossibile”.
 Dopo qualche istante di riflessivo silenzio, le accarezzai i capelli e le sussurrai: “Non avere paura. A Elena, la figlia di Zeus, non si addice la paura”[2]. Mi guardò sorridendo a sua volta e disse: “Di te io non ho paura. Tu hai lo sguardo buono, tu non fai del male”.
Intanto la luna, bianca come le braccia di Elena, era sbucata in mezzo alle nuvole frettolose, ma l’alta e vasta chioma dell’antica quercia non le permetteva di illuminare in pieno la nostra panchina, né di cospargere con luminosi diamanti i capelli neri e foltissimi della donna. Il laghetto nel mezzo della radura invece splendeva nella notte che si andava rasserenando, i grilli sembravano suonare il preludio di un’opera piena di amore, le rane cantarne i duetti, i terzetti, i cori. Pensai a Mozart amato da Dio, al compaesano Rossini e ad altre voci divine. Mi sentivo amato anche io. Avrei voluto unirmi a tutte le cose belle del creato.

Elena a un tratto scostò la sua nobile testa dalla mia mano, ma lentamente e guardandomi con occhi pieni di pathos luminoso, come se mi chiedesse, speravo, di accarezzarle il cuore, cioè, più realisticamente, il seno opulento, invece dei capelli corvini e della testa piena di dubbi, forse non senza dolore.
 Io intanto pensavo: “Sarà un’impresa ardua, però devo farcela: questo successo mi serve per conquistare, con Elena, l’autocompiacimento necessario a realizzare le cose egregie cui mi sento portato. Mia madre non mi ha capito e amato quanto avrei voluto: quando ero bambino diceva che ero un piccolo delinquente, siccome la criticavo: l’avrei voluta perfetta, molto migliore di me, mentre era infantile, emotiva, capricciosa, e io, invece di accettarla com’era, volevo cambiarla, sbagliando. Mia mamma era bella com’era e non voleva tradire la sua natura. Come me d’altra parte. “Con questa donna-mamma, pensavo, posso rifarmi, posso diventare l’arbitro di me stesso, della stima che ho fatto dipendere quasi sempre dagli altri, perché non ho avuto la forza di piacere del tutto a mia madre.
Ora faccio pressione su questa femmina umana e sulla natura affinché mi riveli i suoi propositi arcani”.

Dopo questa riflessione, le domandai: “Perché mi trovi intelligente? Forse lo sono, però non credo di avertelo già dimostrato”.
“Io l’ho capito da quello che dici, da quello che non dici, da come ti muovi, da come riesci a diventare simpatico; tu sei diverso dagli altri, da quelli che giocano sporco: quelli che  cercano di burlare il cuore e il cervello degli altri con le menzogne”. Si fermò un momento. Quindi, con nobile sdegno aggiunse: “ Non so come puoi frequentarli. Io non ci riesco”.
“Non li frequento granché” mi scusai.
 “Volevo sentirtelo dire. In effetti ho visto subito che eri diverso dagli altri, e mi sei piaciuto,  poi parlando con te, ho imparato a stimarti; anzi, forse in questo momento non dovrei dirtelo, ma comincio a sentire qualcosa di profondo nei tuoi confronti”.
“Dunque non mi sono sbagliato”, pensai.
Poi dissi: “Allora c’è davvero un’armonia già  visibile e chiara tra noi, un’intesa predestinata ab aeterno e forse illimitata nel tempo”.
 Volevo allargare l’apertura appena concessa, consacrando con l’infinito l’ipotesi del connubio, che, ora ne sono convinto, era voluto dal Fato se lo aveva inserito nella serie delle cause che stoicamente e cristianamente, pur attraverso le difficoltà e i travagli, conducono a risultati egregi, latori di bene.
Quindi ricominciai: “Io credo ci sia un demone buono, un destino favorevole che ci ha fatto incontrare e ci spinge ad amarci, o a volerci bene, se preferisci: forse noi siamo due spezzoni, metà e simboli di una persona una volta completa, poi divisa  perché troppo forte, come racconta il personaggio Aristofane nel Simposio di Platone. Adesso, se ci uniamo di nuovo, recuperiamo quell’interezza di cui sentiamo entrambi la nostalgia struggente, e con il completamente dell’intera unità della nostra persona, raggiungeremo una felicità non inferiore a quella degli dèi del cielo[3]. Sento che se farò l’amore con te, Elena cara, non potrò più  mancare di nulla nella vita.  L’amore non è mai contrario all’economia. Magari a quella degli strozzini, ma non a quella vera, all’economia della vita.
 Con te  diventerò più felice, più buono e più reale. Non possiamo rinnegare i nostri sentimenti. Sarebbe come spengere due di quelle stelle lassù  ”. E indicai il cielo. Poi aggiunsi: “Sarebbe come negare l’armonia dei corpi celesti. Non c’è la più piccola sfera tra quante ne vedremo tornando in collegio  che nel suo moto non canti come un angelo[4] e che non si intoni con l’amore che proviamo noi due, l’uno per l’altra”.    Mi ero preparato il discorso e lo recitai bene poiché “sentivo” la parte che “dovevo” sostenere. Un ruolo senza il quale non potevo procedere nella mia vita.
 
I miei sofismi con tanto di fuchi e di calamistri, di ornamenti ascitizi[5], di citazioni e reminiscenze, ognuno di questi calcoli complicati ed esatti, dopo tutto stavano conducendomi alla spontaneità, se il risultato finale era, come volevo, diventare quello che sono al meglio di me, e compiere il mio destino realmente stabilito ab aeterno. Con quell’amore sarei diventato una persona migliore, più forte, che se fossi rimasto privo della santa comunione con Elena.
Il massimo oggetto dei miei desideri, un oggetto diventato soggetto oramai, incluso in me stesso ed elevato in una sfera artistica, mi guardava con benevolenza sempre maggiore, ammirata, credo, anche dagli echi letterari, più o meno scoperti e denunciati, mai dissimulati, come puoi constatare tu stesso, affezionato lettore.  Anche io sentivo crescere l’intesa e l’ammirazione notando la sua sensibilità alle parole e alle idee. Cercai di baciarla avvicinando il mio volto al suo con calma: oramai mi sembrava un atto giustificato, quasi dovuto a me stesso e a lei; ma Elena dalle belle guance[6], con altrettanta calma, cioè senza scatti né sdegno, quando vide che mi avvicinavo alla sua agognatissima bocca, la scostò girandola a destra e disse:”Scusa, ma io non voglio essere tanto la compagna di un uomo dal quale oltretutto forse aspetto un bambino, quanto l’amante tua. Credimi, non ho ancora deciso che cosa farò. Proprio perché ti stimo e ti voglio bene, ti prego di non chiedermi di venire a letto con te!”

“D’accordo”, risposi, dopo un profondo respiro. “Anche se mi dispiace molto e la rinuncia a te sarà il grande rimpianto della mia vita, credo di avere capito. Adesso torniamo in collegio; continuiamo a parlare domani.Vuoi?”
“Sì”, rispose, e, alzatasi, cominciò a camminare in silenzio, a testa bassa. Credo che le dispiacesse questa interruzione del dialogo da parte mia. Forse pensava che alla fine mi ero rivelato poco sensibile e intelligente in quanto non comprendevo i suoi motivi seri di donna che voleva parlare e sentire parlare un uomo senza fare del sesso con lui. Io con l’intelletto potevo averla capita, ma nell’insicurezza di allora, un’insicurezza tragica che del resto questo episodio mi aiuterà a superare in non piccola parte, lo dico con il senno di quattro decenni successivi  e decine di amanti aggiunte, io, l’uomo non abbastanza capito e amato dalle donne di casa quando era bambino, se non fossi riuscito a fare l’amore con quella donna bella, fine, materna, mi sarei sentito umiliato nel misero orgoglio di maschio  frustrato che  vuole dimostrare a se stesso e al suo gruppo di valere qualcosa in quanto capace di portarsi a letto una femmina umana desiderabile e molto difficile, siccome ostacolata da impedimenti di non piccolo conto.    

 
Bologna 18 dicembre 2022  ore 18, 46

p. s
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[1] Catullo,  8, 5., amata da me quanto nessuna sarà amata.
[2] Cfr. Goethe, Faust II, 3, 8646.
[3] Cfr.  Leopardi, Storia del genere umano: “la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata  dalla divina”. Probabilmente ricordavo queste parole di Leopardi perorando la causa di quell’amore capitale.
[4] Cfr. Shakespeare, Il mercante di Venezia, V, i.
[5] Cfr. Leopardi: “E Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri e de' fuchi e d'ogni ornamento ascitizio e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone, 3474).
Le parole difficili sono latinismi: calamistrum,  che è un ferro per arricciare i capelli. Fuco da fucus, “tintura rossa”, e scitizio da ascisco, “annetto.
[6] Cfr. Omero, Odissea, XV, 123.

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