“Non vi è, nel destino tutto dell’uomo, sventura più dura di quando i potenti della terra non sono anche i primi uomini. Tutto diventa falso obliquo, mostruoso, quando ciò avviene”[1].
Nell’ Edipo re di Sofocle, l’indagine voluta dal protagonista lo porta alla constatazione che il mivasma avvelenatore è lui stesso, l’assassino del padre, il marito della propria madre. Ma secondo Sofocle soprattutto il bestemmiatore della voce divina degli oracoli
Diversamente dall'Edipo di Sofocle che nel prologo della tragedia si addossa soltanto il dolore del suo popolo, quello di Seneca, fin dai primi versi, si sobbarca anche tutte le colpe:"Fecimus coelum nocens" (v. 36), io ho reso colpevole il cielo[2]. Un'eco di questa autodenuncia si trova nell'Amleto quando il re assassino del fratello dice:"Oh, my offence is rank, it smells to heaven" (3, 3), oh il mio delitto è marcio, e manda fetore fino al cielo. Poco dopo Amleto, parlando con la madre, paragona lo zio a una spiga ammuffita che infetta l'aria (3, 4).
Nell' Antigone, Tiresia accusa Creonte di essere la sorgente inquinata del male della città:" kai; tau'ta th'" sh'" ejk freno;" nosei' poli"" (v. 1015) e la città è ammalata di questo per la tua disposizione mentale. Creonte infatti ha ereditato da Edipo non solo il ruolo regale ma anche la funzione di mivasma, homo piacularis che contamina la città.
Non solo le colpe del capo ricadono sulla comunità: “In Omero l’assassino deve fuggire dalla propria patria; non di una colpa morale egli si è macchiato bensì di una religiosa: egli rappresenta un pericolo per la comunità cui appartiene”[3].
La ragion di Stato talora “autorizza” i crimini dei capi di Stato.
“Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è gelido anche quando mente; e questa menzogna gli striscia fuor di bocca: “Io, lo Stato, sono il popolo”. E’ una menzogna! Creatori furono coloro che crearono i popoli e sopra essi affissero una fede e un amore: così facendo servirono la vita”[4].
Per quanto riguarda la “ragion di Stato” può pensare al sacrificio di Ifigenia, raccontato da Eschilo, Euripide e Lucrezio.
Nell’Agamennone di Eschilo, il padre hJgemw;n oJ prevsbu~ (v. 185), il comandante anziano delle navi achee, per risparmiare il tempo che andava sciupato nell’attesa che si placassero i venti kakovscoloi (193), forieri di ozio cattivo, naw'n kai; peismavtwn ajfeidei'~ (195), sperperatori di navi e cordami, non osò diventare lipovnau~ (212), disertore della flotta e invece e[tla quth;r genevsqai qugatrov~ (224-225), osò divenire sacrificatore della figlia, la primogenita Ifigenia, che venne sollevata sull’altare divkan cimaivra~ (232), come una capra, imbavagliata per giunta affinché non potesse proferire maledizioni contro la casa.
Nell’Ifigenia in Aulide di Euripide, Agamennone, ancora incerto se sacrificare la figlia, dice a un vecchio servitore che lo invidia per la sua vita non famosa, oscura (ajgnwv~ ajklehv~, v. 18). Il vecchio ribatte che è bella la vita dei potenti. E Agamennone replica che quello del potere e degli onori è “to; kalo;n sfalerovn”, un bello vacillante (v. 21).
Si può pensare alla vita e alla morte di Gheddafi.
Lucrezio racconta con accenti di pietà la morte di Ifigenia condotta a morire casta inceste nubendi tempore in ipso (De rerum natura, I, 98), oscenamente casta, proprio nel tempo del matrimonio. Il poeta latino ascrive il delitto alla religio, la superstizione che coonesta i crimini peggiori: “Tantum religio potuit suadere malorum ", a crimini tanto grandi poté indurre la religio. Questo è forse il verso più famoso(I, 1OI) del De rerum natura .
Polibio e altri autori invece raccomandano ai legislatori l’uso della superstizione per soggiogare le masse ignoranti
Excursus sulla superstizione
Nel VI libro Polibio parla anche della religione dei Romani e dice che la concezione degli dèi gli sembra la maggior differenza in meglio che lo Stato romano possieda:"Megivsthn dev moi dokei' diafora;n e[cein to; JRwmaivwn polivteuma pro;" bevltion ejn th'/ peri; qew'n dialhvyei"(VI, 56, 6). Si tratta di una deisidaimoniva (56, 7), di superstizione, che, se altrove può essere oggetto di biasimo, a Roma tiene insieme lo Stato.
Presso i Romani questa parte della cultura viene esaltata ( " ejktetragwv/dhtai", 8) e introdotta nella vita pubblica e privata tanto da non lasciarne una maggiore. A Polibio sembra che ciò sia stato fatto "tou' plhvqou" cavrin"(9), per la massa. Se infatti fosse possibile mettere insieme uno Stato di uomini saggi, probabilmente una soluzione del genere non sarebbe necessaria, ma poiché ogni massa è leggera (" ejlafrovn") piena di desideri sregolati ("plh're" ejpiqumiw'n paranovmwn"), di impulsi irrazionali e passioni violente, non resta che trattenerle con oscuri terrori e con tale apparato da tragedia ("leivpetai toi'" ajdhvloi" fovboi" kai; th'/ toiauvth/ tragw/diva/ ta; plhvqh sunevcein", VI, 56, 11).
Questa è la ragione per cui gli antichi ("oiJ palaioiv", 12) hanno introdotto nelle plebi le nozioni riguardo agli dèi e le credenze sull'oltretomba. Male fanno i contemporanei ("oiJ nu'n") a bandirle in maniera scriteriata e irrazionale ("eijkh'/ kai; ajlovgw"").
Per confermare queste parole greche del tempo della repubblica romana ne cito alcune latine di Curzio Rufo, della prima età imperiale :" Nulla res multitudinem efficacius regit quam superstitio: alioqui impotens, saeva, mutabilis, ubi vana religione capta est, melius vatibus quam ducibus suis parte "(Historiae Alexandri Magni , IV, 1O), nessuna cosa meglio della superstizione governa la moltitudine: altrimenti sfrenata, crudele, volubile, quando è afferrata da una vana religione, obbedisce più facilmente agli indovini che ai suoi capi.
C'è dunque un metodo nella follia della superstizione se considerata dalla prospettiva di chi la diffonde.
E' la ragione già svelata nel Sisifo attribuito a Crizia.
Questo dramma satiresco contiene la teoria razionalistica dell'utilità politica della religione la quale è un'invenzione geniale e valida a frenare i male intenzionati con la paura dei castighi:"mi sembra che prima un uomo accorto e saggio di mente, inventò per i mortali il terrore (devo") degli dei, affinché per i malvagi ci fosse uno spauracchio ("ti dei'ma") anche se fanno o parlano o pensano qualche cosa furtivamente("lavqra/")[5].
Un argomento che viene ripreso da Machiavelli . L'XI capitolo del I libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio verte sulla religione dei Romani: tra questi il re Numa "trovando un popolo ferocissimo, e volendolo ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione come cosa del tutto necessaria a volere mantenere una civiltà e la constituì in modo che per più secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica il che facilitò qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare...E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, ad animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni a fare vergognare i rei. Talché se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata o a Romolo o a Numa credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché dove è religione facilmente si possono introdurre l'armi e dove sono l'armi e non religione con difficultà si può introdurre quella...E veramente mai fu alcuno ordinatore di leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio, perché altrimenti non sarebbero accettate".
Quindi Machiavelli tra i legislatori che "ricorrono a Dio" ne nomina due che conosciamo bene: Licurgo e Solone. Infine tira le somme:"Considerato adunque tutto, conchiudo che la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella città, perché quella causò buoni ordini, i buoni ordini fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto divino è cagione della grandezza delle repubbliche, così il dispregio di quello è cagione della rovina di esse. Perché dove manca il timore di Dio, conviene o che quel regno rovini o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' defetti della religione".
Per quanto riguarda la considerazione del timore quale fondamento di un ordinato vivere civile, possiamo indicare un archetipo, o comunque un autore più antico di quelli considerati sopra, in Eschilo che nelle Eumenidi fa dire al coro:" "a volte il terrore è bene/e quale ispettore delle anime/ deve restarvi a fare la guardia".(vv. 517-519). E, più avanti:"Io consiglio ai cittadini che hanno cura della città/di rispettare uno stato senza anarchia né dispotismo/e di non scacciare del tutto il timore fuori dalla città./Infatti quale mortale è giusto se non ha nessuna paura?"(vv. 696-699).
Bologna 27 dicembre 2022 ore 18, 34
giovanni ghiselli
[1] Così parlò Zarathustra,, Colloquoi con i re, 1
[2] In La tragedia spagnola ( 1592) di Thomas Kyd il nobile portoghese Alexandro, con pessimismo meno assoluto, dice:"Il cielo è la mia speranza: quanto alla terra, essa è troppo infetta per darmi speranza di cosa alcuna della sua matrice" (III, 1).
[3] Frammenti postumi, settembre 1876. (52)
[4] Netzsche, Così parlò Zarathustra, Del nuovo idolo.
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