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Anche con questa ragazza andavo a passeggiare nel bosco, tra le antiche querce giganti che ombreggiano i prati fioriti, e si camminava insieme nella radura del piccolo lago varcato dal ponticello di legno che lieto risuona; oppure ci recavamo nel centro della città sul tram numero uno che gira senza fretta sopra i binari circolanti tra l’università e la stazione, quindi tra la stazione e l’università, e passa in mezzo alle ombre fitte della foresta, poi circola nel corso assolato davanti all’Aranybika, dove ci fermavamo per bere una palinka all’albicocca, giallina, oppure una birra densa e amara, o un bicchiere di aspro sangue di toro di Eger. Talvolta non prendevamo il tram numero uno, l’unico tram, di colore giallo, ma salivamo sulla nera Volkswagen scoperta e ci recavamo a Hortobágy attraverso la puszta polverosa, o fangosa, dove le oche protendevano il collo e giubilavano roche[4], e i porci edaci, grufolavano, con qualsiasi tempo, mentre tenevano il grugno ingordo sempre puntato a terra e i piccoli occhi cisposi rivolti a cercare dovunque una qualche gioia del ventre, o una parziale consolazione della loro voracità che, mai sazia, chiedeva sempre di riempire il vuoto dei loro corpi deformi. Come fanno certi uomini tormentati dal caos che hanno dentro e non li spinge a partorire una stella danzante [5] come accadde a me dal 1966 in poi.
Tra loro c’era del resto un cucciolo carino: un porcellotto grasso che cercava la madre alzando il grifo ancora grazioso verso gli adulti. Ma sarebbe diventato come gli altri maiali al pari di tanti bambini male educati e troppo nutriti dai genitori entrambi obesi.
Padri e madri che trasformano gli umani in porci, come faceva Circe.
Nella csárda gli zigani dai volti quali limoni siracusani suonavano le danze ungheresi di Brahms con i violini striduli e con i cembali precipitosi, facendomi ricordare le tante estati passate in Ungheria, tutta la scala dei vent’anni prossima oramai a terminare, non senza avermi elevato di altrettanti gradini da quando la prima volta, occhialuto, malvestito, sporco, grasso e vorace come i maiali più immondi, ero arrivato nel corso ventoso e polveroso di Debrecen sul calar della notte[6]. Era il 15 luglio del 1966.
Quella sera, a ventuno anni e otto mesi, ebbe inizio la mia vita cosciente.
Il sole era tramontato da poco. Avevo paura dell’oscurità in un paese sconosciuto e remoto di cui ignoravo l’idioma agglutinante privo di radici europèe a noi più o meno note. Ma invece di cadere nel buio, come la vita di Oblomov[7], la mia, da quel tramonto, ricevette l’impulso per un rinascimento personale, una resurrezione che sarebbe cresciuta negli anni fino a perfezionarsi grazie all’incontro con questa donna pensosa e intelligente. Anche buona mi sembrò per tutto quel mese.
Giunto sul limitare della trentina inquietante[8], ero contento di avere onorato l’impegno preso quella sera lontana del luglio del ’66, quando avevo giurato a me stesso che, da osceno, ributtante e aspirante alla morte quale ero, sarei arrivato a piacere alle donne, a molte donne. Stavo per scrivere "a tutte", ma ci ho ripensato, siccome sarebbe ybris, poi sarebbe falso, poiché a diverse invece, purtroppo, non sono piaciuto. Peggio per loro del resto.
Caivrete gunai'keς, tanti saluti donne! Vi ho mancato. Pazienza. Pure voi avete mancato me.
Nel 1974 sentivo già che riuscire gradito a diverse femmine umane non bastava, non poteva essere il punto di arrivo: dovevo fare dell’altro: mettermi in condizione di dare qualcosa di buono e concreto ai miei studenti, al mio prossimo, e a quelli meno vicini. Lo sentivo e capivo ascoltando quella giovane donna che sapeva pensare e sapeva parlare come si deve. Si chiamava Päivi. Se non è morta, arrivata a 72 anni e mezzo, si chiama ancora così.
Era bello e utile conversare con lei, era bello assai, e parecchio piacevole, e agevole, fare l’amore in uno dei due collegi universitari: nella mia solita camera dell’edificio numero due, oppure in quella di Päivi che, secondo la tradizione dei finnici, abitava nel primo collegio, e aveva la finestra bassa sul prato scaldato dai raggi del sole, o bagnato dalla rugiada notturna le cui gocce, illuminate dal chiarore lunare, sembravano perle.
Päivi compiva ventiquattro anni in quei giorni e si era da poco laureata in psicologia a Yväskylä.
Päivi significa "luce", e, dato che i nomi sono davvero presagi, questa ultima finlandese amata, ha continuato a illuminare, con le sventagliate del suo faro, il cammino che avrei affrontato al ritorno in Italia, la strada impervia dello studio serio, impegnativo e proficuo.
Dovevo assimilare tanto sapere per giungere alla sapienza che “esalta i suoi figli e si prende cura di quanti la cercano. Chi la ama, ama la vita. Il Signore ama coloro che la amano. Chi confida in lei la otterrà in eredità. Dapprima lo condurrà per luoghi tortuosi, gli incuterà timore e paura, lo tormenterà con la sua disciplina finché possa fidarsi, ma poi lo ricondurrà sulla retta via."[9].
La disciplina che ho dovuto impormi, non senza fatica grande, con il volgere delle stagioni è diventata una necessità voluta e piacevole.
Bologna 29 dicembre 2022 ore 10, 09. giovanni ghiselli
giovanni ghiselli
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[4] Cfr. G. Gozzano, La differenza, v. 4.
[5] Cfr. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Prefazione
[6] Cfr, L’arrivo a Debrecen presente in questo blog
[7] Riporto qui in nota alcune parole di Oblomov all’amico Stolz: "Sai, Andrej, nella mia vita nessun fuoco né divoratore né purificatore ha mai divampato. Essa non è stata, come quella degli altri, simile al mattino che a poco a poco si colora e s’accende, poi si muta nel giorno che ferve, arde e palpita nel meriggio luminoso e poi, sempre più pallido e quieto, naturalmente e gradatamente, si spegne nella sera. No, la mia vita è cominciata con il tramonto. E’ strano, ma è così! Dal primo momento che ho avuto coscienza di me, ho sentito che mi spegnevo. Ho cominciato a spegnermi scrivendo gli incartamenti dell’ufficio; ho continuato, poi, conoscendo nei libri quelle verità di cui non avrei saputo che fare nella vita; mi sono spento con gli amici, ascoltando i loro discorsi, i loro pettegolezzi, le loro malignità, il loro malvagio e freddo chiacchierare, la loro vuotaggine; contemplando quel loro tipo d’amicizia alimentato da incontri senza scopo, senza cordialità; mi sono spento e ho consumato le mie forze con Mina, per cui spendevo più di metà delle mie rendite, illudendomi di amarla; mi sono spento nel tetro e fiacco passeggiare lungo il viale Nevski, tra le pellicce d’orso e i baveri di castoro, nelle serate, nei giorni di ricevimento, in cui venivo lietamente accolto come fidanzato discreto; mi sono spento consumando in sciocchezze la vita e l’intelligenza" I. Gončarov, Oblomov, p. 240.
[8] Ed ecco la trentina-inquietante, torbida d’istinti-moribondi (Guido Gozzano, I colloqui, vv. 9-11.
[9] Antico
Testamento, Siracide, La sapienza educatrice
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