Arrivati a Hortobágy, distante da Debrecen una trentina di chilometri, entrammo nella grande osteria dove gli zigani suonavano violini e cembali.
Nella loro musica, ascoltata negli anni precedenti in vari locali di Debrecen e anche lì nella puszta, sentivo fin da quell’estate del ’71, l’eco di un tempo già allora antico che però non mi induceva alla nostalgia, ma viceversa mi dava la spinta a procedere, “soffio possente di un fatale andare”[1], poiché confrontando il presente con il passato, trovavo un continuo progresso che non si sarebbe arrestato durante la mia vita terrena, forse neppure oltre la morte.
I suoni discordanti che avevano accompagnato la mia vita fino a quel momento potevano essere composti in una melodia ricca di significato e preludere a successive armonie più comprensive e ricche di significati.
“Chi si affatica sempre a procedere oltre, noi possiamo redimerlo”, dice il coro di angeli nell’atto di salvare Faust[2].
Entrammo e ci sedemmo a un tavolo situato vicino a una stufa di maiolica o terracotta policroma, bianca e azzurra come una formella robbiana.
Mi vennero in mente quelle viste alla Verna un pomeriggio che ero salito lassù durante un giro ciclistico della Toscana. La mattina ero andato a vedere la Maddalena di Arezzo, la Madonna incinta di Monterchi e la Vergine della Misericordia di Borgo Sansepolcro: semplici e belle, ideali e reali, dolci e risolute come la donna che stava seduta di fronte a me. Quel giorno, le immagini di Piero della Francesca, il giaciglio dell’onesto Francesco, lo stesso Gesù della pinacoteca del Borgo, il Cristo che esce dal sepolcro , “accigliato colono imbalsamato dal sole”[3], mi avevano riconciliato con la religione cristiana, facendomi antivedere una risurrezione mia, grazie alle donne belle e fini che avrebbero donato gioia e conforto alle solitudini immense, alle fatiche eroiche della vita da asceta cui ero predestinato da sempre.
I tavoli e le panche dove ci eravamo seduti erano di legno scuro e massiccio, probabilmente lo stesso delle querce del grande bosco di Debrecen, visto che la puszta è priva di alberi.
Elena ordinò un caffè e dell’acqua, io lo stesso: volevo parlarle e ascoltarla con totale lucidità . Dovevo mettercela tutta per piacerle, e ce la misi, e fu sufficiente.
“Senti, Elena”, le dissi. “Ti chiami Elena, vero?”. La bella donna annuì.
Non dissi che Eschilo etimologizza il suo nome con “colei che distrugge le navi”, annienta gli uomini e le città”[4]. Infatti, a parte che l’etimologia è fantasiosa, io da quella donna mi aspettavo tutt’altro che distruzione: doveva essere colei che mi avrebbe costruito e fatto diventare quale sono.
“Che cosa è l’amore per te?”. Le domandai. Molto direttamente, forse anche troppo, ma volevo saggiare il terreno della sua disponibilità erotica e dirle qualche cosa di incoraggiante all’eros, se, rispondendo, mi avesse dato la pur minima occasione di farlo.
Rispose: “E’ un sentimento positivo: che la mia umanità si espande e comunica qualche cosa di buono . Siamo qui al mondo gli uni per gli altri.
Io adesso provo amore, individualmente, per un uomo che mi aspetta in Finlandia, ma generalmente lo sento per tante persone, per tutte spero, e per ogni creatura vivente”.
Riflettei un momento su questa risposta, degna del suo stile.
“Sì è in gamba come pensavo, è del mio stampo e della mia levatura. Purtroppo ha un compagno, ma non credo ne sia innamoratissima. In fondo il suo amore singolo non esclude l’umanistico, un sentimento smisurato e indefinito un a[peiron dal quale potrebbe emergere l’individuazione per un’altra persona molto dotata di Nou`~ che mette ordine.
Potrei essere io da come attentamente mi guarda. Sarebbe la mia salvezza dal naufragio sempre temuto .”
Quindi, assecondando la mia speranza, Elena domandò: “E per te, l’amore cos’è? Scusami, non ricordo il tuo nome”.
“Gianni. Per me prima di tutto è emozione: esaltazione estetica dello spirito annoiato dall’ottusità e dalla disonestà dei più, dalle filastrocche dei luoghi comuni. Io non riesco ad amare “generalmente” le persone adulte delle quali in passato mi sono fidato troppo, e le conseguenze sono state penose. Caso mai, anzi senz’altro, umanisticamente amo i ragazzini, i miei allievi. Sì, quelli li amo tutti, siccome non trovano ridicolo e innaturale che non diffidi di loro, e credono che voglia aiutarli a crescere buoni e forti. Gli alunni mi curano l’anima[5]”.
Feci una breve pausa, poi conclusi: “Dell’amore individuale e sessuale penso che sia la cosa più importante del mondo. Se non lo fosse, la genesi non comincerebbe di lì, scrisse, a ragione, un poeta italiano suicida nel dopoguerra”[6].
Mi guardava con interesse sempre maggiore.
Poi disse: “Tu mi sembri un uomo strano, singolare. Prima, osservandoti nel salone dell’università ho notato che hai qualche cosa di particolare negli occhi”.
“Sono molto miope e ho le lenti a contatto” feci con ironia palese, e con modestia ostentata, del tutto falsa. Sapevo bene, già allora, che gli occhi sono il centro dell’energia erotica.
Si nescis, oculi sunt in amore duces "[7], ricordai senza dirglielo.
Ho la tendenza a citare e devo guardarmi dal cadere nel cattivo gusto, nella parte dell’arricchito intellettuale o dell’erudito pedante: davanti a lui ogni uccello giace spennato[8].
Che ne dici lettore? Cito troppo? Sono un pedante mezz’orbo di occhi e di mente? Fammi sapere con tutta franchezza.
Elena sorrise e continuò. “Quello che dici, mi conferma che non sei una persona comune. In te ci sono dolori molto sofferti, ma c’è anche qualche cosa di intelligente e di buono che può prevalere, se qualcuno ti aiuta”.
Colsi la palla al balzo, immediatamente, con zampata da giovane leopardo affamato, e dissi: “Aiutami tu. Tu puoi farlo perché mi piaci, mi emozioni, mi costringi a pensarti, mi stimoli a fare bella figura.
Ti sono molto grato di avermi interpretato tanto benevolmente.
Anche io in te ho visto qualche cosa di non ordinario, e fin dalla prima sera, quando tu non mi avevi notato”.
“Non c’era abbastanza luce a quell’ora”, si scusò.
“ Lo immaginavo. Sotto quella luce incerta e distratta non potevi notare una presenza introversa come la mia. Io invece ti ho notata lo stesso, perché tu mandavi luce come un giorno senza nubi, o come la luna piena che risplende nelle notti serene e quasi nasconde le stelle. Tu brilli sempre, anche adesso: rifulgi di luce corporea, e di luce interiore. Io vorrei orientare la mia vita sul corso della tua luce”.
Dovevo tradurre il mio desiderio di quella donna in immagini lucide e profondamente emotive.
“Io… io credo che mi innamorerei di te senza riserve, credo che ponti vertiginosi potrebbero unirci se tu non fossi legata a un altro.”.
“Già. Peccato che l’altro in me non veda quanto ci vedi tu”.
Questa risposta, sussurrata, mi parve un altro particolare importante, quasi decisivo. Lo era.
Afrodite e suo figlio mi stavano aiutando.
“Forse non siete abbastanza sintonizzati, dico spiritualmente”, azzardai, tutto contento.
“Può essere” fece con un sorriso tra l’ironico e il mesto. “Scusa”.
E rivolse una domanda in finlandese alla biondastra che si trovava in difficoltà a parlare con Fulvio, disorientato lui da quella satanessa primordiale.
Forse l’amico si rifugiava nel pensiero della ragazza triestina che voleva sposare. Io non pensavo neanche lontanamente alle nozze ed ero felice ogni momento di più. Avevo trovato il tono giusto, atto a suscitare l’interesse non solo generico della splendidissima donna: procedendo metodicamente su questa via [9] potevo farla innamorare di me, e non in modo perfido, ossia per umiliarla e tradire la parola data, ma in buona coscienza e rispettando la santa fides, siccome ero innamorato di lei e sentivo che dalla comunione dei nostri corpi e dalla trasfusione reciproca delle anime poteva nascere in tutti e due una maggiore comprensione della vita e di quanto è umano, una intelligenza indispensabile per la crescita delle nostre persone e della missione di educatori che ci premeva.
Mangiammo un piatto di carne senza le patate, eterne nemiche della santa snellezza dovuta al mio progetto e a me stesso. Sapevamo entrambi che l’aspetto ordinato fa parte del dovere dell’insegnante il quale rappresenta una figura emblematica agli occhi dell’allievo. Come un principe per il suo popolo. Condividevamo il disprezzo di Hanno Buddenbrook per i professori connotati dallo squallore[10].
Quindi tornammo Debrecen nella notte nuvolosa, attraverso la puszta più che mai deserta. Arrivati nel campus universitario, davanti al kollegium, salutammo Fulvio e Marja Liisa che non avevano trovato modo, né voglia, di comunicare e si separarono subito. Noi due invece, potenziali amanti, gli amanti in pectore, nel petto già fervido, il mio almeno lo era, ci incamminammo per il bosco segnato da parecchi sentieri, verso la zona dov’era un laghetto con un ponticello di legno.
Bologna 18 dicembre 2022 ore 11, 56
p. s.
Statistiche del blog
empre1303477
Oggi81
Ieri281
Questo mese5167
Il mese scorso8344
[1] G. Pascoli, Alexandros, v. 34.
[2] Goethe, Faust, II parte, atto V, Burroni montani vv. 11936- 11937.
[3] Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi, p. 83.
[4] Cfr. Eschilo, Agamennone, 689
[5] Cfr. Dostoevkij, L’idiota, VI cap.
[6] Cesare Pavese. Precisamente: “Se il chiavare non fosse la cosa più importante della vita, la Genesi non comicerebbe di lì”. Il metiere di vivere, 25 dicembre 1937. Non mi ricordo come lo tradussi in inglese
[7] Properzio, II 15, 12. Se non lo sai, gli occhi nell’ amore sono gli occhi a dirigere
[8] Cfr. Nietzsche, Così parlò Zarathustra “Guardatevi anche dai dotti! Essi vi odiano: perché sono sterili! Essi hanno occhi freddi e asciutti, davanti a loro ogni uccello giace spennato”.
[9] Procedere metodicamente è una tautologia: mevqodo~ (methodos) contiene oJdov~ (hodós) che significa “via”.
[10] "I maestri supplenti o tirocinanti che lo istruivano in quelle prime classi, dei quali sentiva l'inferiorità sociale, la depressione spirituale e la poca cura dell'esteriorità fisica, gli ispiravano, oltre il timore della punizione, un segreto disprezzo" T. Mann, I Buddenbrook (del 1901), p. 330.
Nessun commento:
Posta un commento