giovedì 22 dicembre 2022

1971. La storia di Elena. 11. La finestra di Elena quaranta anni dopo

Ungheria 2011
La finestra di Elena quaranta anni dopo
A Debrecen in bicicletta dopo quaranta anni tutti interi
 

Elena riversò su di me la luce scintillante del volto.
Attraverso l’aria serena brillava la letizia del suo sorriso.
 
Disse le parole che speravo: “Anche tu mi sei mancato. Nel pomeriggio ho provato a parlare con altri, ma non ho sentito niente di interessante.
Luoghi comuni, stupide banalità, il rovescio dell’intelligenza. Io mi trovo bene, mi sento a mio agio con te, Gianni. Tu hai qualche cosa di speciale, di geniale, per lo meno di congeniale a me. Scusa un momento, mi cambio e vengo. Cosa vuoi che mi metta?”
Le vedevo soltanto una maglia bianca a righe azzurre.
 
“Vestiti di bianco, tesoro, di bianco e sportiva, se puoi”.
Mi riferivo a un suo vestito senza maniche, di spugna, che le arrivava un palmo sopra le ginocchia rotonde e le stava magnificamente. Era come la proiezione di un aspetto della sua persona morbida, delicata, accogliente. Io, per godermi in pieno l’aria calda della notte dolce e profumata, e pure, a dirla tutta, per sfoggiare la linea recuperata con fatiche, disciplina e successi davvero olimpici dopo l’ ingrassamento dei tre mesi in caserma, ero uscito in calzoncini succinti e maglietta di cotone, molto attillata. Elena si ritirò dalla finestra. Frattanto levai gli occhi al cielo con gratitudine. Era la prima volta, arrivato a ventisei anni  otto mesi e qualche giorno, che una donna di cui ero innamorato mi contraccambiava e forse, probabilmente, sarebbe venuta a letto con me. Quella notte, ero sicuro, l’avrei almeno baciata. Avrei assaporato la sua lingua materna, nutrice e santa.
Avrei poi raggiunto lo scopo finale con un discorso ricco di pathos persuasivo,  non privo di logos convincente né di mythos affascinante e seduttivo
 Una morbida trama inserita in un ordito robusto. 
 
Excursus su questo secolo
Nell’estate del 2011, sempre in luglio, quarant’anni dopo quella sera di gioia, una delle più belle e felici della mia vita mortale, sono tornato a Debrecen in bicicletta, da Bologna,  con Fulvio e con altri due amici più giovani, due quarantenni ex alunni, Maddalena  e Alessandro, due novizi dell’Ungheria.
Ci siamo tornati, Fulvio e io, protesi alla giovinezza lontana come verso il sole al tramonto, quando cade nel mare con puro fulgore. Ho affrontato la grande fatica di mettermi al passo con la giovinezza e ho pure rischiato la pelle saltando dalla bicicletta in un fosso per schivare un’automobile che mi veniva addosso quando costeggiavamo il lago Balaton. E dopo otto giorni sono arrivato a Debrecen, pedalatore tenace e annoso, quasi sessantasettenne.
 
Non me la sono sentita di tornare in quel bosco incantato dentro un aereo o un  treno, funebri convogli di canuta vecchiaia. Nemmeno in quell’aggeggio per paralitici che è l’automobile.
 Vecchio sono vecchio, ma faccio di tutto per conservare le forze di allora.
Mantengo molti capelli ancora neri, e non certo con un pennello. Merito anche di Elena che mi ha infuso il suo bene, della mamma etrusca e ancor più di sua sorella Giulia che è morta relativamente presto, a 82 anni, ma senza un capello bianco. La mamma mi ha raccomandato di portarle un cero di ringraziamento sulla tomba dei Martelli, a Sansepolcro. Ci vado ogni anno a onorare i miei morti in bicicletta, pedalatore romito, per dare al  rito un valore più grande, un significato veramente olimpico.
Niente può fermarmi sul cammino della pietà.
Né forature di bicicletta, né i denti da vampiro dei cani randagi resi feroci  dalla catena e dalla stupidità  dei padroni. Nemmeno orsi inferociti, né cinghiali fulminei[1]. Non potrà godere la strega Erichto  strappando pezzi del mio cadavere alle loro fauci cruente[2].
Non avrò bisogno di chiamare in aiuto Ecate ctonia che, indossati aspetti atroci, minacciando con la più orrenda delle sue facce schifose, [3] atterrisce anche i cani[4] dal cupo latrato.
 Conservo dentro di me la forza con cui la mamma mi ha portato in grembo e mi ha allevato. La nonna Margherita Scattolari veniva dalla terra di Montegridolfo: “inde genus durum sumus experiensque laborum[5].
Me ne ha lasciati 18 ettari che un costruttore voleva comprare per edificarci appartamenti. Non gliel’ho venduta. Per amore e per rispetto degli avi Scattolari. Vivo da povero ma non vendo la terra.
Il nonno Carlo Martelli vinceva tutte le gare ciclistiche cui partecipava. L’ho letto nella Nazione di Firenze di un giorno del 1899. Da lui ho ereditato, oltre il talento ciclistico, l’amore per le donne e per il sole. Il lascito più bello.
Onoro la mamma, i nonni, le zie per tutto quello che mi hanno dato.
Poi salgo in bicicletta alla Verna, sull’aspro monte tra Tevere e Arno[6], per pregare accanto al letto dell’onesto Francesco.
Non est in toto orbe sanctior mons, in tutto il mondo non c’è  un monte più santo, si legge in un portale del santuario.
 
Una notte dell’estate del 2011, quella del ritorno a Debrecen in bicicletta, andati a letto gli amici, sono tornato sotto la finestra dell’apparizione fatidica, una finestra oramai sconsacrata e  deserta, onde  mesto riluceva  il raggio della luna[7], dea dai tre nomi[8] e dalle tre forme. Ho ricordato i sentimenti forti, pieni di gioia di quella sera remota e ho sentito la necessità di raccontarla, di renderla eterna, se il giudizio finale, quello dell’arte, sarà positivo.
Le cose, come le persone, hanno una loro volontà. Questa pagina mi ha chiesto di essere scritta: lo ha voluto. Elena si avvia a diventare la mia posterità. Helena di Yväskylä farà concorrenza a Elena di Troia.
Ora noi due, i giovani amanti di quell’estate lontana, siamo due vecchi al tramonto e ci avviamo verso quella lunga, eterna notte d’inverno del tutto imprevista allora, in quel tempo felice. Allora non le citai Catullo, il carme dei soli che possono cadere nel buio e tornare , mentre noi, una volta spenta la nostra breve luce, dobbiamo dormire una notte eterna. Non misi questa citazione tra le tante altre. Mi sembrava fuori luogo e malaugurante.
 Nel 2011 il bosco sacro di quel tempo remoto non era più tutto pieno di dèi, il ponticello sul lago della foresta oramai sconsacrata aveva il legno  infradiciato, gli edifici simbolici erano stati abbattuti o profanati, come il ristorante della mia prima cena nel luglio del 1966[9], l’ottocentesco Hungaria,  trasformato in un  McDonald.
Metamorfosi orrenda.
 Elena forse è già stata disfatta dal suo precipitoso destino di donna mortale, e si è trasformata in qualche altra cosa dell’universo, in quanto  tutto scorre e ogni immagine si forma fluttuando[10].  
Io sono un vecchio, una testa  non ancora del tutto intronata[11], né completamente isolata, eppure  locata in uno spazio sempre più arido, scuro e deserto.
Ciò non ostante continua a risplendere dentro di me la strana, preziosa luce di quei giorni remoti, e con essa, e con questo racconto, voglio illuminare altre vite, prima che si spenga, presto o tardi di sicuro, ma forse non  per sempre, la mia. 


Bologna 22 dicembre 2022- ore 10, 15
giovanni ghiselli
 
p. s. Statistiche del blog
Sempre1304522
Oggi56
Ieri242
Questo mese6212
Il mese scorso8344
 
 


[1] Cfr. Stazio, Tebaide, II, 123-124.
[2] Cfr. Lucano, Pharsalia, VI, 552-553
[3] Cfr. Seneca, Medea, 751 pessima induta vultus, fronte non una minax.
[4] Cfr. Teocrito, le Incantatrici, 12.
[5] Ovidio, Metamorfosi I, 414, perciò siamo una razza dura e capace di tollerare le fatiche.
[6] Cfr. Dante, Paradiso, XI, 106-107 “nel crudo sasso intra Tevere e Arno-da Cristo prese l’ultimo sigillo,-che le sue membra due anni portarno”
[7] Cfr. Leopardi,: “quella finestra,/ond’eri usata favellarmi, ed onde/mesto riluce delle stelle il raggio/è deserta” Le ricordanze (vv. 141-144).
[8] Luna, Diana, Ecate. Quest’ultima è la signora delle streghe (quelle del Macbeth di Shakespeare, per esempio) e la maestra delle maghe (Medea per esempio)..
[9] Cfr. L’arrivo a Debrecen, presente nel blog-
[10] Ovidio nel XV libro delle Metamorfosi dà voce a Pitagora il quale vieta   di sacrificare creature viventi agli dèi, e insegna che l'anima non muore ma trasmigra in altri corpi e altre regioni:"Cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago" (v. 178). 
[11] Cfr. T. S. Eliot, Gerontion, “ I an old man, A dull head amog windy spaces. (vv. 15-16), io sono un vecchio, una testa intronata tra spazi ventosi.

Nessun commento:

Posta un commento

Ifigenia CLII. Una lettera supplichevole e una canzoncina irrisoria

  Martedì 7 agosto andai a lezione, poi a correre, quindi in piscina a leggere, nuotare, abbronzarmi, e mi recai anche a comprare un d...