giovedì 15 dicembre 2022

Il 1969. 13. L’ultimo giorno del mio primo anno di scuola

Avrei avuto allievi tra gli undici e i quattordici, massimo quindici anni. Dovevo essere una guida per loro, i miei ragazzi. Non potevo più fare soltanto il ragazzo sul mio palcoscenico, sebbene non avessi ancora compiuto venticinque anni.
“La morte non esiste” pensai continuando a guardare l’acqua del Brenta. “Questa scorre continuamente da sempre. Se sarò bravo con gli alunni, se sarò una buona guida e saprò educarli, continuerò a vivere in loro, nei loro figli, nei figli dei loro figli e così via. Devo lasciare delle impronte buone. Sono ancora cerei  in virtutem flecti[1]. La morte, se c’è, non riguarda lo spirito, non il mio.
 Dopo questi pensieri, ero salito al castello di Marostica.  Nel successivo maggio odoroso sarei tornato in quel luogo ameno circondato e allietato da voli di rondini,  e avrei fatto lezione su quel prato smeraldino, cinto da mura, tappezzato qua e là di fiori bianchi caduti volteggiando dai lisci, neri ciliegi, come dal cielo in una notte d’estate scendono scivolando dal cielo le stelle nelle insenature del golfo di Corinto, e invece di inabissarsi spente nell’imo[2], galleggiano trasformate in barche da pesca  luccicanti sul mare. Questo avrei detto a Ifigenia la notte fatata di Galaxidion dodici anni più tardi durante il nostro viaggio ciclistico in Grecia.
Tutta la vita è collegata con se stessa, come la letteratura e l’arte.
Sul prato del castello invece sarei andato con il collega Peppino e la nostra terza media nella primavera seguente. Ero contento di pedalare con altre persone contente, felice di parlare con loro, di ascoltarle, di comunicare la mia gioia di vivere con l’umanità rigogliosa degli adolescenti. Stavo trovando la mia strada.
Mi vedo l’ultimo giorno di scuola, il 12 giugno del 1970, in una foto ricordo con Peppino e le nostre tre classi. Siamo allineati davanti alla chiesa di Camignano dove si legge Venite Adoremus. Di fianco si vede una grande quercia frondosa, profetica, come quelle di Dodona dove sarei andato in bicicletta con l’amico carissimo Fulvio e due allievi diventati  amici tra i più cari: Maddalena e Alessandro, una trentina di anni più tardi.
 
Tutto nel sole di giugno brilla: il muro del tempio, le nostre facce giovani e liete, i grembiuli neri delle bambine e pure la tam brevis umbra  dell’albero antico che in giugno non cela il sole[3].
Ho indosso un vestito di lino bianco che mette in risalto l’abbronzatura. Ho l’aria soddisfatta. Sono armonioso. Ho il volto dai lineamenti marcati, e pure fini: mi sento bello. Lo sono. Sento di avercela fatta a diventare quello che volevo, quello che sono: un educatore.
Mi mancava ancora però il vivido pathos di una donna giovane, bella, intelligente. Una della mia levatura. Tuttavia non volevo sposarmi né fidanzarmi. Colleghe giovani, carine, educate, le avevo incontrate: con un paio di loro avevo pure fatto amicizia, ma un rapporto impegnativo mi spaventava: il mio tempo doveva andare in massima parte alla scuola, allo studio e allo sport per non diventare più rozzo né più fiacco del necessario. Inoltre sapevo che prima o poi sarei tornato a Bologna.
Avventure amorose volevo, e le ragazze professoresse cercavano altro, né io volevo ingannarle. In luglio sarei tornato a Debrecen.
Lì sarei potuto tornare ragazzo.

 
Bologna 15 dicembre  2022 ore 18, 09
giovanni ghiselli   
 
p. s
Statistiche del blog
Sempre1302765
Oggi243
Ieri305
Questo mese4455
Il mese scorso8344
 
 
 


[1] Cfr. Orazio, Ars poetica, 163. Cfr. anche Platone: bisogna plasmare (plavttein) il giovane quando ejnduvetai tuvpo~ (Repubblica, 377b) si imprime l’impronta che ciascuno deve portare addosso. 
[2] Cfr. Leopardi, All’Italia, 122
[3] Cfr. Lucano, Pharsalia, IX, 528-531

Nessun commento:

Posta un commento

Ifigenia CLII. Una lettera supplichevole e una canzoncina irrisoria

  Martedì 7 agosto andai a lezione, poi a correre, quindi in piscina a leggere, nuotare, abbronzarmi, e mi recai anche a comprare un d...