“La morte non esiste” pensai continuando a guardare l’acqua del Brenta. “Questa scorre continuamente da sempre. Se sarò bravo con gli alunni, se sarò una buona guida e saprò educarli, continuerò a vivere in loro, nei loro figli, nei figli dei loro figli e così via. Devo lasciare delle impronte buone. Sono ancora cerei in virtutem flecti[1]. La morte, se c’è, non riguarda lo spirito, non il mio.
Dopo questi pensieri, ero salito al castello di Marostica. Nel successivo maggio odoroso sarei tornato in quel luogo ameno circondato e allietato da voli di rondini, e avrei fatto lezione su quel prato smeraldino, cinto da mura, tappezzato qua e là di fiori bianchi caduti volteggiando dai lisci, neri ciliegi, come dal cielo in una notte d’estate scendono scivolando dal cielo le stelle nelle insenature del golfo di Corinto, e invece di inabissarsi spente nell’imo[2], galleggiano trasformate in barche da pesca luccicanti sul mare. Questo avrei detto a Ifigenia la notte fatata di Galaxidion dodici anni più tardi durante il nostro viaggio ciclistico in Grecia.
Tutta la vita è collegata con se stessa, come la letteratura e l’arte.
Sul prato del castello invece sarei andato con il collega Peppino e la nostra terza media nella primavera seguente. Ero contento di pedalare con altre persone contente, felice di parlare con loro, di ascoltarle, di comunicare la mia gioia di vivere con l’umanità rigogliosa degli adolescenti. Stavo trovando la mia strada.
Mi vedo l’ultimo giorno di scuola, il 12 giugno del 1970, in una foto ricordo con Peppino e le nostre tre classi. Siamo allineati davanti alla chiesa di Camignano dove si legge Venite Adoremus. Di fianco si vede una grande quercia frondosa, profetica, come quelle di Dodona dove sarei andato in bicicletta con l’amico carissimo Fulvio e due allievi diventati amici tra i più cari: Maddalena e Alessandro, una trentina di anni più tardi.
Tutto nel sole di giugno brilla: il muro del tempio, le nostre facce giovani e liete, i grembiuli neri delle bambine e pure la tam brevis umbra dell’albero antico che in giugno non cela il sole[3].
Ho indosso un vestito di lino bianco che mette in risalto l’abbronzatura. Ho l’aria soddisfatta. Sono armonioso. Ho il volto dai lineamenti marcati, e pure fini: mi sento bello. Lo sono. Sento di avercela fatta a diventare quello che volevo, quello che sono: un educatore.
Mi mancava ancora però il vivido pathos di una donna giovane, bella, intelligente. Una della mia levatura. Tuttavia non volevo sposarmi né fidanzarmi. Colleghe giovani, carine, educate, le avevo incontrate: con un paio di loro avevo pure fatto amicizia, ma un rapporto impegnativo mi spaventava: il mio tempo doveva andare in massima parte alla scuola, allo studio e allo sport per non diventare più rozzo né più fiacco del necessario. Inoltre sapevo che prima o poi sarei tornato a Bologna.
Avventure amorose volevo, e le ragazze professoresse cercavano altro, né io volevo ingannarle. In luglio sarei tornato a Debrecen.
Lì sarei potuto tornare ragazzo.
Bologna 15 dicembre 2022 ore 18, 09
giovanni ghiselli
p. s
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[1] Cfr. Orazio, Ars poetica, 163. Cfr. anche Platone: bisogna plasmare (plavttein) il giovane quando ejnduvetai tuvpo~ (Repubblica, 377b) si imprime l’impronta che ciascuno deve portare addosso.
[2] Cfr. Leopardi, All’Italia, 122
[3] Cfr. Lucano, Pharsalia,
IX, 528-531
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