mercoledì 21 dicembre 2022

Gerarht Hauptmann, un versatile “capitano” drammaturgo. Di Giuseppe Moscatt

Gerarht Hauptmann, un versatile “capitano” drammaturgo
Giuseppe Moscatt

 
Quando Karl Kraus, polemista collaudato sempre all'attacco dei vizi privati e pubbliche virtù della Vienna dei primi del secolo, decise di leggere a Radio Praga nel 1931 L'Ascensione di Hannele, fiaba tragica di Gerarht Hauptmann del 1893, il primo a meravigliarsi della scelta e del conseguente successo di ascoltatori, fu lo stesso autore. Ormai quasi settantenne - era nato in un ridente borgo climatico della Slesia nel 1862 da una famiglia proprietaria di un albergo alle pendici dei monti Carpazi famosi per le acque balsamiche - Gerarht Hauptmann sembrava un po' appannato rispetto al consenso critico e di pubblico conquistato nel passaggio di secolo fino al 1912, anno in cui fu insignito del premio Nobel. Il dramma riscoperto dal Kraus - quasi un suo compaesano perché nato in Boemia, altro territorio che comprendeva i Sudeti, regione rivendicata dai Nazisti negli anni di poco successivi - mescolava abilmente i motivi sociali realistici di una bimbetta povera violentata dal patrigno e poi ricoverata in un sanatorio insieme alla visione onirica della stessa che sul letto di morte sogna angeli che la ricevono in Paradiso.

Kraus offre al pubblico una profonda novità teatrale tutta concentrata sull'eroina bambina, un passaggio estetico che Hauptmann aveva anticipato decenni prima, ma che era stato segnalato dalla critica sull'onda del massimo capolavoro teatrale tedesco - I tessitori - che aveva rappresentato al teatro popolare di Berlino di fronte agli occhi inorriditi del nuovo Kaiser Guglielmo secondo. Ma l'Ascensione, nella poetica di Hauptmann, era ben diversa: se la cornice rimaneva nel solco del dramma sociale naturalista di una rivolta sociale della massa dei tessitori slesiani del lontano 1844, quando costoro si sollevarono epicamente mostrando la graduale acquisizione della coscienza operaia e la parallela rivendicazione dei diritti dei lavoratori; qui emergeva un solipsismo individualista di una una povera bimbetta di strada, di una contadinella molto simile alla fiammiferaia di Andersen, morta di stenti dopo notevoli violenze subite e che soltanto nell'altro mondo otterrà giustizia.

Un’ardita fusione di immagini veriste e mistico-simboliche, che quasi contemporaneamente Giovanni Verga simboleggiava nella novella Rosso Malpelo del 1878. I drammi di Hauptmann - che aveva visto censurare I tessitori e la precedente Prima dell'alba sui minatori della Slesia, attaccati dalla polizia Guglielmina e poi impediti con censure della stampa malgrado l'evidente successo di pubblico borghese di Berlino - combinarono lo spirito storico epico con una salsa soggettiva spiritualista e perfino ironica, operazione che fece decadere le proteste reazionarie e gli fece avere riconoscimenti letterari sia nei Paesi germanofili che nella vicina Francia, entrando nel Pantheon materialista del citato Verga, nonché nel restante panorama europeo, dove primeggiavano Zola - Germinale, il suo romanzo del 1885 e Tolstoj – per Il dramma contadino La potenza delle tenebre, del 1886 – sia nel romanzo propriamente detto, sia nella novellistica. Corrente naturalista che andava crescendo anche in Italia, dove la potenza ironica di Matilde Serao sconfinava nella poetica popolare e che nella Spagna conservatrice veniva ripresa da Benito Pérez Galdós.

Insomma una carica sociale di realismo, verismo e naturalismo, posture ideologiche e critiche che imponevano una o più presenze sociali in un'epoca di seconda rivoluzione industriale (1873-1890), nella quale cominciavano ad emergere nella estetica letteraria e teatrale temi che finora erano stati sepolti da una logica sentimentale soggettivista, sia nell'ottica classica che nella lettura romantica. Balzavano sui palcoscenici figure reiette e ambigue mai viste: bambini indifesi, donne perdute, poveri contadini, operai disoccupati, cui si affiancavano nobili decaduti, scrittori maledetti, ecclesiastici pentiti, forze ormai in minoranza rispetto a fattori arricchiti, armatori agguerriti, commercianti spesso gretti legati al denaro, oppure fanatici di miti classici secolarizzati, per esempio il mito della famiglia e del capitano di industria fondatore di imperi industriali, come nel caso dei Buddenbrook di Thomas Mann.
La corrente naturalista non ebbe però lunga vita in Germania. Dopo l'exploit dei Tessitori, dove aveva seguito i dettami dell'epigono tedesco di Zola Arno Holz - cioè sulla assoluta neutralità dello scrittore rispetto alla vicenda rappresentata - anche Hauptmann si era posto come uno scienziato di fronte ai mali della società e dunque un fotografo della degradazione sociale, della perversità del capitalismo produttivo, del destino ineluttabile che colpisce l'uomo nella società servile di fine secolo . Dopo aver però conosciuto la filosofia esistenziale cristiana dell'amico Rudolf Eucken, l'autore slesiano cominciò a deviare introducendo elementi fantastici e caratteristiche soggettive sia nella predetta Ascensione, sia nella Campana sommersa, quando si avvicinò a toni magici di sirenette ed elfi di origine wagneriana, privilegiando la componente sentimentale e sostituendo il realismo storico. Hauptmann sentì nella sua poetica un vuoto spirituale che tentò di recuperare con il dramma Rose Bernd del 1903. Ma qui occorre però fare una premessa. L'analisi comparatistica che segue ora, prende le mosse da una domanda: perché un intellettuale deve interessarsi del mondo reale che lo circonda? Si può esser uno scrittore dell'attualità con l'occhio rivolto all'amore? E il nostro De Sanctis, appena l'Italia si faceva Una (1870), affermava che l'ideale si deve calare nel reale che deve comprendere anche il sentimento. Ma già dagli anni '30 dello stesso secolo, un autore postromantico, Honoré de Balzac, con la sua Comédie humaine aveva introdotto in letteratura la necessità di una concretezza morale, sociale e politica della classe borghese oramai dominante, proclamando anche la riduzione della religione a scienza dell'Uomo e dunque circoscrivendo il perimetro della conoscenza umana, dove il mondo reale si fa unica divinità, dove l'uomo è l'unico curatore del reale, dove l'etica torna ad essere immanente sul modello presocratico, dove infine termina l'elemento patetico e cessa l'eroismo classico per accedere ad un eroismo reale in cui il destino ci preme come un macigno. In altre parole, non più volontà, quanto ineluttabile meccanismo quotidiano che ci schiaccia fino alla morte. Un determinismo naturale senza speranza a cui l'impetuosa finalità di cambiamento di cui si diceva sembra ridursi a mera incapacità e un incatenamento alle limitazioni della natura, quasi un pessimismo cosmico che paradossalmente contraddice la premessa.

Di qui, la scelta di uno scrittore cui non resta che essere il fotografo della società, un commediografo della esistenza quotidiana, né reazionario né progressista, ma solo un medico di fronte al male incurabile. L'uomo è soltanto un vinto dalla Natura. Tale ideologia di immutabilità del mondo, che sembra fare a pugni col pensiero idealista radicale e che equipara staticamente il reale all'ideale, troverà in Emile Zola una bandiera che sventolerà nella cultura europea per breve parte del secolo capitalista, quasi a costituirne lo scudo esteriore. Zola, Coubert, Hebbel, Dickens, tanto per citare qualche esemplare di quel movimento, tendono nelle Arti a riprodurre fedelmente i caratteri tipici di un modo commercializzato e industrializzato dove il profitto, la produzione, lo scambio, il denaro sembrano essere gli unici motori immobili cui tributare ogni atto della propria vita. Naturalismo si disse subito e si ebbe presto la proposta intellettuale di Flaubert (Madame Bovary) dove veniva delineato magistralmente la tragedia della donna borghese sottomessa e rassegnata, oggi diremmo soggetta a Dio, Patria e Famiglia.

Anche Hauptmann applicò il modello francese arricchito dallo sperimentalismo di Zola perché legato alla ricostruzione scientifica del fenomeno naturale e immutabile della relazione amorosa in età capitalista. Rose Bernd è dunque una ragazza di campagna che desidera un amore libero, ma è costretta dalla famiglia a sposare August, un ricco proprietario terriero che potrebbe risolvere la crisi della famiglia d'origine piena di debiti. Rose però ama Flamm, a sua volta sposato, debole marito di una povera donna allettata da un male incurabile. Un terzo bellimbusto, Stremann, scopre la tresca e la ricatta, chiedendole e ottenendo i suoi favori, pur con disgusto della giovane. Rose resterà incinta, senza sapere che il bambino è del primo amante o del ricattatore. E tuttavia sposa August, che verrà presto a sapere che il bimbo non è il suo. Per salvare l'onore e l'economia paterna Rose ucciderà il bambino appena nato e tutto finirà per bene: la trappola sociale è scattata perché si scoprirà l'infanticidio, ma la società assolverà l'Autrice, che però si suiciderà per sconforto. Come Madame Bovary - e la tolstojana Anna Karenina - viene dipinto non solo il collasso di una giovane donna, ma anche l'ipocrisia della società contadina analoga a quella industriale. Solo che la consueta tragedia delle fanciulle sedotte diffuse nella cronaca quotidiana, viene inscritta nella realtà rusticana, al pari della Nedda del Verga, benché in un’ottica scientifica priva di morale sessuale. Quasi un quadro di degradazione sociale che trascende l'animo umano e che pretende di essere determinata dal mondo.
Si è detto del Verga, realista analogo all'Hauptmann, perché come lui trasferisce nella realtà rusticana un dramma psicologico umano a carattere universale. Mentre il contesto storico del tedesco era all'inizio del secolo ventesimo nella società imperiale Guglielmina in avanzato stato di progressione sociale, giacché la legge sull'assicurazione contro le malattie lavorative e a favore del lavoro femminile era stata approvata dal parlamento prussiano fin dal 1883 e dunque ampiamente collaudata nel diritto del lavoro germanico.

Lo stesso non poteva dirsi della legislazione del lavoro in Italia, nel contesto storico del lavoro nei campi stigmatizzato del Verga fra il 1873-1874, periodo funestato da un decennio di crisi sociali che nel 1889 sfoceranno nelle vicende dei Fasci siciliani. Si è vista la robusta introspezione soggettiva di Hauptmann, ancora legata ai canoni sperimentali di Zola e all'impressionismo di Coubert e Baudelaire. Presenza ben più marcata nel Verga maturo, ormai saturo delle tensioni scapigliate milanesi di una Storia di una capinera (1871) e di Eros (1875). Certamente, nel suo soggiorno giovanile a Firenze e poi negli anni milanesi (1872-1892), Giovanni assistette alla fine dell'ideale democratico garibaldino e poi al dramma reazionario del Brigantaggio a sud e ai moti nel parmense contro la tassa sul macinato nel nord, eventi nel suo animo ormai divenuti una triste realtà poco dopo l'Unità.

Una domanda ora assillava i due giovani compaesani - Verga e Capuana - sul come uscire dalla gabbia del lirismo romantico e del circolo vizioso della volontà che tutto cambia, nell'ottica del capitalismo industriale che divora ogni valore morale e che mangia l'uomo e la donna per quel denaro che è diventato il motore della storia. Sicuramente è necessario trovare un contesto nuovo, magari destrutturando il mondo borghese di Flaubert e che Tolstoj intravide profeticamente nel mondo contadino. Confortato dalle parole di incitamento del Capuana e in aperta polemica col Fogazzaro, che proprio nello stesso anno - 1874 - mandava in stampa Malombra. di tutt'altro genere, mistico e spiritualista, quasi un'anticipazione dell'ideologia espressionista di inizio '900. Verga scriveva invece la breve novella Nedda il primo bozzetto del Verismo italiano, un Naturalismo stemperato da un senso morale non indifferente. Infatti, la protagonista è una povera bracciante che coglie olive nell'agro siciliano ben noto allo scrittore. Ha la madre malata, come lo sarà la moglie dell'amante di Rose; e lavora nei paesi più poveri della Sicilia interna, senza alcuna assicurazione sociale prevista da leggi di tutela sul lavoro. In poco tempo, la madre morirà, il giovane contadino Jano che ama, cadrà vittima di un incidente sul lavoro, perfino la figlioletta del suo amore perduto, nascerà malata e morta prematura di stenti. Nedda vessata sul lavoro, donna socialmente perduta, disperata ed espulsa anche dalla cerchia contadina, una vinta dal mondo. Nondimeno, Verga sperimentava la narrazione impersonale che proseguirà nelle successive produzioni, dalle Novelle rusticane, al Mastro Don Gesualdo fino ai Malavoglia. Eppure il passo conclusivo della novella, Oh benedetta Voi che siete morta! - Oh benedetta Voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia creatura per non farla soffrire come me!, faceva il paio con la battuta dell'Hauptamann che faceva dire a Rose: O Gesù, o Gesù cosa ho fatto? Perché sono andata di nascosto a casa? Perché non ho salvato il mio bambino? Sono stata io ad ucciderlo! Non volevo che facesse la mia fine...

Se qui il naturalista dipingeva un mondo che anche lui conosceva e che si limitava a riprodurre senza alcuna commozione; Verga commiserava il mondo contadino e ne rappresentava col linguaggio locale lo stato di dolore insieme a una salvezza disperatamente assente. Di più: la accettazione della vita così come è costituiva un mero determinismo economico, senza però dimenticare il dolore che questo porta con sé. Piuttosto è interessante il fatto psicologico che Rose meglio si esprime rispetto all'estetica di Nedda, imprigionata in un reale stato di miseria e che spera e ringrazia per la morte della bimba. Ciò che le accomuna, al punto di renderle eroine, è quello di rappresentare la rivolta contro le convenzioni sociali, una nuova rilettura della Medea di Euripide che fa onore a questi due campioni della letteratura contemporanea. Ma ormai era apparsa sulle scene una visione del mondo non più limitata da rischi di censure governative e di fiaschi del pubblico, al quale piaceva l'uso del dialetto realista e la presenza di personaggi comuni della vita quotidiana. Caratteristiche che ora influenzeranno il Capitano, come lo chiamava il Nostro Ermete Zacconi che rappresentò le sue commedie a sfondo ibseniano, per esempio Anime solitarie del 1899.

Hauptmann a cavallo del nuovo secolo metabolizzò la domanda di ironia concreta con l'offerta a lui più propria di natura critica delle convenzioni sociali. Si pensi al riguardo alle commedie La pelliccia di castoro (1893), che narra la diffusissima guerra fra la malavita berlinese contro la polizia, tema che influenzò gli Strauss e che ebbe una continuazione d'eccezione nell'Opera da tre soldi di Brecht. Oppure I topi, una pièce densa di situazioni tragicomiche sull'immigrazione operaia da Berlino, alquanto innovativa nella sua sottile critica all'antisemitismo, sempre più marcato nell'età Guglielmina alle soglie della Grande Guerra (1911). E non va dimenticata una nuova tappa del suo percorso estetico, dopo la passione populista, cioè la tensione fiabesca, l'umorismo decadente, la critica alle convenzioni sociali e borghesi, un cammino che la cultura teatrale di inizio secolo per esempio, quella di un Piscator che lo volle autore preferito al suo teatro popolare di Berlino fin dal 1920 – vale a dire la conflittualità religiosa. Infatti già nel 1910 pubblicò il romanzo Emanuel Quinn, il pazzo di Dio, la narrazione in terza persona di ritorno alle origini naturaliste sulla vita di un un uomo del popolo che crede di essere Cristo Gesù redivivo. Un misticismo religioso altissimo che gli riaprì le porte del pubblico e che lo accomunava all'espressionismo religioso di un filosofo spiritualista conterraneo - Rudolf Eucken - e al nostro Antonio Fogazzaro, che le fonti raccontano come suoi personali interlocutori lungo le passeggiate nel Canton Ticino, alle pendici del Monte Generoso, il ritiro solitario che il Capitano preferiva prima di immergersi in una nuova avventura letteraria. Nel 1912 ebbe finalmente l'atteso Nobel, dopo il di nuovo popolare romanzo Atlantis, una storia d'amore e morte ispirata dalla coeva tragedia del Titanic. Intanto, la tragedia della Grande Guerra - che lo aveva visto assente nel suo paese perché convinto pacifista in rotta di collisione con Thomas Mann, un amico che aveva scelto la strada nazionalista. Solo nel 1922, in occasione del sessantesimo suo compleanno, riapparve in pubblico nella Sala Beethoven di Berlino, festeggiato e complimentato dall'amico ritrovato Mann, ambedue convinti finalmente che un'epoca nuova si era riaperta, quella della Repubblica di Weimar e della nuova democrazia ritrovata dopo una guerra voluta dai pescecani dell'industria tedesca. Nuove tensioni premevano e nuovi temi incalzavano. Hauptamann ora rileggerà il classico: L'arco di Ulisse (1914), Amleto in Wittenberg (1935); La saga degli Atridi (trilogia classica, 1941 -1942), costituiscono la sua nuova evasione dalle intemperie naziste, regime che non lo vide protagonista, in una silenziosa opposizione, benché fosse rimasto un amico personale di Goebbels. Nel 1945, l'essere stato neutrale col Nazismo, lo rese inviso nella Germania Occidentale, mentre nel paese di origine - Ober Salzbrunn nella Slesia orientale, poi occupata dai Russi e poi dai Polacchi nel 1945 - fu ampiamente onorato in nome delle antiche simpatie socialiste. Gli ultimi suoi scritti - fra cui spicca il poema in terzine Il Grande sogno, una rilettura del mitico Till Eulenspiegel, che fa partecipare in lingua tedesca la figura di Dante, che lì compare in un canto fra i 22 dell'opera. Scrittore, poeta, commediografo, saggista e critico proteiforme, accusato di accademismo e di essere un intellettuale per tutte le stagioni da molti critici non solo tedeschi; negli ultimi anni sembra essere tornato agli onori della critica per un'opera postuma pubblicata a New York nel 1947, Finsternisse, cioè tenebre, un dramma antirazzista alquanto vivace e innovativo, sepolto fra le migliaia di bozze che vennero ritrovate dall'amico Felix A. Voigt, professore di germanistica a Würzburg, che negli anni '60 si batté per la sua riabilitazione. Voigt scriverà nella biografia più accreditata che il Capitano nella sua atipicità, altro non fece che descrivere la vita di ciascun uomo nella sua evoluzione, cioè le naturali contorsioni del nostro essere, un eterno ritorno e un continuo ripartire.

Giuseppe Moscatt

Nessun commento:

Posta un commento

Ifigenia CLII. Una lettera supplichevole e una canzoncina irrisoria

  Martedì 7 agosto andai a lezione, poi a correre, quindi in piscina a leggere, nuotare, abbronzarmi, e mi recai anche a comprare un d...