NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

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martedì 27 dicembre 2022

La storia di Kaisa. 14. La gita scolastica. Il trenino Ora-Predazzo tra il 1948 e il 1960

Rimaniamo dunque ancora un po’ nell’estate del 1972. Voglio ricordare un episodio avvenuto quando il nostro connubio mensile  aveva già un paio di settimane alle spalle.
Con gli altri Italiani e con i Francesi ero in un pullman che ci portava da Debrecen a Eger, in gita, per così dire, scolastica.
Kaisa era nella corriera dei Finnici. Mi mancava la sua vicinanza: non potevo intingere nei suoi luminosi colori  i pennelli con i quali avrei dipinto la nostra storia.
 
Attraversata la puszta sitibonda, lungo la strada cominciarono a farsi vedere dei colli, e in breve tutto il paesaggio mutò rispetto alla grande pianura, priva non solo di alture ma, per vasti tratti, anche di alberi e di case coloniche. Le colline alberate, orlate di vigneti verdi, punteggiate dal bianco e dal rosso di piccole case, davano qualche conforto all’occhio stanco della puszta semideserta, e quell’anno il 1972, per giunta, secca, polverulenta dopo tre settimane canicolari.
Arrivati nei dintorni di Eger, cambiammo mezzo: salimmo su un trenino a scartamento ridotto, del tutto simile a quello che da Ora, nella valle dell’Adige, saliva fino a Predazzo in quella di Fiemme. Infine una corriera ci portava a Moena, nella valle di Fassa.
Dal 1948 e durante tutti gli anni Cinquanta mi ci portavano due zie materne che non avevano avuto figli: la Rina e la Giulia. Il loro nipote prediletto, cioè il loro figliolo ero io. La Rina da ragazza era stata una bellezza.
Non si era mai sposata per rimanere libera. Come me.
Però, diversamente da me, la zia Rina non era incline a lasciare liberi gli altri. 
Anche la zia Giulia non era male, ma era più chiusa in se stessa. Lei invece era sposata e avrebbe voluto dei figli, ma non erano venuti, con suo dispiacere grande.
Giunte ai cinquanta anni, le due sorelle contavano su me come erede delle loro persone e delle loro vite. In effetti non erano due donne banali: nate nei primi anni del Novecento, avevano fatto le maestre all’estero, in Tunisia, in Bulgaria e anche in Ungheria,  nel ventennio fascista. Dopo la caduta del regime e il loro rimpatrio, la Rina, a Pesaro, mandava avanti l’azienda agricola di sua madre con sette famiglie di mezzadri che lavoravano la nostra terra, almeno una sessantina di “anime”. D’estate mi portava alle trebbiature di Tavullia, del Trebbio,  di Montegridolfo e del Tavollo, e la vedevo tenere testa a tanti uomini e donne con lo stesso piglio autoritario che teneva in casa. La nonna Margherita la chiamava “la badessa”, il nonno Carlo “la sbirra”. Non si peritava di essere imperiosa nemmeno con i suoi genitori. A me piaceva la Rina.
 
Si arrivava dunque a Ora nel pomeriggio. Le zie mi indicavano un nido di rondini nel sottotetto della piccola stazione gialla tipica della vecchia monarchia austro-ungarica. Mi facevano notare che i genitori portavano il cibo ai pulcini. Loro due erano le mie nutrici durante quel mese estivo. E non mi alimentavano solo con il cibo. Volevano che fossi il più bravo a scuola, che primeggiassi sempre. Mi incoraggiavano a studiare, anche in agosto. Non ho fatto una gran carriera istituzionale a dire il vero, ma alcune cose egregie, mi sono riuscite molto bene. E sono grato alle zie, alle mamme vicarie. Dal loro autoritarismo, ho imparato, ex contrario, l’indipendenza. 
Ti faccio un esempio, lettore. Risalgo al 1954, quando avevo nove anni e otto mesi. Diciotto anni prima di Kaisa. 
Il trenino dunque saliva adagio verso il passo di San Lugano. La prima stazione era Montagna, la seconda Fontanefredde. I toponimi erano scritti anche in tedesco. Le zie li leggevano in entrambe le lingue e ne sottolineavano il significato letterale con la loro bella pronuncia aretina, e non senza un’enfasi vagamente minacciosa, perché io capissi che dovevo lasciarmi infagottare di maglie e maglioni, con i quali indosso, i miei movimenti da bambino “poco prudente” erano meno liberi e sciolti. Non volevano che mi sporgessi dal finestrino, e mi proibivano in particolare di toccare i rami protesi sulla ferrovia. Dicevano che se li avessi afferrati mi avrebbero portato via un braccio. Io cercavo di sfuggire a quelle maglie di forza, anche perché faceva caldo: Fontanefredde o Kaltenbrunn che dire si voglia, è situata solo 5 o 600 metri sopra il fondovalle: era ancora estate e l’aggettivo attribuito all’acqua del paese sarebbe diventato applicabile all’aria solo parecchie settimane più tardi. Coprirsi di golf per quella duplice scritta sarebbe come sentirsi in dovere di pesare l’oro ogni volta che si passa da Pesaro (1). Dovevo dunque ingegnarmi per evitare almeno una parte di quella tortura. Arrivato a indossare il terzo golf, dicevo che con un altro panno sarei stato troppo impacciato nel fare il nome del padre del figliolo e dello spirito santo, quando dal treno si fosse vista una chiesa. Le zie me lo avevano insegnato e imposto siccome ci tenevano molto a crescermi credente,  devoto e sottomesso.
 Così mi consentirono di non indossare la quarta “buccia”, nonostante i mille metri fossero vicini con i loro “aliti freddi ”.  La zia Rina però, perché non credessi di potermi sottrarre alla sua volontà dispotica, mi gettava addosso una coperta che mi lasciava muovere le braccia sì, tuttavia mi impediva di arrampicarmi fino ai bagagli posati in alto, o di sporgermi dal finestrino allungando il collo per gridare alle bambine che osservavano il treno fermo nelle stazioni: “ciao, come ti chiami? Vieni a Moena anche tu?” Erano rosèe e paffute. In fondo erano le prime nordiche della mia vita.
A dirla tutta, mi domandavo se quelle bambine, rosa o rosse com’erano,  fossero fatte come le Pesaresi molto più scure di pelle e capelli, o avessero nel corpo dei binari a scartamento ridotto, come quelli del trenino della valle di Fiemme a quanto mi avevano detto.
Per non confondere troppo i colori, sui dodici anni  mi innamorai di una fanciulla mora mora, una bambina  meridionale che sua madre, bruna come la mia, portava a Moena a villeggiare in un appartamento sottostante a quello dove abitavo con la zia Giulia in via Damiano Chiesa. Questo fu il primo insuccesso amoroso della mia vita. Lo racconterò più avanti.
Nei primi anni Sessanta il trenino è stato abolito e ora nella stazione antica c’è un bar con un piccolo teatro. La zia Giulia è morta nel 1982, la zia Rina nel 1991. Tutti gli anni, per Pasqua, torno a Moena in automobile e passo per quella stazione storica, guardo l’angolo del sottotetto dove c’era il nido delle rondini, ricordo le mie zie che ho sempre portato vive dentro di me, e rivolgo loro un pensiero di gratitudine grande per avermi aiutato a diventare quello che sono, non dico un granché, ma di sicuro me stesso, non un altro qualunque. È un rito che ripeto tutti gli anni con commozione e rimpianto. L’ho raccontato perché lo devo alle sorelle di mia madre per quello che mi hanno lasciato di materiale e di spirituale.
Metto anche loro tra le donne che ho amato. Sono vissute per me, e credo che siano contente, molto contente del risultato, se possono vedermi. Devo dire un’altra sola cosa sul conto dei nostri rapporti. Non le ho mai lasciate sole per Natale quando erano diventate vecchie e io ero un giovanotto florido ancora negli anni e piuttosto fornito di amanti. Una volta, quando ero andato a fare la consueta visita del solstizio invernale a un’altra delle mie mamme vicarie, l’ex collega e carissima amica per sempre, Antonia di Carmignano di Brenta, questa mia educatrice, già ottantenne, mi domandò cosa avrei fatto per Natale. Risposi che sarei andato a Pesaro per tenere compagnia alle due zie, anzi tre, siccome in una casa vicina viveva la zia Giorgia, anche lei prodiga nei miei confronti. “Le sorelle Materassi”, le chiamava mia madre.
 “Perché?” Mi chiese l’amica sapendo che la mia vita da scapolo libertino e gaudente era a Bologna. “Perché sono le mie consanguinèe più vecchie e più sole” risposi. E aggiunsi: “per Capodanno ci sarà anche mia madre  e ceneremo insieme”
Allora Antonia mi fece un augurio che si è avverato: “Lei sarà fortunato, Gianni, perché è buono”. Anche questa amica è morta, nel 2005, e quando vado a Moena, passo sempre per Carmignano di Brenta dove la carissima donna è sepolta e porto alcuni fiori con tanti pensieri di gratitudine sulla sua tomba. E le mando dei baci con le mani.
Anche lei mi ha aiutato dandomi buoni consigli e insegnandomi a diventare un bravo insegnante. E soprattutto una persona buona, generosa, leale.
Dopo la morte di questa amiche sicure sono stato lasciato solo più di una volta per Natale, per Capodanno et cetera, da parenti, amici e da amanti altrimenti impegnate, ma non me ne sono mai dispiaciuto, anzi sono stato fiero di non essere come  coloro. Uno di questi ultimi 25 dicembre andai in treno fino ad Arezzo poi in taxi sulla tomba della mamma, dei nonni e delle zie a Sansepolcro. Credo che lo rifarò. Sono presenze più vive loro dentro di me che tanti conoscenti, ex amici spariti e, devo dirlo, pure ex amanti, venute con proteso il cuore, poi dileguate senza vestigio.
Di alcune persone, donne soprattutto, ma anche qualche uomo, invece so che non mi abbandoneranno mai: le ho dentro di me.
A volte chiamo per nome queste persone che mi hanno voluto bene e, rivolto al cielo,  canto ricordando una canzone di Fabrizio de Andrè: “quando attraverserò l’ultimo vecchio ponte, a voi amici dirò, baciandovi alla fronte, voi siete in Paradiso, là dove vengo anch’io, perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”. Lo faccio quando sono solo e posso anche piangere. 
Ma torniamo all’estate del ’72, e a Kaisa cui pure devo qualcosa di quello che sono. Non chissà chi ma gianni il poverello di Pesaro, il mendicante dell’amore e della bellezza.


Bologna 27 dicembre 2022 ore 11, 37
giovanni ghiselli

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1. Servilio a Eneide IV, 825, afferma che Pisaurum si chiama così (Pisaurum dicitur) perché là fu pesato l’oro (quod illic aurum pensatum est) che i Galli Senoni dovettero restituire a Camillo.

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