domenica 25 dicembre 2022

1971. La storia di Elena. 21. “Io non sono materia”

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La mamma di Yväskyla
  e la mamma di Borgo Sansepolcro
 
“Ecco la mamma”, pensai.
  
Digressione su mia madre
E mi venne in mente la mamma mia, di occhi azzurri e di capelli nerissimi, quando durante il pranzo mi guardava fissamente[1], con aria ostile, poiché non le davo retta e non si sentiva amata abbastanza, o pensava di essere mal giudicata da me, o posposta alle sorelle sue. Io l’amavo come non ho più amato nessun’altra donna in vita mia, ma non riuscivo a farglielo capire, e lei si sentiva ingiustamente sottovalutata in favore delle zie, la Rina e la Giulia, dalle quali mi rifugiavo poiché, a mia volta mi sentivo non capito e non apprezzato da lei. Quando la Giulia, che come la Rina non aveva figli, mi portava a Moena, in agosto, sentivo tanto la mancanza della mamma, il desiderio di una sua cartolina, che tutte le mattine aspettavo il postino, o addirittura gli correvo incontro, sperando di leggere parole di lei. Anche solo “Saluti e baci. Mamma”. Ma queste quasi mai arrivavano, e io aspettavo il giorno seguente, e agognavo il ritorno a Pesaro per provare di nuovo a piacerle, a conquistarne l’affetto, la stima, l’ammirazione.
 
Elena era una mamma, bella e bruna anche lei, e quella sera del 4 agosto 1971, mentre i crapuloni pieni di palinke e vini ripetevano quei loro ontosi metri[2] contro le donne, avrei potuto far pagare a quella femmina umana le frustrazioni subite dalla mamma mia quando era indifferente o furente perché non le obbedivo e non si sentiva amata da me. Elena però non era furente né indifferente, anzi manteneva lo sguardo buono anche quando era  infelice.
 
La madre mia solo quando il grande dispetto le era passato,  diventava affettuosa. Allora mi accarezzava i capelli e diceva: “ Pipo, sei bellino, sei buono, a scuola sei il più bravo di tutti: io sono fiera di te. Ho sempre desiderato un figlio così; tu mi ripaghi di una vita tribolata. Hai occhi grandi e belli, anche se non hai preso il colore dei miei: i tuoi sono color-cacca, però si vede lo stesso che sei intelligente. Una volta, quando eri piccino piccino, avevi forse tre anni, ti portai da un calzolaio troppo caro secondo me. Sicché io volevo uno sconto e tu, che avevi capito tutto, per sostenermi, dicesti “brutte ’ca’”, brutte scarpe.
Appena hai imparato parlare, hai dato segni di genio. Mi aspetto molto da te. Vedrai che uomo diventi, vedrai quanto ti ameranno le donne! Quando mi fai arrabbiare, ti sgrido, talvolta ti  do qualche scapaccione, ti tiro per la cuticagna, ma ti voglio bene lo stesso!”
Allora sentivo che quella donna mi capiva, mi apprezzava e mi amava. E fuggivo nel bagno per piangere, ma di consolazione e di gioia, poiché la madre mia  contraccambiava il mio amore .
La mamma era l’unica donna che mi piaceva del tutto e mi emozionava, perché era bruna, di capelli nerissimi e  occhi colore smeraldo, oppure, secondo la luce, men chiara o più chiara, azzurri. Aveva l’incarnato sempre brunito dal sole, era  ben fatta, snella e formosa, elegante, ma ancora di più la ammiravo  poiché era capace di pensieri originali, di azioni sue, magari non tutte, non sempre buone, però sue, non imitate da altri, e di giudizi acuti su un personaggio, un libro, un film. Se amo la letteratura e il cinema con la loro potenza ricreativa, lo devo anche a lei, soprattutto a lei.
Le zie erano state fascistizzate e pretificate; il nonno beveva, rimpiangeva le sue numerose ex amanti e le tante  gare ciciclistiche vinte; la sorella era ancora un’infante, la chiamavamo toscanamente “la Citta”, cioè la bambina; la nonna Margherita gelosa faceva la guerra alla serva di casa, la Pina, una poveretta mezza scema, brutta e quasi vecchia, ma "ghiotta per quel porcaccione del tuo nonnaccio - diceva la nonna - Non diventerai mica come lui, vero?” 
E per stornare le corna, d’inverno sputava nelle fiamme del focolare, in cucina. Mia madre  aveva un’anima: non sempre diritta e lucida invero, ma ce l’aveva. E io per questo l’amavo, l’amavo come non ho amato mai più, né mai più probabilmente amerò una femmina umana mortale, e la prendevo sul serio, e volevo correggere le sue distorsioni con un impegno che non avrei messo nemmeno con le mie figlie spirituali: mia sorella Margherita, Luciana, Ifigenia, Carlotta, Daniela, Polina e le altre. Sbagliavo a volere cambiarla e soffrivo quelli che, con la mia piccola e misera mente dogmatica, consideravo i suoi errori. Non erano errori. Era la natura sua, una natura non fiacca, quella che mi ha trasmesso oltretutto, e io gliene sarò grato per sempre.
 Quando capivo che anche lei mi amava, piangevo di gioia; poi mi osservavo a lungo nello specchio, e notavo quanto le somigliavo nel volto bruno bruno, nell’espressione degli occhi  tagliati a mandorla, seppure, ahimé, di colore diverso, nel naso pronunciato in modo nobile e bello. Antichi eravamo entrambi. Antichi etruschi  di Borgo SanSepolcro eravamo. E nel mio volto vedevo la  stessa sua irrequietezza, la stessa follia geniale, ispirata, che volevo rivolgere al bene, a creare qualcosa di buono, di bello, di grande. Ci sono manie divine, più sagge della saggezza del mondo.
Questo avveniva negli anni Cinquanta, verso la metà degli anni Cinquanta, quando avevo una decina di anni.
 
Il 4 agosto del ’71, vicino ai ventisette, potevo evitare di opprimere una donna che mi aveva aiutato, risparmiandole un’ingiustizia dolorosa e umiliante. Avevo incontrato una persona che si era fidata di me, riconoscendo l’uomo tendenzialmente buono e intelligente che volevo diventare, che forse, ora, a quasi 80 anni, mi avvicino a essere. Non dovevo tradire la sua fiducia. Elena però doveva aiutarmi poiché il mio animo, come la testa materna, era ambivalente, intermittente, incline alla seduzione attiva e passiva, allo qumov~ anche distruttivo, seppure non tanto quanto quello della madre furente e assassina immortalata da Euripide[3].
  
Nell’ottobre del 2011 la mamma mia è morta, pochi giorni dopo avere compiuto novantotto anni. Grazie a Dio, eravamo del tutto pacificati e armonizzati noi due, da tanto tempo oramai. Ci eravamo riconosciuti.  Ci fidavamo completamente l’uno dell’altro. Ci amavamo molto alla fine. Ne eravamo felici entrambi. La notte del giorno della sua morte pedalando sulla pista ciclabile tra Pesaro e Fano, l’ho sentita vivere nelle stelle, nell’innumerevole sorriso delle  increspature marine  che riflettevano la luna, una luna crescente piena di luce. Ho sentito la mamma viva nell’armonia della vita dell’Universo. E ho pianto di dolore ma anche di gioia, come quando ero un bambino davanti allo specchio. La mamma non era sparita: era viva nel cosmo e viva dentro di me. Non è uscita dall’Universo la mamma. Tanto meno è uscita da me, piuttosto è entrata in me. Sono certo che  rimarrà viva, e bella, e buona per sempre. La madre terra è in mezzo alle stelle e tu mamma, sei dappertutto, in quelle lucentissime margherite del cielo, nel sole che  ci abbronza e ci rende più belli, nel vento che ci accarezza, nelle farfalle che volano sui fiori d’oro che ti piacevano tanto, negli uccelli dell’aria, nei piccioni e nei passeri cui davi da mangiare. Ti ritrovo dovunque, sempre pronta a darmi il coraggio e la forza di diventare quello che sono, di fare le cose buone e belle che devo a me stesso e devo a te che mi hai dato la vita.
Quando mi osservo allo specchio, e vedo nel mio volto, l’impronta del volto tuo, irrequieto, geniale, ti dico: “Tu sei la mia mamma, tu sei la mia mamma”, e lo bacio. Poi tocco le vene azzurre della parte interna dell’avambraccio e dico: “questo  è sangue di Luisa”.
 
Ma torniamo all’era di Debrecen, precisamente alla sera del 4 agosto del 1971.
Diedi retta al mio demone che non voleva il male della donna pregna, né quello del feto, né il mio. Sarebbe stata azione non degna di me.
Mi scusai con la ragazzetta francese e andai dalla Sarjantola che aveva osservato e, probabilmente, compreso.
“Ciao cara, come vanno la salute e l’umore?”, le domandai non senza imbarazzo.
“Non bene”, rispose con serietà. “Ti voglio parlare, ma non qui tra la gente e il chiasso. Andiamo a fare due passi”. Aveva visto e capito che ero stato lusingato e attirato dalle moine e i vezzi di quella  adolescente liscia e fresca come una prugna[4], spregevolmente da parte mia, dopo tutti i giuramenti d’amore e di stima impiegati per convincere  lei, la donna di un altro, di un uomo lontano, a venire a letto con me che avevo detto di amarla quanto si ama la vita.
Le proposi di andare in collegio, in camera mia, dove si poteva parlare stando seduti e guardandoci in faccia. Sentivo anche io il bisogno di una spiegazione chiara e completa.  Il collegio era deserto, la camera vuota. Ci sedemmo sul letto ordinato, e casto,  di Fulvio, l’onesto Fulvio. Nemmeno con se stesso fornicava l’amico innamorato della futura moglie.
Lo faceva Claudio dicendo che con tante donne disponibili con cui faceva sesso, la masturbazione era una saporosa avventura.
“Senti Gianni”, cominciò Elena andando direttamente al centro della questione, “se la mia presenza ti pesa, io posso tornare in Finlandia direttamente, domani”. Aveva gli occhi gonfi, rossi, cerchiati, e l’aria infelice. Ancora una volta, con la sua capacità di arrivare subito al nocciolo, con la sua calma, pur nel dolore, mi dava una lezione di intelligenza e di stile. La guardavo, pensando quanto era diversa dalla gente rozza assai, e affettata, che frequentavo di solito; quanto mi rendeva migliore. Riflettevo, esitavo a rispondere. Allora si mise a piangere sommessamente. Finalmente parlai. Dissi: “Elena, non piangere, ti prego, mi dispiace, non piangere. Fammi capire che cosa ti rende infelice. Io voglio aiutarti”. Si asciugò gli occhi, poi mi guardò con fermezza e disse: “A me dispiace di essermi lasciata andare ad amarti troppo presto. Ti ho creduto quando dicevi di amarmi, e mi sono sbagliata”.
“Dai, che non è vero”, la confutai, ma senza la convinzione e la forza necessarie a lenirne la pena.
Allora disse: “Non essere falso almeno. Ho visto quanto ti attirava la ragazza francese e quanto avresti voluto essere libero per lasciarti andare con lei. Ebbene, puoi farlo, o puoi continuare a farlo. Non preoccuparti per me: considerati sciolto da ogni legame con me, come se non mi avessi mai conosciuta; io adesso torno in camera mia e domani sparisco dalla tua vita”.
Si alzò dal letto e si diresse verso la porta. Allora capii. Capii di essere stato stupido, volgare e crudele; capii che quella creatura in attesa di un’altra creatura, non doveva subire ingiustizia, umiliazioni e dolori. Non da me. Avevo capito e sentivo che non vi è felicità grande senza morale profonda[5].
L’azione cattiva è pessima per chi l’ ha progettata e la compie[6].
Chi prepara il male a un altro, lo apparecchia a se stesso[7].
Ne avrei avuto rimorso per tutta la vita, forse anche oltre. E non solo per questo: io l’amavo, lei mi aveva reso migliore, e siccome in sua presenza mi vergognavo di essere ingiusto, mi avrebbe reso ancora migliore. La terra è in mezzo alle stelle, e sulla terra ci sei tu amore mio. Mi alzai, le afferrai la mano sinistra e dissi: “Scusa, Elena, aspetta.  Ora devo parlare io a te. Ne ho bisogno. Ti prego”. Si fermò, mi guardò, poi sedette di nuovo. Questa volta sul mio, sul nostro letto, sul letto dove Eros ci aveva uniti  in tanti, mai troppi tripudi gioiosi. Sospirai profondamente, le accarezzai i capelli nerissimi, folti, lucenti e la guardai con simpatia autentica. Elena era come me quando venivo vessato dai prepotenti: chiedeva giustizia a uno che aveva provato l’ iniquo impulso del tradimento e dell’oppressione.
“Scusami, amore, hai ragione”, dissi. “Prima stupidamente ho bevuto due o tre palinke e ho perso la lucidità mentale. Poi ho ballato e ho sorriso sfacciatamente con quella ragazza francese. E’ vero, le ho fatto la corte, ma niente di più. Ho detto poche parole vuote”. Mi fermai un momento.
 
Poi le citai  quanto dice Hans Castorp a madame Chauchat, la donna dagli occhi da Chirghisa: “Parler français, c’est parler sans parler, en quelque manière… sans responsabilité, ou comme nous parlon en rêve
Helena mi guardò perplessa.
“Ora ti metti anche a parlare francese?” , mi domandò.
“No, je ne parle guère le français:  ho solo imparato a memoria alcune parole di Thomas Mann”[8], risposi. 
 
Poi continuai: “L’ho abbracciata, come si fa quando si balla, le ho fatto qualche complimento, ma non l’ho baciata. Comunque mi dispiace, ora me ne vergogno. Io voglio te, ne sono sicuro, voglio stare con te, soltanto con te, finché tu mi vorrai. Voglio rispettarti come rispetto me stesso, perché tu sei la mia compagna e ancora di più perché ti amo. Tu devi essere sempre felice, almeno per quanto dipende da me. Ne sento la responsabilità”.
Mi osservava, prima con sguardo dubbioso, poi capì e sentì che parlavo sul serio, con la testa e con il cuore, con tutto me stesso insomma. Infine mi sorrise convinta e mi accarezzò. Allora io, spingendole in basso una spalla, la stesi sul letto, quindi cominciai ad accarezzarle una coscia, sotto la gonna, con l’intento evidente di fare l’amore subito. Ma lei scostò la mano inopportuna e tutta la mia persona petulante, si rimise seduta, e disse: “Aspetta”.
“Perché aspetta ?” le domandai, fingendo di non capire o senza capire davvero. Non mi ricordo.
“Perché voglio parlare ancora. Io non sono…”  Disse in inglese una parola che non compresi. Le chiesi di ripeterla. “In latin is materia” spiegò. Io non sono materia.   
 

Bologna dies natalis Solis invicti ore 9, 38
Il Sole è nel visibile quello che è Dio nell’intellegibile.
Porta significazione della Mente dell’universo.
Di pomeriggio ci ha già donato 5 minuti della sua luce santa: dalle 16, 38 alle 16, 43. Io lo adoro sempre e oggi lo ringrazio per questa borsa di studio. Ora mi riscalda la gelida manina che riesce a scrivere anche senza il manicotto che non posso permettermi nella mia lieta povertà.

p. s.
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[1] Cfr. G. Leopardi, Dialogo della natura e di un islandese.
[2] Cfr. Dante, Inferno, VII, 33.
[3] La  Medea  di Euripide  individua nel suo animo  un conflitto tra la passione furente e i ragionamenti, quindi comprende che l'emotività, sebbene sia causa dei massimi mali, per gli uomini è più forte dei suoi propositi:" Kai; manqavnw me;n oi\\\a dra'n mevllw kakavqumo;" de; kreivsswn tw'n ejmw'n bouleumavtwn, o{sper megivstwn ai[tio" kakw'n brotoi'""( vv. 1078-1080), capisco quale abominio sto per compiere, ma più forte dei miei ragionamenti è la passione, che è causa dei mali più grandi per i mortali",  dirà la furente nel quinto episodio dopo avere preso la decisione folle di uccidere i figli .  
[4] Cfr Guido Gozzano,  Totò Merùmeni  (ossia il punitore di se stesso), v. 42.
[5] Cfr. R. Musil, L’uomo senza qualità. Verso il regno millenario.  “E sostengo che non vi è profonda felicità senza morale profonda”.
[6] Cfr. Esiodo, Opere e giorni, v.266.
[7] Cfr. Esiodo, Opere e giorni, v. 265.  Seneca ribadisce questa legge nell’ Hercules furens:" quod quisque fecit, patitur: auctorem scelus repetit " (vv. 735-736), ciò che ciascuno ha fatto lo patisce: il delitto ricade sull'autore. 
[8] La montagna incantata. V Notte di Valpurga.  Parlare francese è parlare senza parlare…senza responsabilità, oppure come parlare in sogno… quasi non parlo il francese. 

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