“Elena esige uno stile non pagliaccesco, vacillante o rumoroso, ma razionale,
dolce e sicuro. Perché quella donna è bella e ordinata. Una chiara fusione di
eros e logos.
Gianni, in questa confusione, ci sei solo tu, caro mio, di adatto, di congeniale a lei. Ragiona e ringrazia Dio, chiunque egli sia[1]. Ci sei solo tu. Altrimenti avrebbe accettato di ballare con altri. Invece è ancora seduta là. Anzi, ora ti ha perfino guardato. Ciao, sapessi quanto ti amo, odorosa creatura, tu ora mi mandi un profumo soave che mi consola dell’abbandono di poco fa.
Adesso calma, ghiselli, però, non fare il giannettaccio: se agisci con senno, se non perdi la testa o le lenti a contatto, se non ti ubriachi, non ti lasci andare a mangiare, non ti ingaglioffi andando a fare casino con gli altri, se non ti accontenti di un baccanale corrotto con una cialtrona qualunque, quella gran figa spirituale, quasi un ossimoro vivente, la becchi tu. E’ iscritta nel tuo destino. Lei può correggere le rotazioni della tua testa e armonizzarle con il giro delle stagioni, degli astri, del cosmo. Magnifica, magnifica. Splendore della sera di questo dì festoso. Un giorno solenne e verrà inciso nelle tavole degli Annali della tua vita.
Stai calmo però. Per oggi non invitarla più. Sì, ha accettato di ballare con te e ora ti ha anche guardato, non dico di no, per carità, ma adesso non invitarla. Dai retta. Sì, d’accordo è la tua femmina, ti è destinata ab aeterno , è della tua levatura, è cosmica, è una sintesi di natura e di spirito, è quello che ci vuole per te, e la tua brama infinita, stanne certo, coglierà il bersaglio : le sue mammelle ti nutriranno lo spirito e non solo, vedrai. Ma ora non fare l’idiota: adesso non devi tornare da lei con suppliche vischiose e inutili, da perfetto imbecille. La voglia è grande, quasi cannibalesca direi, ma la tua forza attuale è quella indecente di un affamato. Devi acquistarne altra con la riflessione. Ascolta il tuo demone, che poi sono io, non trasgredire. Devi riflettere. Ma riflettere al cubo[2].
Tempus tacendi. Devi prepararti un discorso colorito ma non superficiale, colto eppure originale, forte ma non arrogante, ricco di pathos senza essere querulo. Chi può darle tanto? Nessuno, a parte te. Anche tu sei un gran figo, se ce la metti tutta. Dai retta al tuo demone, non contaminarlo con l’impulsività delle bestie. Oggi non è andata benissimo ma la prossima volta vedrai: Cloto non permette alla sorte di stare ferma, anzi: fa girare ogni fato, rotat omne fatum se ricordo bene[3].
Proprio tutta però devi mettercela, gianni. Nemmeno all’inerzia devi lasciarti andare, neanche a cercarne una meno rara, preziosa, difficile.
Difficile, sì. Chiama a raccolta tutte le forze, le capacità, le arti angeliche e diaboliche in tuo possesso. Non fartene però travolgere come l’apprendista stregone.
Tra noi due ci sarà un supremo agone di natura fisica e mentale, una gara davvero olimpica. La vittoria di entrambi sarà l’unione, fisica e mistica, una gioiosa ierogamia. Questa volta non puoi sbagliare una sillaba, anzi nemmeno una virgola. Sarebbe una cosa poco pulita? No, sarebbe proprio tragica e mortale”.
Ondeggiavo tra il pessimismo, l’esaltazione e l’autocorrezione ironica del superomismo.
Dovevo provarci di nuovo, più avanti. Senza fretta funesta, fonte di calamità, e pure senza ozio cattivo, quello che lascia passare l’occasione, sempre “calva di dietro” purtroppo.
Il mese di Debrecen scorre via in fretta; l’intera vita umana è breve, e non è possibile rimetterla in gioco, come una pedina.
Sapevo che non potevo permettermi di sbagliare né di perdere tempo. Dovevo acciuffare, prendere per il ciuffo nel momento giusto l’occasione offertami dal destino.
Mi vennero in mente dei versi di Mimnermo:
" Ma di breve durata è come un sogno
la giovinezza preziosa; e la tremenda e deforme
vecchiaia subito sul capo è sospesa,
odiosa insieme e spregiata".
Quaranta anni più tardi, grande mortalis aevi spatium, una grossa porzione della vita mortale, nel luglio del 2011, sarei tornato a Debrecen, quasi vecchio oramai, tuttavia in bicicletta, con una pedalata di 1200 chilometri in 8 giorni, e avrei ricordato come un sogno quella sera, tutto quel mese della mia giovinezza preziosa, quando potei godere in pieno del favore degli dèi.
Intanto nell’attesa soffrivo, ma intuivo che la sofferenza portava intelligenza della situazione[4]. Se volevo interessarla, dovevo oltrepassare il personaggio che pure con grande sforzo e discreta soddisfazione avevo già raggiunto, senza però essere diventato una persona: in quel periodo lontano ero piuttosto contento di avere costruito in me stesso il giovane uomo non sgradevole, presunto elegante, con qualche nota di sprezzatura sovrana, dotato di alcune letture buone, di un’automobile simpatica, quasi originale per l’epoca, di denaro in quantità sufficiente per invitare a teatro e a cena una donna ogni tanto, e questo anche grazie ai mezzi che mi elargivano la vecchia nonna e le zie, le anziane tiranne, oramai domate e assunte a dispensiere generose del mio benessere materiale.
Ebbene Helena finnica, con il suo stile nobile e maturo, cosciente di sé, mi fece capire che nella mia umanità dovevo trovare qualcosa di meglio del dandy di provincia, del giovin signore che volevo sembrare e non ero. Avevo bisogno di una donna siffatta per diventare quello che sono. Avermi aiutato a trovare dentro di me una persona migliore, ossia più buona, più intelligente, autentica e più lieta del personaggio che cercavo in vari modelli esterni, non tutti degni di mimesi, è stato il grande dono suo.
Gliene sono grato ancora, dopo quaranta e più anni da quell’evento. Ci voleva quella creatura di nome e formato classico, Elena dalle braccia bianche come mandorle, dalle nitide chiome sciolte sul collo candido[5], per provocare una nuova maturazione mia a quasi ventisette anni: se non l’avessi incontrata, probabilmente avrei continuato per chissà quanto tempo a fare il ragazzo carino, piacente, quale ero diventato dopo anni di esercizio in tal senso: sorridente e un poco ridicolo, incipriato di alcune letture citate spesso, anche a sproposito, esibite pacchianamente come l’automobile strana, le magliette firmate, le scarpe di marca costosa, alternate con altre dalla suola bucata da comunista noncurante dell’abbigliamento, eppure domicilato in un appartamentino di lusso nella piazza centrale di Padova, una nicchia da fighetto. All’epoca ero, in qualche modo, fortunato, ma non certo felice. Difettavo di autenticità e di realtà. Mi atteggiavo a comunista, ad artista, ed ero solo un borghese sviato.
Da fighetto potevo trovare ragazze a loro volta carine, ma senza esigenze di stile davvero elegante, di pensiero profondo quale attribuivo a quella finnica che, conosciuta da poco, stava transvalutando, cioè rivoluzionando la mia scala di valori fasulli, piccolo borghesi e pure un tantino plebei.
La realtà era cosa più seria, moralmente più seria di me.
Dopo Elena, Kaisa e Päivi, il mio studio pieno di libri è diventato un regno abbastanza grande per me
C’erano diverse femmine appetibili quella sera di luglio, la ismerkedèsi est [6], nel grande cortile dell’Università, dove Eros ci aveva riuniti in tanti proprio per farci conoscere.
Alcune poi erano decisamente belle: ad esempio Katalin, la ragazza ungherese conosciuta nel ’68 , quando era ancora fanciulla diciottenne. Nel 1971 non era più tanto pulzella, né come esperienza né come atteggiamento: nel frattempo si era sposata. non bene, e quella sera sembrava avere voglia di cornificare il marito spregiato, e proprio con me, se non erravo nell’interpretare il tono aspro, cattivo, che usava con lui, e le occhiate incoraggianti, i caldi sorrisi ammiccanti che mi indirizzava. Avrei potuto vivere un’avventura piacevole e piccante con l’indigena venusta e procace, godere di quelle natiche belle, per giunta agghindate, da vera callipigia magiara, a debreceni Venus , la Venere di Debrecen veniva chiamata, ma costei non aveva nulla di fine, e io sentivo la necessità di Helena di Yväskylä per crescere ancora.
Katalin per giunta non era contenta di sé e alla mia crescita non serviva piacere a una donna che non piaceva a se stessa.
Così mi tenni impegnato per tutta la “sera della conoscenza” a studiare Helena, onde trovare in me le parole adatte per impressionarla, per lasciare un impronta nell’anima sua durante l’ incontro successivo. E magari pure un segno di trionfo in quel corpo bianco e ben fatto che adunava l’ordine e la bellezza del cosmo.
Sarebbe stato un trofeo e un’apoteosi. Riguardo a Katalin, che venne a invitarmi più di una volta, offrendomi anche un numero di telefono, non coniugale e domestico, bensì galeotto, cercai di prendere tempo, per vedere se prima di accettarne o rifiutarne l’oblazione, per niente sgradita, potevo avere una seconda occasione con l’altra, la femmina umana, anzi più che umana: nel mio sentimento Elena era piena di grazia, piena di Dio, foriera di un destino buono, del fato che, solo, era mio. Elena era, davvero, l’eterno femminino che doveva trarmi su, verso l’alto[7].
Annusavo come un cane dalle narici sagaci. Fiutavo una serie di eventi favorevoli, da non lasciarmi scappare. Contavo sulle capacità della mia mente e del mio carattere.
La luce del mio intelletto non doveva disperdersi, ma focalizzarsi su quella donna, illuminarla e scaldarla. La forza della mia intelligenza doveva manifestarsi diritta come un raggio di sole, o come una freccia scoccata da un arciere provetto, infallibile, e colpirla. Senza farle del male però.
“Il futuro verrà” mi dissi, ricordando Eschilo[8], e mi avviai verso la camera e il letto, da solo.
Salutai gli amici: “Avete ragione ragazzi, sono fissato con le finniche. Vado a letto in anticipo per pensare a quest’ultima senza essere disturbato da contubernali molesti quali voi siete. Buona notte”.
“Fai bene a pensarla da solo: spassatela da solo, tanto quella non guzza con te!”, ripeté Claudio battendo sul tavolo il suo pugno freddo, mentre un sorriso carnivoro gli deformava il volto.
Un augurio sinistro che non mi smontò, anzi ravvivò il mio desiderio di Helena.
“Tanto meno con te!”, mormorai.
Poi a voce alta dissi: “Tu Claudio ora per me sei e{n ti tw`n ajdiafovrwn[9], una cosa di quelle indifferenti, di cui non tengo alcun conto. Comunque la bellezza non subisce decreti sulla piazza volgare del mercato.”.
Uscii e mentre passavo accanto alla fontana, variopinta, illuminata da luci colorate pensai: “il successo delle prossime mosse mi aiuterà a trovare la via della mia vita. Non sono un sapiente, ma alcune cose le so. La sfiga non passerà”. E alzai il pugno chiuso.
Andai a letto. Ero solo e sospiroso, ma il guanciale non era pieno di sassi[10]. Né conteneva uno zoccolo di giumenta [11]. “E’ la vita che imita l’arte, pensai, non l’arte la vita[12]. Ora è la vita di Elena che imita l’arte e io devo inserirmi nella sua vita bella come un opera d’arte per essere felice e magari scrivere un capolavoro”
Mi addormentai speranzoso. Abbastanza.
Bologna 17 dicembre 2022 ore 11, 15
giovanni ghiselli
p. s.
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Oggi77
Ieri241
Questo mese4882
Il mese scorso8344
[1] Cfr. Eschilo, Agamennone 160 e le Troiane di Euripide, 885.
[2] Cfr. Vladimir Nabokov, Il dono, p. 23.
[3] Cfr. Seneca, Tieste, 617-618: prohibetque Clotho –stare fortunam: rotat omne fatum.
[4] Cfr. Eschilo, Agamennone 177 tw` pavqei mavqo~, attraverso il dolore la comprensione. Poi Ovidio: “Dolor hic tibi proderit olim” (Amores, III, 11, 7) Un giorno questo dolore ti sarà utile.
[5] Cfr. Virgilio, Georgica IV, 334 e 337: Nymphae…caesariem effusae nitidam per candida colla.
[6] La sera della conoscenza
[7] Sono le ultime parole del Faust di Goethe: Das Ewigweibliche - Zieht uns hinan ”.
[8] Cfr. l’'Agamennone: "to; mevllon h{xei" (v. 1240), il futuro verrà.
[9] Cfr. Marco Aurelio, A se stesso V, 20.
[10] Cfr. Euripide, Troiane, 508.
[11] Saxo Grammaticus,Gesta Danorum, 3, 6, 11.
[12] Cfr La decadenza della menzogna di Oscar Wilde.
Gianni, in questa confusione, ci sei solo tu, caro mio, di adatto, di congeniale a lei. Ragiona e ringrazia Dio, chiunque egli sia[1]. Ci sei solo tu. Altrimenti avrebbe accettato di ballare con altri. Invece è ancora seduta là. Anzi, ora ti ha perfino guardato. Ciao, sapessi quanto ti amo, odorosa creatura, tu ora mi mandi un profumo soave che mi consola dell’abbandono di poco fa.
Adesso calma, ghiselli, però, non fare il giannettaccio: se agisci con senno, se non perdi la testa o le lenti a contatto, se non ti ubriachi, non ti lasci andare a mangiare, non ti ingaglioffi andando a fare casino con gli altri, se non ti accontenti di un baccanale corrotto con una cialtrona qualunque, quella gran figa spirituale, quasi un ossimoro vivente, la becchi tu. E’ iscritta nel tuo destino. Lei può correggere le rotazioni della tua testa e armonizzarle con il giro delle stagioni, degli astri, del cosmo. Magnifica, magnifica. Splendore della sera di questo dì festoso. Un giorno solenne e verrà inciso nelle tavole degli Annali della tua vita.
Stai calmo però. Per oggi non invitarla più. Sì, ha accettato di ballare con te e ora ti ha anche guardato, non dico di no, per carità, ma adesso non invitarla. Dai retta. Sì, d’accordo è la tua femmina, ti è destinata ab aeterno , è della tua levatura, è cosmica, è una sintesi di natura e di spirito, è quello che ci vuole per te, e la tua brama infinita, stanne certo, coglierà il bersaglio : le sue mammelle ti nutriranno lo spirito e non solo, vedrai. Ma ora non fare l’idiota: adesso non devi tornare da lei con suppliche vischiose e inutili, da perfetto imbecille. La voglia è grande, quasi cannibalesca direi, ma la tua forza attuale è quella indecente di un affamato. Devi acquistarne altra con la riflessione. Ascolta il tuo demone, che poi sono io, non trasgredire. Devi riflettere. Ma riflettere al cubo[2].
Tempus tacendi. Devi prepararti un discorso colorito ma non superficiale, colto eppure originale, forte ma non arrogante, ricco di pathos senza essere querulo. Chi può darle tanto? Nessuno, a parte te. Anche tu sei un gran figo, se ce la metti tutta. Dai retta al tuo demone, non contaminarlo con l’impulsività delle bestie. Oggi non è andata benissimo ma la prossima volta vedrai: Cloto non permette alla sorte di stare ferma, anzi: fa girare ogni fato, rotat omne fatum se ricordo bene[3].
Proprio tutta però devi mettercela, gianni. Nemmeno all’inerzia devi lasciarti andare, neanche a cercarne una meno rara, preziosa, difficile.
Difficile, sì. Chiama a raccolta tutte le forze, le capacità, le arti angeliche e diaboliche in tuo possesso. Non fartene però travolgere come l’apprendista stregone.
Tra noi due ci sarà un supremo agone di natura fisica e mentale, una gara davvero olimpica. La vittoria di entrambi sarà l’unione, fisica e mistica, una gioiosa ierogamia. Questa volta non puoi sbagliare una sillaba, anzi nemmeno una virgola. Sarebbe una cosa poco pulita? No, sarebbe proprio tragica e mortale”.
Ondeggiavo tra il pessimismo, l’esaltazione e l’autocorrezione ironica del superomismo.
Dovevo provarci di nuovo, più avanti. Senza fretta funesta, fonte di calamità, e pure senza ozio cattivo, quello che lascia passare l’occasione, sempre “calva di dietro” purtroppo.
Il mese di Debrecen scorre via in fretta; l’intera vita umana è breve, e non è possibile rimetterla in gioco, come una pedina.
Sapevo che non potevo permettermi di sbagliare né di perdere tempo. Dovevo acciuffare, prendere per il ciuffo nel momento giusto l’occasione offertami dal destino.
Mi vennero in mente dei versi di Mimnermo:
" Ma di breve durata è come un sogno
la giovinezza preziosa; e la tremenda e deforme
vecchiaia subito sul capo è sospesa,
odiosa insieme e spregiata".
Quaranta anni più tardi, grande mortalis aevi spatium, una grossa porzione della vita mortale, nel luglio del 2011, sarei tornato a Debrecen, quasi vecchio oramai, tuttavia in bicicletta, con una pedalata di 1200 chilometri in 8 giorni, e avrei ricordato come un sogno quella sera, tutto quel mese della mia giovinezza preziosa, quando potei godere in pieno del favore degli dèi.
Intanto nell’attesa soffrivo, ma intuivo che la sofferenza portava intelligenza della situazione[4]. Se volevo interessarla, dovevo oltrepassare il personaggio che pure con grande sforzo e discreta soddisfazione avevo già raggiunto, senza però essere diventato una persona: in quel periodo lontano ero piuttosto contento di avere costruito in me stesso il giovane uomo non sgradevole, presunto elegante, con qualche nota di sprezzatura sovrana, dotato di alcune letture buone, di un’automobile simpatica, quasi originale per l’epoca, di denaro in quantità sufficiente per invitare a teatro e a cena una donna ogni tanto, e questo anche grazie ai mezzi che mi elargivano la vecchia nonna e le zie, le anziane tiranne, oramai domate e assunte a dispensiere generose del mio benessere materiale.
Ebbene Helena finnica, con il suo stile nobile e maturo, cosciente di sé, mi fece capire che nella mia umanità dovevo trovare qualcosa di meglio del dandy di provincia, del giovin signore che volevo sembrare e non ero. Avevo bisogno di una donna siffatta per diventare quello che sono. Avermi aiutato a trovare dentro di me una persona migliore, ossia più buona, più intelligente, autentica e più lieta del personaggio che cercavo in vari modelli esterni, non tutti degni di mimesi, è stato il grande dono suo.
Gliene sono grato ancora, dopo quaranta e più anni da quell’evento. Ci voleva quella creatura di nome e formato classico, Elena dalle braccia bianche come mandorle, dalle nitide chiome sciolte sul collo candido[5], per provocare una nuova maturazione mia a quasi ventisette anni: se non l’avessi incontrata, probabilmente avrei continuato per chissà quanto tempo a fare il ragazzo carino, piacente, quale ero diventato dopo anni di esercizio in tal senso: sorridente e un poco ridicolo, incipriato di alcune letture citate spesso, anche a sproposito, esibite pacchianamente come l’automobile strana, le magliette firmate, le scarpe di marca costosa, alternate con altre dalla suola bucata da comunista noncurante dell’abbigliamento, eppure domicilato in un appartamentino di lusso nella piazza centrale di Padova, una nicchia da fighetto. All’epoca ero, in qualche modo, fortunato, ma non certo felice. Difettavo di autenticità e di realtà. Mi atteggiavo a comunista, ad artista, ed ero solo un borghese sviato.
Da fighetto potevo trovare ragazze a loro volta carine, ma senza esigenze di stile davvero elegante, di pensiero profondo quale attribuivo a quella finnica che, conosciuta da poco, stava transvalutando, cioè rivoluzionando la mia scala di valori fasulli, piccolo borghesi e pure un tantino plebei.
La realtà era cosa più seria, moralmente più seria di me.
Dopo Elena, Kaisa e Päivi, il mio studio pieno di libri è diventato un regno abbastanza grande per me
C’erano diverse femmine appetibili quella sera di luglio, la ismerkedèsi est [6], nel grande cortile dell’Università, dove Eros ci aveva riuniti in tanti proprio per farci conoscere.
Alcune poi erano decisamente belle: ad esempio Katalin, la ragazza ungherese conosciuta nel ’68 , quando era ancora fanciulla diciottenne. Nel 1971 non era più tanto pulzella, né come esperienza né come atteggiamento: nel frattempo si era sposata. non bene, e quella sera sembrava avere voglia di cornificare il marito spregiato, e proprio con me, se non erravo nell’interpretare il tono aspro, cattivo, che usava con lui, e le occhiate incoraggianti, i caldi sorrisi ammiccanti che mi indirizzava. Avrei potuto vivere un’avventura piacevole e piccante con l’indigena venusta e procace, godere di quelle natiche belle, per giunta agghindate, da vera callipigia magiara, a debreceni Venus , la Venere di Debrecen veniva chiamata, ma costei non aveva nulla di fine, e io sentivo la necessità di Helena di Yväskylä per crescere ancora.
Katalin per giunta non era contenta di sé e alla mia crescita non serviva piacere a una donna che non piaceva a se stessa.
Così mi tenni impegnato per tutta la “sera della conoscenza” a studiare Helena, onde trovare in me le parole adatte per impressionarla, per lasciare un impronta nell’anima sua durante l’ incontro successivo. E magari pure un segno di trionfo in quel corpo bianco e ben fatto che adunava l’ordine e la bellezza del cosmo.
Sarebbe stato un trofeo e un’apoteosi. Riguardo a Katalin, che venne a invitarmi più di una volta, offrendomi anche un numero di telefono, non coniugale e domestico, bensì galeotto, cercai di prendere tempo, per vedere se prima di accettarne o rifiutarne l’oblazione, per niente sgradita, potevo avere una seconda occasione con l’altra, la femmina umana, anzi più che umana: nel mio sentimento Elena era piena di grazia, piena di Dio, foriera di un destino buono, del fato che, solo, era mio. Elena era, davvero, l’eterno femminino che doveva trarmi su, verso l’alto[7].
Annusavo come un cane dalle narici sagaci. Fiutavo una serie di eventi favorevoli, da non lasciarmi scappare. Contavo sulle capacità della mia mente e del mio carattere.
La luce del mio intelletto non doveva disperdersi, ma focalizzarsi su quella donna, illuminarla e scaldarla. La forza della mia intelligenza doveva manifestarsi diritta come un raggio di sole, o come una freccia scoccata da un arciere provetto, infallibile, e colpirla. Senza farle del male però.
“Il futuro verrà” mi dissi, ricordando Eschilo[8], e mi avviai verso la camera e il letto, da solo.
Salutai gli amici: “Avete ragione ragazzi, sono fissato con le finniche. Vado a letto in anticipo per pensare a quest’ultima senza essere disturbato da contubernali molesti quali voi siete. Buona notte”.
“Fai bene a pensarla da solo: spassatela da solo, tanto quella non guzza con te!”, ripeté Claudio battendo sul tavolo il suo pugno freddo, mentre un sorriso carnivoro gli deformava il volto.
Un augurio sinistro che non mi smontò, anzi ravvivò il mio desiderio di Helena.
“Tanto meno con te!”, mormorai.
Poi a voce alta dissi: “Tu Claudio ora per me sei e{n ti tw`n ajdiafovrwn[9], una cosa di quelle indifferenti, di cui non tengo alcun conto. Comunque la bellezza non subisce decreti sulla piazza volgare del mercato.”.
Uscii e mentre passavo accanto alla fontana, variopinta, illuminata da luci colorate pensai: “il successo delle prossime mosse mi aiuterà a trovare la via della mia vita. Non sono un sapiente, ma alcune cose le so. La sfiga non passerà”. E alzai il pugno chiuso.
Andai a letto. Ero solo e sospiroso, ma il guanciale non era pieno di sassi[10]. Né conteneva uno zoccolo di giumenta [11]. “E’ la vita che imita l’arte, pensai, non l’arte la vita[12]. Ora è la vita di Elena che imita l’arte e io devo inserirmi nella sua vita bella come un opera d’arte per essere felice e magari scrivere un capolavoro”
Mi addormentai speranzoso. Abbastanza.
Bologna 17 dicembre 2022 ore 11, 15
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Sempre1303192
Oggi77
Ieri241
Questo mese4882
Il mese scorso8344
[1] Cfr. Eschilo, Agamennone 160 e le Troiane di Euripide, 885.
[2] Cfr. Vladimir Nabokov, Il dono, p. 23.
[3] Cfr. Seneca, Tieste, 617-618: prohibetque Clotho –stare fortunam: rotat omne fatum.
[4] Cfr. Eschilo, Agamennone 177 tw` pavqei mavqo~, attraverso il dolore la comprensione. Poi Ovidio: “Dolor hic tibi proderit olim” (Amores, III, 11, 7) Un giorno questo dolore ti sarà utile.
[5] Cfr. Virgilio, Georgica IV, 334 e 337: Nymphae…caesariem effusae nitidam per candida colla.
[6] La sera della conoscenza
[7] Sono le ultime parole del Faust di Goethe: Das Ewigweibliche - Zieht uns hinan ”.
[8] Cfr. l’'Agamennone: "to; mevllon h{xei" (v. 1240), il futuro verrà.
[9] Cfr. Marco Aurelio, A se stesso V, 20.
[10] Cfr. Euripide, Troiane, 508.
[11] Saxo Grammaticus,Gesta Danorum, 3, 6, 11.
[12] Cfr La decadenza della menzogna di Oscar Wilde.
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