lunedì 12 dicembre 2022

Il 1969. 4. Il viaggio del giovane chiamato a insegnare

Il viaggio del giovane chiamato a insegnare
Ottobre del 1969
L’apprensione del viaggio malinconico  verso la vita lavorativa   
Nelle vicende c’è qualche cosa che si ripete ciclica mente
 
Il 28 ottobre del 1969 ricevetti la nomina di professore di Lettere a tempo indeterminato nella scuola media Ugo Foscolo di Carmignano di Brenta, un altro paese dal nome lungo, in provincia di Padova.
Ricordate Hajdúszoboszló quello dal nome lungo poco prima di Debrecen? Lo  avevo attraversato trepido e angosciato tre anni e 4 mesi prima.
 Non avevo idea di dove precisamente fosse Carmignano, come nel 1966 non sapevo dove fosse Debrecen.
 Ma sapevo che il destino mi stava aprendo un’altra porta e non esitai a partire per la nuova meta fatale. La mamma provò a dirmi che, se volevo, mi avrebbe  mantenuto a Roma dove avrei potuto studiare in una scuola di regìa. Mi fece piacere, però mi parve cosa troppo vaga e insicura. Non destinata a me dunque. In fondo avevo studiato per insegnare e mi elo laureato con la lode. Sicché partìi da Pesaro alle due del pomeriggio.
Era una bella giornata, ancora tipica di ottobre: dolce, quasi serena: con il cielo appena velato. Quando fui nell’autostrada dentro la Mini Minor carica di libri e bagagli, mi invase il timore di iniziare un viaggio verso la malinconia e la vecchiaia, in direzione di un triste tramonto piuttosto che per una nuova fase di vita più responsabile e attiva. Avrei varcato porte che non si sarebbero aperte mai più?

A Bologna l’occhio del giorno era già declinato parecchio nel rosa-grigio del cielo; a Ferrara, verso le cinque, si trovava vicino alle foglie vizze degli alberi e mi fece venire in mente un aggeggio rotondo, il piumino, con cui la madre mia si spargeva cipria sulle guance ormai stanche. Sicché il cielo intorno al sole mi pareva la carne incipriata di una donna non più giovane né sicura di piacere, sebbene di fatto ancora attraente.
Ho sempre trovato bella la mamma, anche molti decenni più tardi.
Ricordo questo viaggio perché me ne tornano ancora in mente le speranze e le paure come da quello di tre anni e quattro mesi prima, quando, anche allora partito da Pesaro e diretto a Nord-est, andavo in cerca di una vita nuova. Tutte e due le volte sulla speranza predominava la paura. In questa replica magari al terrore era subentrata l’apprensione. Ero un po’ maturato ma dopo tutto non avevo ancora compiuto 25 anni.
Dovevo ancora fare il servizio militare rimandato a oltranza.

L’aria a occidente era rosa e farinosa proprio come una cipria che imbellettava il cielo, quindi scendeva appesantita dall’umidità e truccava la terra senza però riuscire a nasconderne i solchi, le rughe, le cicatrici conseguenze dei parti numerosi e dolorosi che avevano sfinito la grande madre esaurendo la sua potenza generativa.
Dopo Ferrara, il dio da arancione divenne rosso sangue, quindi si scolorì, mentre anche l’aria, la terra e le acque si stingevano e diventavano grigie, anemiche, spente come la faccia di un umano malato a morte. Intorno alle sei il sole si assimilò a quel grigiore, quindi scomparve. Subito dopo cominciò a  fluttuare una nebbia leggera che confondeva e uniformava tutte le cose. Stava chiudendosi l’oscura palpebra della notte [1].
A San Pelagio, l’ultimo distributore prima di Padova, mi fermai.
Uscito dalla macchina sentii gridare con voce acuta e strozzata un uccello che annunciava la lunga stagione del freddo, del buio, della mia solitudine in un paese sconosciuto, lontano.   Per chissà quanto tempo. La nomina del provveditorato di Padova infatti era “a tempo indeterminato”.
Un a[peiron che  oggi fare felice un giovane laureato ma allora Fulvio fu nominato subito a Parma. Né lo invidiavo. Io del resto venivo da una famiglia legata alla terra e non avevo il padre professore di filosofia nel liceo. Ero contento per lui. Era diventato il mio migliore amico.

Il grido dell’uccello però mi parve sinistramente ominoso e mi si strinse il cuore. Mi confortai osservando le  foglie gialle  del granoturco che suscitarono nella mia mente il ricordo delle estati ungheresi con gli amici, le donne, la puszta, la luce, il calore.
Aprìi la carta stradale e la appoggiai su un muretto. Allora un gatto nero, macchiato di bianco sulla testa, verdi gli occhi, ossia con i colori simili a quelli della madre mia che, cinquantaseienne, iniziava a incanutirsi, venne a strofinare la schiena sulle mie gambe, quindi saltò sul muretto e mi accarezzò la mano destra con la fronte screziata, più volte. A un tratto si fermò e si mise a fissarmi. Sembrava chiedermi aiuto e affetto, ma io dovevo usare per me tutto quello che avevo, così solo al mondo, onde farmi coraggio e proseguire verso la vita arcana che mi aspettava e non era tanto bene auspicata. Ma neanche malissimo: l’accentuata decadenza della stagione era dolce, e se l'inverno era vicino, nemmeno la primavera poteva essere troppo lontana, il gatto era nero ma variopinto con il bianco e il verde, comunque era una creatura viva e bella e attirata da me, fiduciosa di me. Un giorno probabilmente avrei suscitato attrazione e fiducia in viventi razionali, in giovani donne sensibili e intelligenti, speravo. Avevo ripreso coraggio perché dovevo proseguire sulla mia strada, con metodo.
 

Bologna 12 dicembre 2022 ore 19, 41
giovanni ghiselli

p. s
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1Cfr. Euripide, Fenicie, 543

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