Elena a un tratto scostò la testa dalla mia mano, lentamente e guardandomi con occhi luminosi di pathos, come se mi chiedesse, speravo, di accarezzarle il cuore, ossia, più realisticamente, il seno opulento invece dei capelli corvini. Mi osservava con uno sguardo espressivo di simpatia mista di apprensione che presi per impazienza del mio ritardare.
Io intanto pensavo. “Ci innamoriamo di una persona quando riconosciamo in lei uno dei nostri miti. Elena per me significa la donna perfetta, completa, quella per cui non è nemesi impiegare tutte le proprie forze, e mi fa venire in mente per giunta la mamma tanto bella quanto lontana e irraggiungibile. Voglio arrivare a lei, scavalcando tutti gli ostacoli. Devo fare pressione su questa reincarnazione della figlia di Zeus e sulla natura perché mi riveli i suoi propositi arcani”
Quindi le domandai: “Perché mi trovi intelligente? Forse qualche cosa capisco però non credo di avertelo già dimostrato”
“Io l’ho compreso da quello che dici, da quello che non dici, da come ti muovi, da come mi sei riuscito simpatico. Tu sei diverso dagli altri, da quelli che giocano con il cuore delle persone e cercano di ingannarle con le menzogne. Ho notato subito che tu sei fuori posto con loro. Per questo mi sei piaciuto. Poi ho gradito il tuo corteggiamento intelligente e la mia stima è cresciuta. Forse non dovrei dirtelo, ma comincio a provare sentimenti forti e profondi per te”
Pensai che era giunto il momento di allargare la fenditura che avevamo aperto nella zona convessa del primo incontro. Dovevo consacrare l’ipotesi del concubitus con il mito dell’uscita dalla caverna, o con quello dell’amore che fa spuntare le ali elevando gli amanti nella luce iperurania della vera realtà.
Ero davvero convinto che il Fato voleva il nostro connubio se lo aveva inserito, come sembrava, nella serie delle cause che, pur attraverso difficoltà e travagli, conducono alla felicità, alla forma di devozione più alta, alla pietas vera.
Sicché ricominciai: “Io credo che sia stato un demone buono, un destino favorevole quello che ci ha fatto incontrare e ci spinge all’amore: probabilmente tu ed io siamo due spezzoni, metà e segni di riconoscimento di una persona una volta completa, poi dimidiata perché troppo forte, come racconta il personaggio Aristofane nel Simposio di Platone.
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“Se ora ci riuniamo, recuperiamo quell’interezza di cui sentiamo entrambi la nostalgia struggente, quindi potremo raggiungere una felicità di poco inferiore a quella divina1. Sento che se accoglierai il mio amore, Elena cara, non mi mancherà nulla nella vita e non potrò più fallire. Con te diventerò più contento, più buono e più somigliante all’uomo che davvero sono. Se anche tu senti questo per te e per me, non opporti a tale sentimento buono. Sarebbe come spengere una di quelle luci lassù, come negare l’ordine e l’armonia dei circuiti celesti.
Non c’è la più piccola sfera, tra quante ne vedremo sopra la testa tornando in collegio, che nel suo moto non canti angelicamente2 e non si intoni con l’amore che proviamo noi l’uno per l’altra”.
Recitavo bene la parte dell’innamorato perché la sentivo e la dovevo tanto a lei quanto a me stesso. Senza il successo di questa scena recitata a Elena nel teatro della grande foresta di Debrecen infatti la mia vita sarebbe stata indegna di me. Le mie parole sincere e pure sofisticate da fuchi e calamistri, da ornamenti ascitizi3 come citazioni e reminiscenze, ognuno dei mie accorgimenti dopo tutto stavano conducendomi alla spontaneità e al mio essere genuino se il risultato finale era, come speravo, diventare quello che sono al meglio di me, e compiere il mio destino realmente stabilito ab aeterno. Difatti con questo amore sarei diventato una persona migliore, più forte, più buona e più reale che se fossi rimasto privo della comunione santa con Elena.
Note
1Cfr. Leopardi, Storia del genere umano: “la felicità che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla divina”. Probabilmente ricordavo proprio queste parole di Leopardi perorando la causa di quell’amore capitale.
2 Cfr. Shakespeare, Il mercante di Venezia, V, 1, 60-61.
3 Cfr. Leopardi: “E Socrate stesso, l'amico del vero, il bello e casto parlatore, l'odiator de' calamistri e de' fuchi e d'ogni ornamento ascitizio e d'ogni affettazione, che altro era ne' suoi concetti se non un sofista niente meno di quelli da lui derisi?” (Zibaldone, 3474).
Le parole difficili sono latinismi: calamistrum, è un ferro per arricciare i capelli. Fuco da fucus, e una “tintura rossa”, e ascitizio “aggiunto” che viene da ascisco, “annetto.
Bologna 6 giugno maggio 2023 giovanni ghiselli ore 12, 32.
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