La sposa e l'amante infelice.
Deianira: la ragazza ossessionata dai mostri.
Sofocle e Ovidio.
L'assimilazione della donna alla terra .
Il tovpo" del paragone tra l'essere umano desolato e l' uccello dolente.
Il correlativo oggettivo.
Makarismov" degli uccelli. Aristofane e Leopardi.
Antigone, la sposa e madre mancata per ragioni politiche.
L'uomo desolato e dolente come l'usignolo: Orfeo della IV Georgica e il poeta elegiaco. Di nuovo la donna:Tess di T. Hardy.
La violenza:il mito di Procne, Filomela, Tereo. Il metodo mitico.
La rondine come segno ambiguo.
Il Pervigilium Veneris Macbeth e Petrarca
Nelle Trachinie di Sofocle (databili fra il 438 e il 429) la moglie infelice è Deianira, la sposa dell'infedele Eracle. Sin da ragazza, quando abitava con il padre, ebbe una dolorosissima paura delle nozze (v. 7-8). Infatti ricorda:"Mnhsth;r ga;r h'jn moi potamov", jAcelw'/on levgw" (v. 9), il mio pretendente era un fiume, dico l'Acheloo. Insomma era corteggiata da un mostro.
E' vero che Acheloo avrebbe potuto pensare, come Lucio, trasformato in asino e in procinto di avere un rapporto sessuale con una donna, di non essere comunque peggiore del ganzo di Pasife[1], ma questa ragazza di Sofocle non gradiva tal genere di amanti, e forse avrebbe considerato il Minotauro, il mostro , "conceptum crimine matris/semibovemque virum semivirumque bovem "[2], concepito dal crimine della madre, ossia Pasife, l'uomo semibove e il bove semiuomo, al pari di Virgilio "Veneris monimenta nefandae ", (Eneide , VI, 26), ricordo di una Venere infame.
Ma torniamo a Deianira e sentiamo sentiamo U. Albini: "Deianira appartiene ancora, in qualche modo, al regno dei mostri: è stata richiesta in sposa da uno di essi, desiderata da un altro[3], che l'ha toccata, che si confida con lei e ne fa una sua complice. E nella lotta contro Acheloo, Eracle ha fattezze ferine (v. 517 ss.). Da questo bestiario, che ha conservato in sé come orrore e come fremito, Deianira non potrà uscire"[4]. La lotta da cui Eracle esce vincente è un fragore di mani, di archi di corna taurine insieme confuse (Trachinie , 517-518).
La Deianira delle Heroides [5] di Ovidio, lontana da Eracle occupato a inseguire terribili fiere, e altre donne, è ossessionata dal pensiero dei mostri con i quali il marito deve lottare:"inter serpentes aprosque avidosque leones/iactor et haesuros terna per ora canes " (IX, 39-40), mi aggiro tra serpenti e cinghiali e leoni bramosi, e cani[6] pronti ad attaccarsi con tre bocche. Senza contare gli amori con le straniere:" peregrinos addis amores "(v. 49)
All'inizio del dramma di Sofocle, la moglie lasciata sola per quindici mesi lamenta l'assenteismo coniugale di Eracle il quale, come eroe, è impegnatissimo, ma come marito si comporta alla pari di un colono che, avendo preso un campo lontano (a[rouran e[ktopon labwvn, v. 32) va a vederlo solo un paio di volte all'anno, una quando semina e una quando miete:"speivrwn movnon prosei'de kajxamw'n[7] a{pax,", (v.33).
Pure Eracle dunque è stato un pretendente mostro poiché ha dimenticato Deianira.
Il mnhsthvr compiuto infatti deve essere dotato di memoria , mnhvmh , che deriva dalla stessa radice mnh-/mna , come pure mnavomai, penso, e quindi non può non pensare alla donna che corteggia, mentre l'eroe della stirpe dorica la utilizza come animale riproduttivo, anzi come terra arabile (a[roura).
A questo proposito è interessante un excursus sull 'assimilazione della donna alla terra.
Mircea Eliade nel suo Trattato di storia delle religioni scrive:"L'assimilazione fra donna e solco arato, atto generatore e lavoro agricolo, è intuizione arcaica e molto diffusa" (p. 265). A sostegno di questa affermazione cita diversi testi, tra i quali l'Edipo re ( "pw'" poq& aiJ patrw'/aiv s j a[loke" fevrein, tavla", si'g& ejdunavqhsan ej" tosonde;", vv. 1211-1213, come mai i solchi paterni- ossia già seminati dal padre- poterono, infelice, sopportarti fino a tanto silenzio?), e i versi delle Trachinie (32-33) ricordati sopra.
Per quanto riguarda l'identificazione più precisa della donna con il solco, Eliade cita il Codice di Manu (IX,33) dove sta scritto:"La donna può essere considerata come un campo; il maschio come il seme"; inoltre un proverbio finlandese che fa:"Le ragazze hanno il campo nel loro corpo". A queste testimonianze possono essere aggiunte altre, antiche e moderne, per mostrare quanto tale idea sia davvero diffusa nella mente umana, soprattutto in quella maschile.
Eschilo ne I sette a Tebe (vv.751 e sgg.) dice, riferendosi a Laio, che egli fece nascere il destino per sé, Edipo parricida, il quale a sua volta osò seminare il sacro solco della madre dove fu generato (matro;" aJgna;n-speivra" a[rouran, iJvn& ejtravfh), e la pazzia unì gli sposi dementi.
Tale assimilazione serve ad alcuni personaggi tragici per svalutare la figura materna.
Euripide nelle Fenicie (del 410) riprende, fecendo delle varianti, l'argomento della tragedia di Eschilo e ricorda, attraverso Giocasta, il responso di Febo che prescrisse a Laio:"mh; spei're tevknwn a[loka daimovnwn biva/" (v. 18), non seminare il solco dei figli a dispetto degli dèi, e il suo Oreste (del 408) usa questo tovpo" per attenuare la colpa del matricidio: dice al nonno materno che il padre lo generò, mentre la madre non ha fatto che partorirlo: ella è stata solo il campo arato che ha preso il seme da un altro:"to; sperm& a[roura paralabous& a[llou pavra" (v. 553).
E' la stessa ragione addotta da Apollo nelle Eumenidi (del 458) di Eschilo per minimizzare il delitto del matricida:"La cosiddetta madre non è la generatrice del figlio (tevknou tokeuv")/ma la nutrice del feto appena seminato (trofo;" de; kuvmato" neospovrou)/ il maschio che la monta genera; quella è come un ospite con un ospite"(658-660).
La madre non è indispensabile continua Febo:"ne è qui testimone la figlia di Zeus Olimpio/la quale non venne nutrita nelle tenebre di un utero,/ma è come un virgulto che nessuna dea avrebbe potuto partorire"(664-666).
In questi tre versi si vede la paura dell'uomo per l'oscurità della donna che è poi la zona oscura di se stesso, la propria parte femminile.
Tra gli autori latini Lucrezio (94-50ca a. C.), forse sotto la scorta di Euripide[8] interpreta la "deum mater " (II, 659), come la divinizzazione della terra[9]. Questa parentela stretta tra la femmina umana (o divina) e la terra, è messa in rilievo anche da non pochi autori moderni.
Kierkegaard nel Diario del seduttore (1843) indica e sottolinea la vicinanza della ragazza alla natura:" ella è come un fiore, piace dire ai poeti, e perfino quel che in lei c'è di spirituale ha alcunché di vegetativo"(p.138) .
Su questa linea si trova anche J. J. Bachofen, l'autore di Das Mutterrecht [10] (1861), che vede nel matriarcato il prevalere del diritto naturale, e nel patriarcato di quello positivo, in quanto "la donna è la terra stessa. La donna è il principio materiale, l'uomo è il principio spirituale...Platone nel Menesseno (238a) dice-non è la terra a imitare la donna, ma la donna a imitare la terra-".
Del resto non bisogna dimenticare che, se nel Menesseno Platone (427-347 a. C.) scrive (precisamente) :"ouj ga;r gh' gunai'ka memivmhtai kuhvsei kai; gennhvsei (nella gravidanza e nel parto), ajlla; gunh; gh'n", nel Menone il filosofo ateniese afferma che tutta la natura è imparentata con se stessa (th'" fuvsew" aJpavsh" suggenou'" ou[sh", 81d) e, dunque, anche l'uomo è stretto parente della grande madre e della natura in genere.
Tant'è vero che Saffo (VII-VI sec. a. C.) in un frammento di epitalamio paragona lo sposo a un giovane ramo flessibile:"A chi, caro sposo, posso paragonarti bene?/A un ramoscello flessibile ti paragono benissimo" fr. 127D..
Tale tovpo", espresso con qualche benevolenza verso le femmine umane dal filosofo danese e in maniera ambivalente, non priva di contraddizioni da Bachofen, assume aspetto malevolo, decisamente antifemminista in Otto Weininger, l'autore di Sesso e carattere, morto, forse non a caso, suicida nel 1903, a soli ventitré anni. Secondo lo scrittore austriaco " le donne stanno incosciamente più vicine alla natura che non l'uomo. I fiori sono i loro fratelli"(p.293); e, più avanti (p.296), :"l'uomo è forma, la donna è materia...la materia vuole essere formata: perciò la donna pretende dall'uomo la delucidazione dei suoi pensieri confusi".
Può sembrare offensiva questa idea della naturalezza della donna , eppure Odisseo elogia Nausicaa in modo da lei gradito dicendole:"Non ancora infatti una tale creatura io vidi con gli occhi/,né uomo né donna: venerazione mi prende a guardarti./Invero una volta a Delo presso l'altare di Apollo siffatto/ vidi alzarsi un nuovo virgulto di palma" (foivniko" nevon e[rno", Odissea VI, vv. 160-163)
.Si può continuare la rassegna, certo parziale e limitata, con un altro autore austriaco, uno dei massimi del Novecento, Robert Musil (1880-1942) che, nel romanzo L'uomo senza qualità , compie l'operazione inversa: assimila la terra alla donna. "Ulrich la trattenne e le mostrò il paesaggio.-Mille e mille anni fa questo era un ghiacciaio. Anche la terra non è con tutta l'anima quello che momentaneamente finge di essere-egli spiegò-. Questa creatura tondeggiante è di temperamento isterico. Oggi recita la parte della provvida madre borghese. A quei tempi invece era frigida e gelida come una ragazza maligna. E migliaia di anni prima si era comportata lascivamente, con foreste di felci arboree, paludi ardenti e animali diabolici"( p.279).
Procedo citando D'Annunzio: nel romanzo Il Piacere (1889) Andrea Sperelli dichiara che "fra i mesi neutri" aprile e settembre preferisce il secondo in quanto "più feminino...E la terra?-aggiunge- Non so perché, guardando un paese, di questo tempo, penso sempre a una una bella donna che abbia partorito e che si riposi in un letto bianco, sorridendo d'un sorriso attonito, pallido, inestinguibile. E' un'impressione giusta! C'è qualche cosa dello stupore e della beatitudine puerperale in una campagna di settembre!"(p. 169).
Nel successivo Il Fuoco (1890) l'amante non più giovane, la grande attrice tragica Foscarina, viene assimilata, tra l'altro, a "un campo che è stato mietuto"(p. 306).
Infine cito una poesia di Gabriel Zaid "poeta messicano della generazione del Trenta" che ho trovato nel Lunario dei giorni d'amore donatomi da una donna con la dedica "Neanche un giorno di non amore". Voglio dire che è l'amore che fa leggere, che fa scrivere, oltre far andare in bicicletta e tutto il resto. E' l'amore che fa vivere, "l'amor che move il sole e l'altre stelle"[11].
Leggiamo dunque la poesia messicana L'offerta:" La mia amata è una terra che ripaga./ Non si perde mai quello che in lei si semina./Qualunque fede posta in lei fruttifica./Anche la minima parola in lei dà frutto./Tutto in lei s'adempie, tutto giunge all'estate./E' carica di doni, prodiga e matura./Le sue labbra emanano una grazia che ripaga./I suoi occhi, il suo seno, i suoi atti, il suo silenzio./Le ho dato ciò che è suo, per questo me lo rende./E' l'altare, la dea e il corpo dell'offerta"[12].
Per concludere: oggi è vitale per la sopravvivenza della
specie umana che gli uomini sentano di essere tutti figli della grande madre terra.
Deianira, una volta contesa, poi abbandonata, è divenuta come un dolente uccello ( oi|av tin j a[qlion o[rnin, v. 105) e si consuma nel giaciglio tormentoso, privo dell'uomo (v. 110).
Il tovpo" del paragone tra l'essere umano desolato e l' uccello dolente.
La similitudine tra l'essere umano addolorato e l'uccello che lamenta la perdita delle sue creature è topico nella letteratura europea.
Vediamo alcuni versi dell'Antigone (422-425 ) nei quali la ragazza, che ha trovato nudo il cadavere di Polinice, viene paragonata per il suo lamento a un uccello "amareggiato:"E allontanatosi questo dopo lungo tempo,/si vede la ragazza, e alza l'acuto grido/di un uccello addolorato (pikra''"-o[rniqo"), come quando ha volto/ lo sguardo sul giaciglio del vuoto nido privo degli uccellini" .- "Questo" è riferito a un precedente (v. 418) tufwv" , un uragano che ha sollevato dalla terra una bufera, skhptovn, quale oujravnion a[co" , angoscia del cielo, una sorta di correlativo oggettivo della pena della fanciulla.
L'uccello "amareggiato" dunque ( pikra'"- o[rniqo", vv. 423-424 ) messo in rilievo dall'inarcatura, è un altro segno di "paese guasto"[13] dove tutto va verso il dolore.
Infatti altri testiconsiderano gli alati come portatori di letizia. C'è per esempio un makarismov" di Aristofane nella seconda parabasi degli Uccelli (del 414) che d'inverno non indossano mantelli né li brucia (qavlpei, v. 1092) il caldo raggio luminoso della calura soffocante poiché abitano nei seni dei prati fioriti e delle foglie.
Nel De rerum natura gli uccelli sono i primi a segnalare l'arrivo di Venere all'inizio della primavera:" Nam simul ac species patefactast verna diei/et reserata viget genitabilis aura favoni,/aeriae primum volucres te, diva, tuumque/significant initum perculsae corda tua vi " (I, 10-13), infatti appena l'aspetto primaverile del tempo si è manifestato/e vigoreggia dischiuso il soffio fecondatore di Zefiro,/per primi gli uccelli del cielo segnalano te, o dea,/e il tuo arrivo percossi nel cuore dalla tua forza. Vedremo che del resto quel perculsae (da percello, "colpisco" ) contiene un'avvisaglia di violenza; l'uccello può essere un segno ambiguo e dare segni ambigui. Anche la direzione del loro volo può dare segni diversi.
Tendiamo però a ricavare buoni auspici vedendoli volteggiare contenti a gara insieme nel cielo
Pure il pessimismo di Leopardi ha dovuto riconoscere qualche felicità agli uccelli:'E che gli uccelli sieno e si mostrino lieti più che gli altri animali, non è senza ragione grande. Perché veramente...sono di natura meglio accomodati a godere e ad essere felici. Primieramente non par che sieno sottoposti alla noia. Cangiano luogo a ogni tratto; passano da paese a paese quanto tu vuoi lontano, e dall'infima alla somma parte dell'aria, in poco spazio di tempo, e con facilità mirabile...E siccome abbondano della vita estrinseca, parimenti sono ricchi della interiore; ma in guisa, che tale abbondanza risulta in loro benefizio e diletto, come nei fanciulli; non in danno e miseria insigne, come per lo più negli uomini"(Elogio degli uccelli).
L'uccello sofferente è segno di un dolore diffuso dovunque nel mondo, una sofferenza che è figlia della malvagità umana e che solo la bellezza morale può riscattare come nota Dostoevskij :" il mio giovane fratello chiedeva perdono anche agli uccelli: lì per lì, sembra un'assurdità, codesta; invece non lo è punto, perché il mondo è come l'oceano; tutto scorre e interferisce insieme, di modo che, se tu tocchi in un punto, il tuo contatto si ripercuote magari all'altro capo della terra. E sia pure una follia chiedere perdono agli uccelli; ma per gli uccelli, per i bambini, per ogni essere creato, se tu fossi, anche soltanto un poco, più leale di quanto non sei ora, la vita sarebbe certo migliore"[14]
Resta da commentare l'ultimo verso tradotto sopra dalle Trachinie (425) con quel "giaciglio...privo" (ojrfanovn...levco"). Lo strazio dell'uccello privato dei figli prefigura la pena di Antigone che condotta nella prigione-tomba lamenterà di andare a morire a[gamo"...a[klauto", a[filo", ajnumevnai-o" (vv. 867 e 876-877), senza nozze, senza compianto, senza amici, senza canti nuziali. Antigone è la madre mancata.
Anche questa ragazza di durezza amazzonica dunque ha momenti di tenerezza e di rimpianto per la maternità mancata.
"In termini umani, levco" è il letto. Non si tratta di un contrasto convenzionale né di un raddoppiamento formale. E' l'inferenza schiacciante della sterilità e della solitudine. La profanazione di Polinice provoca l'imminente rovina di Antigone. Anche per lei, il "nido/letto" nuziale e materno sarà vuoto e la sua progenie annientata"[15].
Antigone oppone la famiglia alla povli" :"Ciò che si oppone alla città è il suo stesso cuore, l' oi\ko". Altri Creonti, con altrettanta disperata fatica, regneranno su Tebe; Antigone mai. Ma sempre Antigone ne sconvolgerà la potenza. La sola presenza di questa Menade dell'Ade che stride lamentosa sul cadavere del fratello come un uccello su un nido vuoto, spezza per sempre il ritmo armonico del logos della polis, la sua u{bri" di tutto comprendere e governare"[16].
Il paragone dell'essere umano privato di un affetto con l'usignolo addolorato che piange la perdita dei figli si trova anche nell'Elettra (413?) di Sofocle (teknolevteir j w{~ ti" ajhdwvn, v. 107, come un usignolo orbato della prole). Similchee a questo è Eletttra invece ha perduto il padre assassinato dalla madre e dal suo amante Egisto.
L'uccello addolorato del resto può essere paragonato anche a un uomo: Virgilio lo paragona al poeta Orfeo: non per niente ajhdwvn (usignolo) si forma sulla radice aj/d- /wj/d- sulla quale anche ajoidov" , cantore, poeta.
Nella IV Georgica (29 a. C.) il mantovano utilizza questa similitudine per aggiungere pathos e ornamento mitico al dolore di Orfeo che ha perduto la sposa. Egli pianse sette mesi tutti interi sotto un'alta rupe presso l'onda dello Strimone deserto, da solo, e rievocò questi fatti sotto le gelide stelle ammansendo le tigri e trascinando con il canto le querce, "qualis populea maerens philomela sub umbra/amissos queritur fetus, quos durus arator/observans nido implumis detraxit; at illa/flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen/integrat, et maestis late loca questibus implet " ( vv. 511-515), quale l'usignolo addolorato sotto l'ombra del pioppo lamenta le creature perdute, che il crudele aratore spiando trasse giù implumi dal nido; ma quello piange nella notte e, posato sul ramo, rinnova il compassionevole canto e per largo tratto riempie i luoghi di tristi lamenti.
G. B. Conte in un suo saggio in inglese fa notare che "l'usignolo canta e si duole , come il poeta amante Orfeo canta e si duole; e l'usignolo-almeno da Catullo 65[17]- è una figura emblematica del poeta elegiaco"[18].
Più spesso però in letteratura il paragone viene fatto con la donna.
Per esempio in Tess la ragazza "la quale non aveva ancora compiuto ventun anni era stata presa durante i giorni della sua immaturità come un uccello in una rete" (p. 261). Più avanti la splendidissima giovane donna trova degli uccellini agonizzanti, massacrati dai cacciatori e si pente di essersi considerata la più infelice delle creature:"Poverini...come ho fatto a pensare di essere la creatura più disgraziata sulla faccia della terra davanti a una sofferenza come la vostra!" esclamò, uccidendo quegli uccelli quasi con tenerezza, mentre aveva le guance bagnate di lacrime. "E io che non sento una sola fitta di dolore in tutto il corpo! Non sono stata maciullata, io, non sanguino, e ho due mani per nutrirmi e vestirmi"(p. 361). Anche questa creatura che si confronta con gli uccellini è una sposa abbandonata dal marito dopo che i due si erano detti di avere avuto un'esperienza sessuale precedente. "Torna da me" gli scrive "Sono desolata senza di te, amore mio. Oh, così desolata!" (p. 433).
Il mito di Procne, altra infelicissima sposa, Filomela, Tereo e il metodo mitico.
Il nome di Filomela che abbiamo trovato (Georgica IV , 511) per indicare l'usignolo richiama precisamente il mito dell'infelice principessa figlia del re ateniese Pandione, di sua sorella Procne, e del marito di questa, Tereo che violentò la cognata, la recluse e le tagliò la lingua. Ma la disgraziata informò la sorella facendole pervenire una tela dove aveva ricamato, a lettere scarlatte su fondo bianco ("purpureas notas filis intexuit albis"[19] ) la sua dolorosa storia. "Alla smodata violenza del barbaro si oppone così l'astuzia della cultura"[20]. Quindi Procne, per punire il marito, aiutata dalla sorella, uccise il loro figliolo Iti e glielo diede da mangiare.
Alla fine Tereo tentò di ammazzare la moglie e la cognata, ma i tre sciagurati vennero trasformati in uccelli, in usignolo appunto Filomela, in rondine Procne e in upupa Tereo.
Un mito che "ebbe una straordinaria fortuna: Shakespeare, ad esempio, lo tenne certamente presente nella composizione del Tito Andronico , che utilizza in larga parte elementi di questo intreccio"[21].
Ne fa un lungo racconto in esametri Ovidio nelle Metamorfosi [22] (VI, 426-674) cui allude Eliot per significare la decadenza del mito nella ricezione degli uomini moderni:"The change of Philomel, by the barbarous king/So rudely forced; yet there the nightingale/Filled all the desert with inviolable voice/And still she cried, and still the world pursues,/'Jug Jug' to dirty ears " (The Waste Land , vv. 99-103), La metamorfosi di Filomela, dal barbaro re così brutalmente forzata; eppure là l'usignolo riempiva tutto il deserto con voce inviolabile, e ancora ella piangeva e ancora il mondo continua 'Giag Giag' a orecchie sporche.
Il canto della voce inviolabile di Filomela è degradato e dissacrato, poiché suona oramai solo naturalisticamente come un "Jug Jug" per le orecchie inquinate del mondo contemporaneo.
La ragazza della storia di Ovidio, dopo essere stata brutalmente violentata dal cognato invoca i numi e chiama a raccolta le proprie forze perché il barbaro infame subisca la punizione meritata:"Si tamen haec superi cernunt, si numina divum/sunt aliquid, si non perierunt omnia mecum,/quandocumque mihi poenas dabis. Ipsa pudore/proiecto tua facta loquar: si copia detur,/in populos veniam; si silvis clausa tenebor,/implebo silvas et conscia saxa movebo" (Metamorfosi, VI, 542-547), se però quelli che stanno là sopra vedono queste atrocità, se la potenza degli dèi ha qualche valore, se non è morta tutta con me, una volta o l'altra mi pagherai il fio. Io stessa, gettato via il pudore dirò le tue infamie: qualora ne abbia la possibilità, verrò tra le genti; se sarò tenuta chiusa tra i boschi, riempirò le selve e commuoverò i consapevoli sassi.
Nel mondo antico si commuovono i sassi; nel moderno le orecchie sporche degli uomini sentono solo il fruscìo o il tintinnìo del denaro.
In una recensione all'Ulisse di Joyce ("Ulysses, Order and Myth", The Dial, nov. 1923) Eliot chiamò mythical method , metodo mitico, questo "maneggiare continui parallelismi tra la contemporaneità e l'antichità...un modo per controllare e ordinare, per dare una forma e un significato a quell'immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea". Si tratta dunque di una continua collazione tra frammenti della realtà contemporanea e i loro paradigmi mitici che tagliano perpendicolarmente tutta la storia.
La teoria degli archetipi di Yung fu elaborata, non per caso, in questo stesso periodo.
Eliot richiama ancora il mito di Filomela e Procne nella nota al v. 428 de La Terra desolata il quale fa:"Quando fiam uti chelidon-O swallow swallow ", quando diverrò come la rondine- O rondine rondine.
La citazione è tratta dal Pervigilium Veneris , La veglia di Venere, un carme anonimo, compreso nell'Anthologia latina , di novantatré versi (tetrametri trocaici catalettici), di età e attribuzione incerta, dal II secolo d. C. , al IV, al VI; da Floro, a Tiberiano, a un'autrice anonima.
Il poemetto celebra il ritorno della primavera e la potenza di Venere con l'esaltazione dell'amore, della natura e del piacere, non senza però un'ombra di malinconia che si allunga nel finale con la menzione del mito della tragica sposa ateniese:
"Iam loquaces ore rauco stagna cycni perstrepunt/adsonat Terei puella subter umbram populi,/ut putes motus amoris ore dici musico/et neges queri sororem de marito barbaro./Illa cantat, nos tacemus. Quando ver venit meum?/Quando fiam uti chelīdon, ut tacere desinam?/Perdidi Musam tacendo nec me Phoebus respicit./Sic Amyclas, cum tacerent, perdidit silentium./Cras amet qui numquam amavit quique amavit cras amet! " (vv. 85-93) , già i cigni loquaci fanno risonare gli stagni con voce roca. Fa eco la sposa di Tereo[23] sotto l'ombra del pioppo, sì che tu pensi che passioni d'amore siano cantate dalla voce musicale e non dica che pianga la sorella stuprata dal marito barbaro. Quella canta, noi tacciamo. Quando viene la mia primavera? Quando diverrò come rondine e smetterò di tacere? Ho perduto il canto tacendo e Febo non mi guarda più. Così il silenzio ha perduto Amicla[24] quando tacevano. Ami domani chi non ha mai amato e chi ha amato ami domani![25].
L'amore è contaminato dal dolore attraverso il ricordo delle due disgraziate sorelle.
La rondine è un segno ambiguo anche nel Macbeth dove Banquo, giungendo al castello del protagonista già pronto al cupo delitto, sostiene che la presenza di questo uccello significa amenità del luogo e amabilità dell'aria: l'alito del cielo qui sa di amore (I, 6). Invece si sta preparando un assassinio.
Il ritorno della primavera è accompagnato dal verso perpetuo delle figlie di Pandione trasformate in uccelli anche nel sonetto CCLXVI de Il Canzoniere di Petrarca:" Zefiro torna e 'l bel tempo rimena/e i fiori e l'erbe, sua dolce famiglia,/e garrir Progne e pianger Filomena, e primavera candida e vermiglia" (CCCX ,vv. 1-4).
Il motivo dell'uccello dolente che piange per avere perduto i suoi cari si trova, più precisamente nel sonetto successivo (CCLXVII):"Quel rosignuol che sì soave piagne/forse suoi figli o sua cara consorte/di dolcezza empie il cielo e le campagne/con tante note sì pietose e scorte" (CCCXI ,vv. 1-4).
Insomma il ritorno della primavera con Aprile "the cruellest month "[26], evoca, con l'amore, storie dolorose di tradimenti, stupri e violenze.
Corrisponde a quanto afferma Medea, per poi metterlo in pratica con un comportamento estremo:"ahi ahi, che grande male (kako;n mevga) è l'amore per i mortali!" (Medea, v. 330). Nelle Argonautiche infatti Eros mandato da Afrodite a sconvolgere Medea arriva sconvolgente come si getta sulle giovani vacche l'assillo che i mandriani chiamano tafano (III, 276-277).
Bologna 21 giugno 2023 ore 19, 45 giovanni ghiselli.
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[1]" ejnnouvmeno" wJ" oujde;n ei[hn kakivwn tou' th'" Pasuvfah" moicou'", Luciano ? (120-190 d. C.), Lucio o l'asino , 51. il ganzo di Pasife come si sa era un toro.
[2]Ovidio, Ars Amatoria , II, 23-24.
[3] Il centauro Nesso.
[4]U. Albini, Interpretazioni teatrali , Le Monnier, Firenze, 1972, p. 59.
[5]Sono lettere d'amore di donne amanti di eroi, e altre lettere di uomini a donne del mito con le risposte. Il primo gruppo ( epistole I-XV) uscì secondo alcuni attorno al 15 a. C. , fra la prima (20a. C.) e la seconda edizione degli Amores (1 a. C.). Altri abbassano la data fino al 5 a. C. Il secondo gruppo di epistole doppie ( XVI-XXI) fu composto poco prima dell'esilio (tra il 4 e l'8 d. C.). Il metro è il distico elegiaco.
[6]Come Cerbero, il cane di Ades, dal ringhio metallico.
[7] Crasi di kai; ejxamw'n.
[8]Cfr. Baccanti, vv.275-276:" Dhmhvthr qeav-gh' d'& ejstivn, o[noma d& oJpovteron bouvlh/ kavlei", la dea Demetra, è la terra, chiamala con il nome che vuoi, e le Fenicie, vv.685-686:"Damavtar qeav,-pavntwn a[nassa, pantwn de; Ga' trofov"", la dea Demetra, signora di tutti, la Terra di tutti nutrice.
[9]Per tutto l'episodio cfr. De rerum natura, II, 600-660.
[10]Trad. it. , antologica, Il potere femminile, pp.76-77)
[11] Dante, Paradiso, XXXIII, 145.
[13] Dante, Inferno, XIV, 94.
[14]F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov , pp. 401-402.
[15]G. Steiner, Le Antigoni , p. 254.
[16] M. Cacciari, L'arcipelago, p. 49.
[17] Vv. 13-14.
[18]G. B. Conte Gian Biagio Conte, Aristaeus, Orpheus, and the Georgics: Once Again , in Poets And Critics Read Vergil, Yale University Press.
[19] Ovidio, Metamorfosi, VI, 577.
[20]M. Bettini, La letteratura latina 2 , p. 690.
[21]M. Bettini, op. e p. citate sopra.
[22] Composte tra il 2 e l'8 d. C.
[23] Procne
[24]Città della Laconia nella quale in seguito a falsi annunci di attacchi nemici seguiti da turbamenti fu vietato di dare l'allarme, sicché quando gli aggressori arrivarono davvero la trovarono impreparata.
[25]E' questo il ritornello che si trova già in apertura, si ripete dieci volte e indica la destinazione popolare del componimento.
[26]Il più crudele dei mesi, La terra desolata , 1.
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