Al festival di Siracusa quest’anno è stata rappresentata una commedia di Aristofane, la Pace, del 421, con una novità: il regista ha praticato la contaminatio : nella conclusione dello spettacolo, non egregio a dire il vero, ha fatto recitare alcuni versi delle Fenicie di Euripide al personaggio eponimo Irene.
Se ne saranno accorti diversi spettatori ma non credo tutti. Sicché presento questi trimetri giambici di Euripide, tradotti e commentati qui sotto
I versi che considerano i ricchi soltanto usufruttuari della roba posseduta a termine potevano essere recitati al funerale di Berlusconi invece dell’apoteosi. Lo avrebbero onorato di più.
Giocasta cerca di persuadere il figlio Eteocle che l’ambizione- Filotimiva- è a[dikoς hJ qeovς, è per la dea ingiusta che tu impazzi. su; maivnh/ (Fenicie, 535) E’ più bello, figlio, onorare l’uguaglianza kavllion tevknon jIsovthta tima'n (536) che unisce piuttosto che dividere. L’uguaglianza è legge naturale: la palpebra cupa della notte –nukto;ς t j ajfegge;ς blevfaron e la luce del sole hJlivou te fw'ς (543) percorrono parti uguali del giro dell’anno. Luce e buio sono al servizio dei mortali e tu non accetterai parti uguali della casa? Tu ritieni gran cosa e onori nella tirannide un’ ajdikivan eujdaivmona, un’ingiustizia fortunata (548).
Cfr. Seneca: “cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse et noctem (Ep. 3, 6), prendi decisioni osservando la natura: quella ti dirà che ha fatto il giorno e la notte.
Torniamo a Giocasta nelle Fenicie
Essere ammirato è un onore? Peiblevpesqai tivmion; No, è piuttosto cosa vuota kenovn (551)
Il più ha soltanto un nome: tiv d’ ejsti; to; plevon ; o[nom j e[cei movnon ( 553) , poiché ai saggi basta il necessario (ejpei; tav g j ajrkounq j iJkana; toi'ς ge swvfrwsin 554), le ricchezze non sono proprietà privata dei mortali (ou[toi ta; crhvmat j i[dia kevkthntai brotoiv 555), noi siamo curatori di cose che gli dèi possiedono (ta; tw'n qew'n d j e[conteς ejpimelouvmeqa, 556) e quando essi vogliono, ce li ritolgono o{tan de; crhv/zw's j, au[t j ajfairou'ntai pavlin (557).
Una posizione echeggiata da Menandro nel Duvskolo~ (del 316 a. C.).
Il ricco Callippide dice a Sostrato che non vuole prendersi un genero e una nuora pezzenti, e il figlio, il quale vuole sposare una ragazza povera e dare la sorella in sposa al fratello di lei, risponde al padre che lui non è veramente padrone delle cose che ha, ma esse appartengono tutte alla fortuna: “th'~ tuvch~ de; pavnt j e[cei~” (v. 801).
Luogo simile in Orazio:“Linquenda tellus et domus et placens-uxor neque harum, quas colis arborum-te praeter invisas cupressos-ulla brevem dominum sequetur” (Orazio, Odi, II, 14, vv. 21-24), devi lasciare la terra e la casa e la moglie amata, e di questi alberi che coltivi, nessuno ti seguirà, padrone istantaneo, tranne gli odiosi cipressi.
Altrettanto in Seneca che nella Consolatio ad Marciam (10, 2) scrive:"mutua accepimus. Usus fructusque noster est ", abbiamo ricevuto delle cose in prestito. L'usufrutto è nostro.
Nelle Fenicie di Seneca, Giocasta dice a Polinice: “ne metue: poenas et quidam solvet graves: regnabit (645-646).
Cfr. “Godi che re non sei” di Adelchi a desiderio nella tragedia di Manzoni.
La ricchezza che cerchi sarà dispendiosa per i Tebani dapanhro;ς oJ plou'toς (566) dice ancora la madre a Etocle , filovtimoς de; suv, e tu sei un ambizioso.
Giocasta avverte il figlio che i favori ricevuti da Adrasto sono ajmaqei'ς cavriteς (569) favori e tu sei venuto qua porqhvswn povlin a distruggere la città ajsuvneta, dissennatamente .
Euripide attraverso Giocasta si rivolge ai politici ateniesi di quegli anni (intorno al 411): mevqeton to; livan, mevqeton[1] ( 584, abbandonate l’eccesso, abbandonatelo. E’ un monito alla parte oligarchica e a quella democratica. La stoltezza di due persone quando convergono nello stesso punto è un male odiosissimo (585).
Bologna 15 giugno 2023 ore 19, 06 giovanni ghiselli
p. s.
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