NUOVE DATE alla Biblioteca «Ginzburg»: Protagonisti della storia antica

Ciclo di incontri alla biblioteca «Ginzburg». Protagonisti della storia antica

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domenica 22 dicembre 2024

Ovidio poeta "contrastivo".

42. 1. Un poeta “contrastivo”: Ovidio e la polemica libertina con i poeti augustèi ortodossi. L’adulterio e le leggi di Augusto: “corruptissima republica plurimae leges”.

 

  Ovidio ingaggia una garbata  polemica con Virgilio il quale aveva santificato il suo pio eroe: abbiamo visto (16, 3) che il poeta peligno nell'Ars amatoria (III 39-40) menziona Enea tra gli amanti infedeli.

 Il Sulmonese in effetti opera un rovesciamento nei confronti di alcune parti dell'etica propugnata dai poeti augustei ortodossi .

Si possono indicare alcuni aspetti della polemica libertina  di Ovidio con gli autori che organizzavano il consenso alla volontà moralizzatrice di Augusto: si pensi al Carmen saeculare [1] di Orazionel quale il poeta di Venosa celebra il nuovo secolo di prosperità e virtù morali ritrovate:"Iam Fides et Pax et Honor Pudorque/priscus et neglecta redire Virtus/audet, apparetque beata pleno/Copia cornu"[2], già la Fede e la Pace e l'Onore e il Pudore antico e la Virtù messa da parte osa tornare, e appare felice l'Abbondanza con il corno pieno.

Tali beni derivano dalle preghiere e dalle vittorie di Augusto, discendente del “castus Aeneas” (Carmen saeculare, v. 42), “clarus Anchisae Venerisque sanguis” (v. 50) puro sangue di Anchise e di Venere, “bellante prior, iacentem/lenis in hostem"(vv. 51-52), vincente sul nemico in armi, mite con il nemico caduto.

Questo eroe senza machia e senza paura nelle intenzioni degli autori dovrebbe prefigurare Augusto.

Ebbene, secondo Ovidio Enea non è castuspius[3], e Roma non è la città del Pudore bensì dell’amore libero. 

 “Negli Amores  è la stessa impostazione di giuoco sofistico[4] che toglie aggressività all'irrisione della rusticitas: cito, per esempio, un passo di III 4 (37 sgg.), l'elegia dove si vuole dimostrare che è meglio lasciare le puellae  senza sorveglianza: Rusticus est nimium quem laedit adultera coniunx ,/et notos mores non satis Urbis habet,/in qua Martigenae non sunt sine crimine nati,/Romulus Iliades Iliadesque Remus " [5], e' davvero rozzo quello che una moglie adultera offende, e non conosce bene i costumi di Roma nella quale i figli di Marte non sono nati senza colpa, Romolo figlio di Ilia e il figlio di Ilia Remo.

 Insomma il marito che, tradito, si adonta, è un ignorante integrale.

"Per Ovidio Roma non è la regina delle città che detta legge al genere umano: è invece principalmente la città dell'amore. Tutto invita ad amare: strade, piazze, portici offrono mille bellezze giunte dai quattro punti cardinali per conquistare i loro vincitori…Persino l'antico Foro diventa luogo di appuntamenti e tende trappole ai giureconsulti:"et fora conveniunt-quis credere possit-amori"[6],  (Ars amatoria, I, 79.), anche i fori si confanno all'amore, chi potrebbe crederlo?

Sappiamo che Ovidio con questo, o con un altro carmen, e con un altrettanto imprecisato error irritò Augusto, il quale tentava di porre un freno alla licentia a suon di  leggi. Il poeta pagò a caro prezzo la sua eterodossia rispetto alla volontà del principe e al coro dei poeti organici al regime.  

Per quanto riguarda la libertà e il servilismo, sentiamo Leopardi : “Se  non altro non si potè più né lodare né insinuare e inculcare la libertà ai contemporanei espressamente, e la libertà non fu più un nome pronunziabile con lode, riguardo al presente e al moderno. Quando anche non tutti si macchiassero della vile adulazione di Velleio, e Livio fosse considerato come Pompeiano nella sua storia, e sieno celebrati i sensi generosi di Tacito, ec. ma neppur egli troverebbe che, sebbene condanna la tirannia, lodi mai la libertà in persona propria.

Dei poeti, come Virgilio, Orazio, Ovidio non discorro. Adulatori per lo più de’ tiranni presenti, sebbene lodatori degli antichi repubblicani. Il più libero è Lucano” (Zibaldone 463).

 

Ovidio, prima di adulare Augusto cercando di impetrare di venire perdonato e richiamato dall’esilio di Tomi, invero lo ha provocato cantando e celebrando il libertinaggio.

 

Nel romanzo La montagna incantata di T. Mann il personaggio Naphta, cattolico quasi gesuita, comunista e reazionario disprezzaVirgilio e la poesia latina. Sostiene che Virgilio era un laureato di corte e il leccapiedi della stirpe Giulia (p. 769) un letterato metropolitano, un retore pomposo senza nessuna scintilla di creatività, non era un poeta ma un francese con parrucca a boccoli dell’epoca augustea.

 

 

Vediamo le numerose e vane leggi dell’imperatore: “corruptissima republica plurimae leges” ( Tacito, Annales, 3, 27).

La lex Iulia de adulteriis coercendis fu approvata nel 18 a. C. 

Un’altra legge volta a frenare, o per lo meno a regolarizzare e ordinare l’amore, fu la lex Iulia de maritandis ordinibus, sempre del 18 a. C.  Questa multava i celibi e premiava gli ammogliati fecondi.

Cassio Dione[7] racconta che Augusto sottopose a punizioni fiscali le categorie dei celibi e delle nubili, mentre istituì dei premi per il matrimonio e la procreazione (54, 16).

Della lex Iulia, che mirava a combattere la licenza sessuale e la diminuzione della natalità, si trova un’eco in una delle strofe saffiche del Carmen Saeculare di Orazio: “Diva, producas subolem patrumque / prosperes decreta super iugandis / feminis prolisque novae feraci / lege marita” (vv. 17-20), Dea[8] fa crescere la prole e da’ successo ai decreti del senato sulle donne da unire in matrimonio e sulla legge nuziale feconda di nuova prole.

La lex Iulia de maritandis ordinibus poi venne ribadita e inasprita dalla lex Papia Poppaea (del 9 d. C.) che, tra l’altro, concedeva agevolazioni fiscali e legali a chi avesse almeno tre figli (ius trium liberorum).

Tacito ci fa sapere che Augusto già piuttosto vecchio (senior) l’aveva ratificata dopo le leggi Giulie[9] incitandis caelibum poenis et augendo aerario (Annales 3, 25), per aggravare le pene contro i celibi e per impinguare l’erario.

Non per questo, continua lo storico, i matrimoni e le nascite dei figli divenivano più frequenti, praevalida orbitate, tanto si era affermato il costume di non avere famiglia. Questa legge del resto favorì la delazione e suscitò il terrore: “Acriora ex eo vincla, inditi custodes et lege Papia Poppaea praemiis inducti ut, si a privilegiis parentum cessaretur, velut parens omnium populus vacantia teneret” (Annales III, 28), più aspri da quel momento divennero i vincoli, furono imposti custodi, e con i premi promessi dalla legge Papia Poppea furono incoraggiati a che il popolo, come padre comune, occupasse i beni rimasti liberi, se qualcuno rinunciava ai privilegi di padre di famiglia.

 Lo storiografo continua denunciando l’invadenza degli inquisitori nella vita privata dei cittadini terrorizzati.

Cassio Dione afferma che Augusto nel 18 a. C. sottopose a punizioni fiscali le categorie dei celibi e delle nubili, mentre pose dei premi (a\qla e[qhken) per il matrimonio e la procreazione (54, 16). E siccome nella nobiltà c’erano più maschi che femmine, consentì a chi lo desiderava, tranne che ai senatori, di sposare delle liberte con nozze legittime.

 

Bologna 22 dicembre 2024 ore 20, 44 giovanni ghiselli

 

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[1] Del 17 a. C.

[2] Vv. 57-60. E' una strofe saffica formata da tre endecasillabi saffici e da un adonio.

[3] Cfr. Ars amatoria, III, vv. 39-40 e Virgilio, Eneide I, vv. 8-11, già citati in 16. 3. Cfr. anche Ars amatoria I, vv. 605-606 citati in 17. 2.

[4] “Giuoco sofistico”  significa non riconoscere alcun valore oltre il successo e utilizzare ogni mezzo, a partire dalla parola, per conseguirlo in ogni modo: in questo caso chiamare in causa gli dèi per avallare  licenza e trasgressione sessuale. E' quello che fa il Discorso Ingiusto nelle Nuvole di Aristofane quando consiglia a Fidippide: se ti sorprendono in adulterio, rispondi al marito che non hai fatto niente di male,  poi fai ricadere  l'accusa su Zeus, di’ che anche lui è più debole di amore e delle donne ( "kajkei'no" wJ"  h{ttwn e[rwtov" ejsti kai; gunaikw'n", v.1081). Il riferimento è ai tanti adultèri di Zeus che possono coonestare quelli del giovane allievo istruito dall' a[diko" lovgo". "La sofistica ne approfitta, raccogliendo dal mito gli esempi sfruttabili nel senso della dissoluzione e relativizzazione naturalistica ch'essa fa di tutte le norme vigenti. Se la difesa in giudizio tendeva in passato a provare che il caso era conforme alle leggi, ora si attacca la legge e il costume stesso, cercando di dimostrarli manchevoli" (W. Jaeger, Paideia  1,  p. 630). 

Nella poesia erotica greca e latina chi ama, si appella topicamente agli amori di Zeus. Faccio qualche esempio. Nell’VIII idillio di Teocrito il bovaro Dafni canta: “w\ pavter w\  Zeu', ouj movno" hjravsqhn: kai; tu; gunaikofivla"” (vv. 59-60), o padre Zeus, non mi sono innamorato solo io: anche tu sei amante delle donne.

 Nel poema di Apollonio Rodio Era chiede a Teti di salvare gli Argonauti da Scilla-Cariddi e dalle Plancte, e le ricorda l’affetto che ha provato per lei da quando rifiutò le profferte amorose di Zeus: “a quello infatti interessa sempre questa attività: passare la notte con donne, mortali o immortali” (Argonautiche, 4, 794-795) .

Catullo ricorda i plurima furta Iovis per combattere la propria gelosia e accettare le scappatelle di Clodia: “Quae tamen etsi uno non est contenta Catullo,/rara verecundae furta feremus erae,/ne nimium simus stultorum more molesti. /Saepe etiam Iuno, maxima caelicolum,/coniugis in culpa flagrantem cohibuit iram,/noscens omnivoli plurima furta Iovis” (68 A, vv. 135-140), se Clodia però non si accontenta del solo Catullo, sopporterò i tradimenti rari della riservata signora, per non essere troppo fastidioso, come sono gli stolti. Spesso anche Giunone, la più grande tra le dèe del cielo, frenò l’ira che bruciava davanti alla colpa del marito, ammettendo i moltissimi adultèri del marito che vuole tutto.

 

 

[5] A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana , p. 186.

[6] P. Grimal, L'amore a Roma, trad. it. Aldo Martello, Milano, 1964, p. 140.

[7] Vissuto tra il II e il III sec. d. C. , scrisse una Storia Romana in greco. Constava di ottanta libri che andavano dalle origini al 229 d. C. Ne restano 25 (dal 36 al 60) oltre alle epitomi di età bizantina.

[8] Ilitìa, identificata con Lucina, la dea romana dei parti. 

 

[9] De maritandis ordinibus e De adulteriis coërcendis del 18 a. C.

Ifigenia 91. La meritata merenda del 28 di maggio. Una bella giornata.


 

Il 28 maggio, nel pomeriggio inoltrato, noi due andammo con una coppia di amici sui colli lussureggianti.

Si camminava sui prati variopinti di erba e di fiori in rigoglio, palpitanti delle angeliche ali di farfalle multicolori, sonori dei canti musicali degli uccelli colorati, vivaci, felici per la giornata calda e serena mandata da Dio come preziosissimo dono a tutte le creature viventi.

Entrammo a mangiare un boccone nell’osteria di San Pietro gestita da due simpatiche vecchie sorelle. Pane con cacio e un bicchiere di vino. Dopo questa sobria merenda consentita dal pranzo mancato, e meritata dall’amore di cui ci eravamo saziati a metà della giornata, Ifigenia venne a sedersi sopra le mie ginocchia con un movimento e con mosse affettuose, infantili. Mi pareva una sorellina minore da educare.

La situazione era gradevole, però lì dentro non si vedeva il tramonto.

Nel tempo lontano quando ero un bambino e soffrivo le pene inflitte dall’iniqua stagione: il buio alle cinque dei pomeriggi rattristai e incupiti da nuvole nere, il freddo che ammazzava gli animali e gli umani più deboli, la bora spietata, ebbene, a mezzo il verno quando nel cielo non si vedeva nemmeno una stella pur se a lungi invocata, io sognavo che era proprio il 28 di maggio: immaginavo   giardini odorosi di rose, una luce radiosa che danzava sull’erba, farfalle bianche aleggiare accoppiate  sui carciofi degli orti, vedevo papaveri ardenti punteggiare di segni scarlatti le ampie onde del grano già ricco di spighe più bionde che verdi mosse adagio da un vento caldo di paradiso, il garbino che allieta i freddolosi, sognavo una bambina bruna bruna,  quanto la mamma , intelligente e brava a scuola, un’amica che mi invitava sorridendo ed era felice di giocare con me.

Intanto la bora tremenda soffiava implacabilmente su Pesaro tutto il gelo del Nord.

Questo sognavo negli spietati inverni pesaresi degli anni Cinquanta. Il più lungo fu il 1956, quello  del “nevone” di febbraio che durò fino a marzo inoltrato.

 

Il 28 maggio era il dì preferito perché era già estate e per quasi un mese la forza del sole sarebbe cresciuta ancora con i suoi benefìci meravigliosi.

 Fin  da bambino ai primi di luglio, con lo scemare dei minuti di luce e il taglio violento, crudele del grano, sentivo la morte dell’estate e mi si spezzava il cuore perché pensavo alla mia. Allora più di ora.

 

Il 28 maggio del 1979 quel mio desiderio infantile di gioia luminosa e amorosa si avverava del tutto: nello splendore della natura, nella presenza della ragazza bruna e bella, una venticinquenne che voleva essere educata da me e pure giocare con me: figlia e sorella spirituale, collega, compagna, amica e amante.

 

A Ifigenia che mi riempiva di baci, carezze  e parole gradite, domandai se voleva uscire per camminare con me, vedere il tramonto del sole, metterlo a letto, poi fare l’amore sull’erba di un prato celato alla vista di uomini, donne e bambini.

La proposta la fece trillare di gioia. Ci alzammo, chiedemmo scusa agli amici, uscimmo e ci allontanammo dall’osteria campagnola allungando i passi su un sentiero che procedeva tra l’erba a mano a mano sempre più folta e alta. A un tratto  trovammo un’area circolare, come una radura dove spiccavano alcune campanule azzurre. Rimanendo in piedi, potevamo vedere i colli da una parte e la bassa pianura del nord dall’altra, ma dopo esserci stesi al riparo della fitta vegetazione che nascondeva quel talamo tondo, si vedeva soltanto il cielo sereno. E non eravamo visti da alcuno. Replicammo l’amore di mezzogiorno.

Le farfalle ci festeggiavano svolazzandoci intorno con le ali imporporate dai raggi  serotini e lucenti della sera.  

I fiori azzurrini piegati dalle membra aulenti di Ifigenia contraccambiavano con il loro profumo l’odore paradisiaco del corpo splendidamente fiorito di lei. Meivdhse de; gai`  j uJpevreqen[1], sotto sorrideva la terra. Sotto Ifigenia, l’erba e i fiori.

Poi, seduti sulle vesti leggere, ci fermammo a osservare la volta del cielo sopra di noi che diventava azzurro come i fiori sotto di noi, mentre il sole, stanco del lungo volo, si era già annidato nel verde ed erano scomparse tutte le ombre, si oscurava ogni sentiero e divenivano sempre più tenere e dolci le voci degli uccelli. Una farfalla bianca e fosforescente, improvvisa e inopinata, a un tratto si posò sul grembo di Ifigenia  e vi sparse il il suo luminoso candore. Facemmo l’amore per l’ultima volta quel giorno, prima che la via del ritorno sparisse  nel buio della notte.  Quindi rientrammo nell’osteria.

Bologna 22 dicembre ore 20, 17  giovanni ghiselli

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[1] Inno omerico III, ad Apollo, 118

Metodologia 41 Si consegue l’originalità moltiplicando i modelli.

Metodologia 41 Si consegue l’originalità moltiplicando i modelli.


 Quintiliano,  Leopardi, Eliot. Originalità e novità (Murray).

 Il ragazzo, per giungere all'originalità, deve conoscere voci diverse. Posso "autorizzare" questa mia convinzione con l’appoggio di autori diversi.

Orazio nell’Ars poetica prescrive: “vos exemplaria Graeca/nocturna versate manu, versate diurna” (vv. 268-269), voi leggete e rileggete i modelli greci, di notte e di giorno.

Quintiliano afferma che Demostene è “longe perfectissimus Graecorum”, di gran lunga il più perfetto dei Greci. Tuttavia, aggiunge, in qualche cosa, in qualche luogo si esprimono meglio altri, pur se in moltissime il più bravo è lui (aliquid tamen aliquo in loco melius ali, plurima ille).

Quindi arriviamo al punto: “Sed non qui maxime imitandus, et solus imitandus est”, non deve essere imitato in esclusiva quello che più di tutti deve essere imitato. Così tra il latini non basta Cicerone quale modello: “ Plurium bona ponamus ante oculos, ut aliud ex alio haereat, et quod cuique loco conveniat aptemus[1], mettiamoci davanti agli occhi i gioielli di diversi modelli, perché ci rimanga qualche cosa dall’uno e dall’altro, e noi possiamo applicarlo nel luogo opportuno.   

 con una riflessione di Leopardi il quale dichiara di "aver contratta, a forza di moltiplicare i modelli, le riflessioni ec. quella specie di maniera o di facoltà, che si chiama originalità. (Originalità  quella che si contrae? e che infatti non si possiede mai se non s'è acquistata? Anche Mad. di Staël dice che bisogna leggere più che si possa per divenire originale. Che cosa è dunque l'originalità? facoltà acquisita, come tutte le altre, benché questo aggiunto di acquisita ripugna dirittamente al significato e valore del suo nome.) "[2].

Qualche cosa di simile nel saggio già citato[3] di Eliot:" Se noi ci accostassimo a un poeta senza alcun pregiudizio, spesso ci accorgeremmo che le parti non solo migliori ma anche le più personali della sua opera sono forse quelle in cui i poeti scomparsi, i suoi antenati, dimostrano con maggior vigore la loro immortale maturità".

Non bisogna confondere l’originalità con la novità.

“La pura e semplice novità è una cosa esterna e accidentale. E’ solo questione di date. Col tempo, si offusca. Ad esempio, l’Ippolito sembra sia stata la prima tragedia d’amore della letteratura europea. In quel senso essa era nuova, ma la sua novità si è via via offuscata nel giro di duemila trecento anni. Però la sua originalità è tuttora viva e la si avverte ancora. Origo significa sorgente, uno sgorgare di acque…Noi chiamiamo originale un’opera d’arte quando essa genera l’impressione di una fonte vivente, tanto da farci dire. ‘Ecco la bellezza o la saggezza allo stato sorgivo e non incanalate in tubi o raccolte in secchi’. Questo carattere di freschezza sorgiva e di mobilità non ha niente a he fare con la novità, e pertanto non può mai invecchiare…Essenziale è l’intensità fantastica”[4].  

Bologna 22 dicemnre 2024 ore 18, 57 giovanni ghiselli

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[1] Institutio oratoria, X, 2, 24-26.

[2]Zibaldone , 2185-2186.

[3] Tradizione e talento individuale. Cfr. cap. 3.

[4] G. Murray, L’origine dell’Epica greca, p. 318 e p. 320.

Ifigenia 90. L’inquisizione risibile. Seconda parte. Il metodo comparativo.


 

La parte più importante dell’ispezione era finita. Allora le materie che contavano nel liceo classico erano latino e greco, anzi greco e latino. A me questo non dispiaceva. Dopo tutto dallo studio dei classici non solo ho imparato a parlare e a scrivere come si deve ma ho  anche  tratto il fondamento della mia identità.

Comunque non trascuravo la storia greca e  romana, né l’italiano . Della nostra letteratura preferivo approfondire quella più legata agli autori greci e latini; inoltre mi stavo preparando anche su alcuni autori europei: soprattutto inglesi, tedeschi e russi per ampliare il mio repertorio e potenziare il mio metodo già allora comparativo.

 In quel tempo tale mevqod~, questa via, nella scuola non esisteva: nessuno mi aveva mai detto  che  Shakespeare  per alcuni drammi ha utilizzato  una traduzione inglese di una traduzione francese di biografie di Plutarco come quelle di  Giulio Cesare, di Antonio, e di Coriolano.

 

All’Università ero stato indirizzato a studiare T. S. Eliot dal professor Carlo Izzo cui sono  ancora grato. Leggendo La terra desolata  mi ero sentito incoraggiato e autorizzato ad accostare luoghi usati in maniera simile da autori diversi  anche molto lontani nel tempo. Lo facevo d’istinto quando ero scolaro e ripresi a farlo insegnando.

 Studiando l’Antonio e Cleopatra di Shakespeare, per esempio, ripassavo la Vita di Antonio di  Plutarco e rivedevo la lingua inglese che mi era simpatica poiché me ne ero avvalso per corteggiare le ragazze straniere.

 

Il preside dunque tornò per esaminare e magari sanzionare il mio insegnamento dell’italiano e mi domandò  su quali poeti avessi fatto  lezione nei mesi precedenti. Sospettava che scegliessi e propagandassi testi eversivi o immorali.

 

 I rumores dei colleghi della cricca maligna facevano girare queste idiozie calunniose nei confronti miei e degli autori che preferivo. Questi erano spesso censurati o messi all’indice dai docenti rimasti  alla scuola manualistica e  acritica del loro buon tempo antico.

Bastava la parola libido,  detta magari spiegando Freud, a metterli in allarme.  Tali pettegolezzi venivano riferiti anche alle mamme dei ragazzini. Le madri più intelligenti e colte si scandalizzavano non per la mia parresia nel riferire  gli autori ma per il fatto  che certi colleghi mi biasimavano  siccome non censuravo Freud appunto, o Catullo, o Marziale o Petronio.

Queste mamme non raggirabili mi erano simpatiche e non lo dissimulavo, anzi.

Una volta una di loro mi domandò: “che fa professore, mi corteggia?”

“Io sì- risposi- però se le dispiace le chiedo scusa”

“Non mi dispiace”, replicò, e quando la figlia non era più mia scolara, mi invitò a vedere Le nozze di Figaro al teatro dell’Opera di Roma. Che sia benedetta con altre donne, con altre mamme siffatte, così ben fatte.

Questo fu un caso speciale, ma nessun genitore degli allievi del Minghetti condivise le critiche del preside e della sua cricca cui non piacevo ed era a me spiacente e agli amici miei.

 

Alla domanda dell’inquisitore risposi Foscolo, Leopardi e Pascoli.

Del poeta romagnolo l’improvvisato critico disse che era morboso, che era stato perfino in galera e certe sue poesie non erano adatte a studenti quindicenni.

Comunque se ai genitori io andavo bene, lui non poteva fare niente per impedirmi di impartire una pseudoeducazione che rasentava la corruzione dei giovani, mi disse una volta allargando le braccia.

Gli risposi che le sue accuse mi onoravano perché le medesime imputazioni aveva ricevuto Socrate.

“Lei sa com’è andato a finire, vero?”, provò a spaventarmi dando anche a vedere che conosceva la fine di Socrate e che era un uomo di spirito.

Stavo per risponde con ironia quasi offensiva: “No, me lo dica lei  preside che scopre e sa mille cose rimaste celate a questo semplice professore di ginnasio!”.

Invece mi trattenni e risposi citando Nietzsche[1]: “Sì è stato giustiziato dalle Menadi del tribunale ateniese”. “Quali menadi?” borbottò e uscì avendo forse fiutato che dietro tale risposta c’era un autore di peso. Troppo pesante Nietzsche per quel pover’uomo.

 

Sono contento di avere messo alla berlina un dirigente maldisposto nei confronti dei docenti  che avevano uno stile diverso dal suo, cioè più bello e più fine.  Riconosco che non era un uomo del tutto cattivo, ma sono certo che con un preside come i due precedenti  -Davide Ciotti del Rambaldi e Piero Cazzani del Minghetti -avrei lavorato meglio nella scuola e i miei allievi avrebbero avuto un educatore assai più sereno.

Ifigenia avrebbe avuto un amante più contento.

Torno dunque alla storia d’amore che sto raccontando. Ora comprendo che se l’autunno seguente la relazione con questa ragazza si affloscerà un poco alla volta in maniera irreversibile, il decadimento sarà dovuto anche al mio impegno strenuo ed estenuante volto a colmare diverse lacune .

Indirizzavo quasi tutta la mia libido sullo studio. Dovevo leggere le opere degli autori a casa, riassumerle, poi imparare le mie sintesi commentate per non leggerle in classe.

Affrontavo con l’intento di capirli e averne una visione d’insieme  autori grandiosi come Shakespeare, Goethe,  Tolstoj, Dostoevskij, Proust, Thomas Mann, Musil, Hesse, Kafka, Ibsen, e pure autori italiani che non conoscevo bene come Svevo e Pirandello. Volevo presentare ognora ricerche ottime, per interessare sempre i ragazzi e farli venire a scuola da me volentieri.  

Tutti, non uno di meno. Passai altri due anni così. Quindi anche Ifigenia passò come tante altre. Dal mio vivere ma non dal  mio pensare.

Bologna 22 dicembre 2024 ore 18, 20 giovanni ghiselli

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[1] F. Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. XII

Ifigenia 89. La prova superata e la danza pirrica.


 

Martedì 22 maggio, ad anno scolastico quasi concluso, subito dopo l’intervallo, il preside entrò rapidamente, ossia senza bussare, nella quarta ginnasio dove facevo lezione. Ci alzammo tutti; io lo salutai e lo invitai a occupare il mio posto. Egli sedette, suonò il campanello e alla sopravvenuta bidella ordinò di portare una sedia per me. Quindi ci mettemmo seduti tutti e la donna uscì.

 Non so se si dice ancora bidello ma ai tempi miei usava, e tale funzione aveva la sua importanza anche educativa, il suo valore.

 

Il preside-anche questo vocabolo è uscito dall’uso al pari di spazzino o di cieco- iniziò l’inquisizione con cui il dirigente, come si dice ora, voleva accertare la mia capacità di insegnare italiano, latino, greco, storia e geografia nel ginnasio dove mi aveva confinato dopo tre anni di insegnamento liceale più che onorevole.

 

Se avesse indagato sulla geografia, avrebbe potuto giudicarmi non idoneo all’insegnamento di questa materia. Illustravo soltanto quella dell’Ellade sia pure con pathos e competenza vissuta, siccome ne  avevo già percorso in bicicletta strade sul mare  e tra i  monti . Per fortuna nemmeno lui conosceva la geografia. Voleva indagare solo sulle conoscenza mie  di grammatiche e manuali. Soltanto queste era importanti per quell’uomo. I colleghi ostili gli avevano detto che le trascuravo.

 Sicché domandò: “dove siete arrivati con la grammatica greca?” Il corifeo   rispose :”l’abbiamo quasi conclusa: l’anno prossimo vogliamo cominciare a leggere gli autori in lingua. Il professore ce ne ha fatta venire la voglia”.

“Voglia di che?” domandò colui, sospettoso.

Io ero già allora “malfamato” come donnaiolo, stravagante rispetto ai percorsi ordinari, e pesarese per giunta, quasi un meridionale, dunque mezzo mafioso.

Ferrari, uno bravo, rispose: “voglia di leggere una tragedia in greco per imparare, dopo le grammatiche la lingua attraverso tanti vocaboli e la bellezza di un testo che colpisca la sfera emotiva”.

Il preside lo interruppe.

“Allora tu che hai questa voglia intempestiva dimmi come fa la seconda persona plurale dell’aoristo medio di divdwmi.

doi`sqe rispose pronto il ragazzo.

“Bene, bravo, vedo che tu hai studiato nonostante tutto”, disse il preside togliendo ogni importanza al mio insegnamento per non sbugiardare i colleghi malevoli e calunniatori

Poi continuò:  “Vediamo anche il latino. Visto che vi stanno tanto a cuore i vocaboli, voglio sentire come si dice fato in latino”.

Rispose una ragazza studiosa e brava, Elena:  Fatum, ma nel Satyricon si trova  fatus  per la tendenza del genere neutro a sparire”.

Il preside si allarmò e domandò: “non leggerete mica quel libro inverecondamente licenzioso alla vostra età? Tu sei solo una bambina”.

“Ancora no, ma il professore ce ne ha parlato durante una lezione di storia che lui associa sempre alla letteratura”

“E non vi crea confusione questo?”

“No, tutt’altro. Dà chiarimenti, ci interessa e ci piace.  Pure mia madre legge con interesse gli appunti che prendo”

“E’una signora colta, intelligente e carina”, dissi io allora per provocare l’inquisitore, il Torquemada già in difficoltà.

A dire il vero, credo che non gli dispiacesse del tutto il fatto di non potermi censurare. Sapeva di avermi fatto del male e ne era sazio. Magari aveva pure capito che sarei stato più utile alla “sua” scuola leggendo e commentando gli autori nel triennio.

Tentò un’altra prova.

“Adesso voglio vedere se ricordate qualcosa dell’aoristo fortissimo”

Guardò l’elenco degli alunni, quindi rialzò la testa con miglior labbia invero rispetto al momento dell’ingresso inopinato.

 

Sentiamo:  Corti Romano. Non Ateniese,vero?” Voleva  apparire  paterno e spiritoso,

“Dimmi  la prima persona del congiuntivo dell’aoristo terzo  di baivnw

bw` rispose Corti.

Il dirigente volle mostrasi di nuovo faceto: “Che cosa vuoi  dire con questo bó: che non lo sai?”.

“Se vuole, lo scrivo nella lavagna: beta e omega con l’accento circonflesso”.

Lo so, lo so, e vedo che lo sai anche tu. Tu Corti Romano e Greco vedo.

Ma vediamo se conosci anche la storia Romana e meriti il nome che hai: in quale anno Cartagine venne distrutta e da chi?

“Nel 146 da Scipione Emiliano che ne pianse pensando che un giorno sarebbe potuto accadere anche a Roma, come racconta Polibio”.

Il preside deve avere pensato che quel ragazzo ne sapeva anche troppo, e che poteva metterlo in imbarazzo.

Quindi passò all’italiano ma era oramai già quasi rassegnato a non dare più retta alle calunnie che giravano sul mio conto.

Quando il preside uscì, alcune ragazze e i ragazzi contenti si misero a danzare la pirrica.

 

Bologna  22 dicembre 2024  ore 18, 06 giovanni ghisell

 

 

 

 

Ifigenia 88. Et lux facta est.


 

Uscivo dall’aula dove avevo tenuto una lezione bolsa, quasi distratta: mi rodeva l’ingiusta degradazione subita. Rimpiangevo i due presidi gentiluomini dei tre anni precedenti : Davide Ciotti del liceo Rambaldi di Imola e  Piero Cazzani del Minghetti che mi incoraggiavano e valorizzavano avendo compreso  quanto ardore di studio c’era dentro di me  e suscitavo negli studenti delle tre classi che mi erano state affidate.

 Il preside sopraggiunto in ottobre  mi aveva invece ostacolato fin dal primo giorno, messo su dalla sua vice cui non ero mai piaciuto. Ricordavo con nostalgia anche la vicepreside della scuola media di Carmignano, Antonia Sommacal che  mi aveva difeso da un altro preside pregiudizialmente malevolo.

Antonia sarebbe stata una seconda mamma per me, poi sarebbe diventata la mia migliore amica. La gratitudine a chi ci ha fatto del bene non deve morire mai, anzi quel bene va fatto fruttificare e restituito moltiplicato. L’ingratitudine stigmatizza i plebei.

Dall’ottobre del 1978  tutto dunque era cambiato in peggio.

Con l’ottimismo necessario alla sopravvivenza pensai che prima o poi tutto sarebbe cambiato di nuovo: questa volta in meglio.

“Conosci quale ritmo tiene la vita degli uomini” mi dissi, ricordando Archiloco.

 

L’ottimismo dovuto a me stesso trovò quasi subito una conferma: il cupo edificio lucifugo a un tratto si spalancò e fece entrare la luce del cielo.

Ifigenia aspettava me a metà del corridoio: appena mi vide si mosse per abbracciarmi avanzando con fiammeggiante splendore, al pari di una cometa dalla chioma brillante: i capelli luminosi di gioventù e di bellezza, le spalle già molto abbronzate, il vestito rosso, perfino la borsa e le scarpine azzurre, incorniciavano evidenziando l’amabile sorriso dei denti bianchi come avorio tagliato, le labbra vermiglie come fragole e lamponi di Moena, e tutto il volto dove si incastonavano gli occhi neri che balenavano scintille di gioia e voluttà nel deprimente mortorio di via Nazario Sauro.

Come le fui vicino accostando la mia faccia alla sua, disse: “Gianni, sei bello!”

“Tu sei bella davvero” ribattei- io tutt’ al più sono un lepido moretto.

Tu qua dentro sei un segno del cielo e della fiorita stagione. Ti amo quanto la luce del sole che è il primo fra tutti gli dèi da adorare”.

 

Dette queste parole diedi un’occhiata all’ambiente che ci attorniava: i docenti uscivano dalle classi con aria stanca, il preside gironzolava arcigno e maligno, i bidelli sgridavano i ragazzi troppo rumorosi che lasciavano cadere sul pavimento pezzetti di pizza o di carta unta. Lì dentro sarei stato annoiato e  depresso, magari pure ingrassato, canuto o calvo, deriso e spregiato, e molto malato  se non mi avesse illuminato e incielato la luce di Ifigenia.

Questa annunciazione di gioia  mi fece dedurre che  il prossimo mese di Debrecen non sarebbe bastato a intorbidare lo splendore con cui quella ragazza da mesi  mi illuminava la mente e la vita .

Invece quel raggio divino, la luce più bella discesa dal cielo dopo quella di Elena Augusta non riuscì a superare l’estate e si oscurò, si spense ancora prima che calassero invidiose le brume.

Gli amori durati un mese soltanto come quelli con le  finniche dagli occhi da Tartare; o solo il tempo di un tripudio noturno, come quello con una collega sposata, conosciuta alla prova scritta di un concorso superato da entrambi; o nemmeno iniziati ma soltanto sognati come l’onirica infatuazione per  la  ragazzina bruna bruna Marisa nella scuola media Lucio Accio di Pesaro negli ultimi anni Cinquanta,  sono questi che  lasciano ricordi più belli.

Io amo baciare chi se ne va.

Chi resta mi dà sempre tanta noia, prima o poi. Perché sono fatto male, forse. Tuttavia non ho fatto male. Ognuna se ne è andata via quando e come ha voluto, tutt’altro che ostacolata da me. Per lo più benedette nell’ora dell’addio e per sempre.

Vive o morte che siano ormai.

 

Bologna 22 dicembe 2024 ore 17, 34 giovanni ghiselli

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Ifigenia 87. Torniamo dentro la scuola. Et ego scholasticus sum et tu: lector intende.


 

Nemmeno io ero del tutto convinto. Avevo dei dubbi sull’ educazione di Ifigenia, sullo stile di lei lontano da quello sublime che proponevo a me stesso. Vero è che Ifigenia era giovane e poteva correggersi.

Il tempo che scopre ogni arcano avrebbe rivelato la donna, giusta o ingiusta che fosse, buona o cattiva.

Quindi passiamo ad altro.

Il 15 maggio era una giornata luminosa  ma dentro il cupo liceo l’aria era buia e pesante siccome il vecchio edificio, affacciato su vie strette e circondato da costruzioni oppressive, non lascia entrare ad ampi fiotti la luce bensì la ferma o la riduce a strisce con le sue grosse mura e i vani delle finestre trasformati in feritoie, attraversati da rugginose inferriate, per giunta schermate quasi sempre da tende cupe e voluminose. Inoltre i ragazzi arrivati alla metà  del mese più bello, sono sfiniti. Ero stanco anche io soprattutto di burocrazia e di certe dispute inutili con alcuni colleghi . Per me e la mia classe iniziava il periodo più faticoso. Il preside aveva annunciato visite di necessario controllo  del mio operato sospetto: gli allievi ne erano innervositi; io non le temevo, però mi disturbava dover  subire valutazioni da un uomo che non aveva mai mostrato di dare giudizi sereni sul mio conto.

  L’inquisizione poteva arrecarmi delle noie se non anche dei dispiaceri. Uno grosso quel dirigente me lo aveva già dato togliendomi le classi che portavo avanti da due anni e avevano manifestato a lungo per continuare a ricevere paideia da me. Quell’uomo appoggiato da una cricca di miei colleghi simili a lui o asserviti  al suo potere, non era rassegnato a lasciar correre l’ essenziale diversità dl mio stile  dal proprio  senza crearmi altri problemi, veri ostacoli al mio lavoro educativo. Volevo non solo insegnare ai giovani  le necessarie nozioni e conoscenze, ma anche aiutarli a evitare gli errori fatti da me in passato. Sempre attraverso gli autori che mi avevano corretto e raddrizzato. Pure io ero malevolo verso quell’uomo poiché il maltrattamento subito non solo era un’offesa alla mia persona ma anche al grande lavoro fatto con sacrifici quotidiani per  anni. Un’offesa inflitta pure all’istituzione scolastica. Dunque non facevo nulla per appianare i contrasti, anzi tendevo ad accentuarli per dare un esempio di ribellione all’iniquità e alla prepotenza. Oggi, dopo tanti decenni dico che ho fatto bene a provocare quegli scontri pur dolorosi  perché non mi sono rassegnato a fare un lavoro che non era il mio. Avevo già capito che non esiste virtù che non sia anche capacità e dovevo dimostrare a me stesso di avere la volontà e la forza di lottare per fare il lavoro che mi piaceva in quanto sapevo farlo molto bene.

Arrivato a 55 anni, mi venne a noia anche l’insegnamento liceale poiché sentivo che non mi dava più stimoli sufficienti, e feci il concorso per la SSIS dell’Università, dove per dieci anni avrei fatto lezione ai giovani laureati in greco su  come insegnare la lingua e la cultura greca proficuamente per discenti e docenti. Nel frattempo avevo incontrato persone benevole, in grado di apprezzare i miei studi e i miei scritti. Devo la vincita di quel concorso alle traduzione e ai commenti dell’Edipo re e dell’Antigone di Sofocle fatte quando ero confinato nel ginnasio dove non mi sentivo a mio agio più di una tartaruga rovesciata: supinata testudo.

 Avevo cominciato a impegnarmi su queste tragedie già nell’anno cui siamo arrivati, avendo capito per tempo che le lezioni orali non mi bastavano più. Scrivere dovevo, in modo che il sapere mi desse qualche  potere, o meglio, che la sapienza diventasse potenza. Non quella di comandare bensì quella di fare un lavoro che mi piaceva, mi si addiceva e mi consentiva di manifestare intera la mia capacità educativa e renderla utile a molti,

 

Bologna  22  dicembre 2024 ore 17, 09 giovanni ghiselli.

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Il festeggiamento consumistico è contrario alle parole di Cristo.


 

Le vacanze natalizie non hanno niente di evangelico. Il festeggiamento è quello del consumismo, cioè la negazione delle parole di Cristo.

 

Traggo un esempio dal Nuovo testamento di Matteo: “Et intravit Iesus in templum Dei et eieciebat omnes vendentes et ementes in templo, et mensas nummulariorum everit et cathedras vendentium columbas, et dicit eis:Scriptum est: Domus mea domus orationis vocabitur”; vos autem facitis  eam  speluncam latronum” (N. T., 21, 12).

 

Traduco per chi ne avesse bisogno: E Gesù entrò nel tempio e scacciava tutti quelli che vendevano e compravano nel tempio, e rovesciò i banchi dei cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe e disse loro: “Sta scritto:

La mia casa sarà chiamata casa di preghiera;

ma voi ne fate una spelonca di ladri”.

La Scrittura in greco e in corsivo :

JO oi\jkov~ mou oi\ko~ proseuch`~ klhqhvsetai, uJmei`~ de; aujto;n poiei`te    sph`laion lhstw`n- 

Bologna 22 dicembre 2024 ore 13, 31 giovanni ghiselli

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