martedì 31 dicembre 2024

Ifigenia 151-152.


 

Ifigenia 151  Il calcolo positivo del Bene e del Male.

 

 

Dieci minuti dopo l’anestesia, il gentile odontoiatra con il trapano vorticoso forò due denti della fanciulla che poi sputò del sangue e, se pure non sentì molto male per via dell’iniezione, fastidiosa comunque, rimase così sbigottita che non poté trattenere qualche lacrima di compassione per sé.

La osservavo pensando: “probabilmente ogni uomo, persino il più avventurato, almeno una volta nel corso pur rapido della sua vita mortale, subisce una lacerazione cruenta nel corpo, destinato per giunta alla putrefazione nonostanti le cure, e sanguina e sente dolore; la vita però ci promette, e spesso mantiene, tanti momenti di gioia: prima di tutto l’amore quando nasce e cresce simultaneamente in due anime affini, una felicità di breve intervallo superata da quella divina, poi l’apprendimento, l’educazione ottenuta e donata, lo sport agonistico e no.

Se fai il calcolo del meno e del più ricordando il male e il bene: le botte, le ferite, le umiliazioni, le ingiustizie, le cattiverie, le calunnie subite da una parte; e dall’altra l’amore contraccambiato con reciproca felicità, il bene che fai e ti fanno, la giustizia che rendi e ottieni, il bello che crei, ispiri e ricevi con mutua beatitudine, il vero che cerchi e trovi e riveli: ebbene il risultato è positivo, se la coscienza non si è macchiata di grossi delitti e non hai commesso errori irreversibili. Sicché vivere tutto sommato vale la pena. Le perdite vengono compensate sempre, abbondantemente, finché viviamo. Poi, chi lo sa. Né Lucrezio né Dante, né il  vostro modesto redattore di vicende umane lo sa. 

Se perderò Ifigenia- mi dissi- vorrà dire che non ho altro da darle e che da lei ho già ricevuto quanto una tale bellezza poteva donarmi perché accrescessi la mia potenza e la mia volontà di fare del bene.

Insomma lì dal dentista rinnovellai le speranze.

 

Ifigenia 152   Le due cartoline

 

Il 14 agosto non arrivò posta per me. Il 15 nemmeno. Il 16 invece, era un giovedì, terminate le ore dell’ultimo giorno della scuola estiva, ancora prima che fossi uscito dall’Università per correre a vedere se c’era l’espresso, appena ebbi messo la testa fuori dall’aula, mi si avvicinò Stefania, la patavina commediante, e disse: “Gianni Ghiselli, in collegio c’è posta per te”.

 

“Ifigenia, l’espresso con una sentenza di vita o di morte su questo amore” pensai.

 

Il cuore mi balzò nel petto, le gambe tremarono, mi rombarono le orecchie e forse anche io, come la poetessa di Lesbo, divenni più verde dell’erba.

Tuttavia, facendomi forza per dissimulare la frenesia, ringraziai seccamente la nunzia e mi avviai verso il collegio, in fretta ma senza correre. Allora quella messaggera, usa alla farsa, dispiaciutissima poiché non le avevo dato l’occasione di fare una delle sue scene tragicomiche, gridò. “Ehi tu, ghiselli! Guarda che è solo una cartolina!”

“Grazie, anche troppo per  uno come me!”, risposi senza voltarmi, per non farle vedere la mia delusione e non darle la gioia di avermela inflitta come una pugnalata dentro la schiena.

“Maledetta istriona ficcanaso!”  mormorai.

Quindi, con pena, pensai. “ magari sarà una cartolina di Fulvio”

Allora non potevo sapere che di lì a pochi mesi la presenza di Fulvio mi sarebbe diventata più cara e gradita di quella dell’amante non amica e che l’anno seguente a Debrecen dove saremmo andati insieme tutti e tre, avrei preferito frequentare l’amico, e  altre persone da meno di lui, piuttosto che quella druda  dalla mente contorta, lamentosa, lugubre, ostile.

Nella cassetta posta presso la porta d’ingresso  dunque trovai non una ma due cartoline di Ifigenia che ancora una volta risuscitarono e rimisero in piedi la moribonda speranza.

Erano scritte in rosso, senza data. Nel timbro postale però si poteva leggere “Siracusa 7 agosto”.

Una diceva: “sono appena arrivata qui. Un bel posto. Mi manchi moltissimo, più di quanto immaginassi. Mi fido di te e di me. “Zazzì”. Tua Ifi. Quando ci vediamo?

E l’altra: “La Sicilia è magnifica. Il paesaggio stupendo: se tu fossi qui sarebbe meraviglioso. Ti amo tanto, sai? A presto. Ifigenia”.

Zazzì faceva parte del nostro linguaggio cifrato, del resto facilmente decifrabile da parte tua affezionato lettore che mi conosci, mi leggi, mi ascolti quando parlo in pubblico e con la tua attenzione mi spingi a scrivere e a parlare ancora.

Più o meno degnamente .

 

“E degnamente io, e degnamente tu” (cfr. Sofocle, Edipo re, v. 1339) 

 

Bologna 31 dicembre  2024 ore 22, 42  giovanni ghiselli

 

 

 

 

 

 

Ifigenia 150 All’ospedale di Debrecen con Isabella. Il delicato corteggiamento del vecchio dentista.

Nei giorni seguenti, prossimi al ferragosto,  vissi qualche minuto di buona speranza: una serie di momenti nei quali immaginavo di ritrovare la bella Ifigenia come la sera di novembre quando venne a trovarmi innevata e innamorata salendo le scale come una baccante nella ojreibasiva invernale in onore di Dioniso, oppure la vedevo camminare in primavera sui prati odorosi dove il vento le gonfiava la gonna scoprendo le ginocchia rotonde e parte delle cosce tornite, profumate di vita, oppure la ammiravo di nuovo sull’aia deserta illuminata tutta dal sole ardente di giugno, nuda e incoronata di spighe come l’estate.

 

Tali ricordi pieni di gioia si alternavano con cupe visioni dove Ifigenia appariva quale immonda strige dalla fauce avida, dal morso pieno di denti, dalle fessure viperèe degli occhi  che mi fissavano cercando di gettarmi addosso un fascino paralizzante. 

 

Di questi ultimi giorni della Debrecen 1979 ricordo anche una scena simpatica siccome naturale e vivace.

Era lunedì 13 quando accompagnai l’amica Isabella dentro il grande complesso  ospedaliero  dove nel luglio del ’71 avevo portato Elena che voleva sapere se fosse incinta o malata di cancro. Sentiva dolori nel ventre, il ventre suo benedetto, ricco di vita.

Volevo aiutarla certo, ma non senza l’intento di rendermela riconoscente e predisposta a contraccambiare il piacere di averle evitato l’autombulanza con un altro diverso e più grande piacere del quale avevo bisogno.

 Isabella non era una ragazza del tipo splendidissimo, tuttavia era gradevole  in quanto  dotata di stile, quindi aveva interessi elevati e a me congeniali come, per esempio,  il teatro. La accompagnai dunque nella clinica odontoiatrica senza l’intento palese o recondito di fare l’amore con lei. Tale mancanza di secondi fini mentre aiutavo una ragazza che non mi spiaceva, era segno di un pogresso non piccolo rispetto alle svariate volte in cui avevo dato una mano a una donna con lo scopo finale, latente tuttavia non secondario, che era diverso dall’aiutarla.

Quel giorno pensavo a Elena più che a qualsiasi altra persona: passando di fronte all’edificio con il frontone dove si leggeva “clinica delle donne malate e pregnanti” rivolsi un pensiero di riconoscenza alla finlandese bella e fine che con il suo dono meraviglioso mi aveva aiutato a trionfare sulle frustrazione che tante persone brutte, disordinate e cattive mi avevano inflitto. 

 

Il dentista era un vecchierello canuto, onesto e simpatico. Fu gentile con noi e bravo: lavorò bene, non volle denaro e parlando nella sua lingua con chierezza tranquilla, mi diede la possibilità, assai gradita, di tradurre tutto quanto diceva a Isabella che manifestava un amabile terrore. La ragazza che parlava italiano, con forte inflessione napoletana per giunta, si faceva capire siccome l’anziano odontoiatra conosceva il latino e anche per quella magica capacità che hanno le fanciulle carine di comunicare ai maschi più o meno attempati i loro desideri usando, ancora prima di qualsiasi strumento logico, la meravigliosa vitalità della giovinezza  e gli eterni, potenti richiami del sesso.

Il vecchio fece un’iniezione anestetica alla ragazza che, sebbene paziente, quel giorno era più bellina del solito, poi le disse che doveva aspettare almeno dieci minuti.

“Se vuole, rimanga qui signorina, ma, se preferisce, faccia pure due passi con il suo fidanzato”. Mimò la mossa dell’ambulare muovendo buffamente l’antico fianco.

Isabella rispose che non ero il suo fidanzato ma un amico.

Lo sussurrò con un tono dolce, sebbene un po’ impastato dall’iniezione.

Era spaventata dall’operazione cruenta che la attendeva ma anche un poco allusiva e stuzzicante nei confronti del simpatico anziano che, infatti, le disse: “Va bene kedves kisasszony, signorina cara, resti pure seduta qui, ma badi: siccome il giovanotto è solo un amico, io la corteggio: udvarolok. 

Quel dottore non mirava al fiorino o al dollaro: non aveva altro scopo che  curare la giovane senza farle paura; il suo stile era bello, il tono cordiale; Isabella era impaurita e gradevole: non si lamentava né faceva pesare la sua paura; io volevo aiutarla senza aspettarmi alcuna ricompensa: tutta la situazione era limpida e mi faceva obliare la partita truccata che da qualche tempo Ifigenia voleva giocare con me per usarmi il più possibile prima di andarsene via piantandomi in asso, perfidamente.

Ma come Arianna abbandonata in Nasso da Teseo, me la sarei cavata trovandone una del mio stampo, della mia levatura, una donna di grande formato se non una dea.

 

Bologna  31 dicembre 2024 giovanni ghiselli ore 22, 31 giovanni ghiselli

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Ifigenia 148 e 149.


 

Ifigenia 148  Il sogno “che del futuro mi squarciò  ’l velame”.

 

La notte tra l’11 e il 12 agosto feci un sogno angoscioso.

Mi vedevo a Pesaro nella casa delle zie, mentre studiavo e aspettavo un segno da Ifigenia. Ero in camera mia, quando udìi un suono flebile, come il frusciare delle ali di un uccello ferito. Veniva dal piano di sotto, forse dall’atrio dove si trovava il telefono. Era debole e fioco, tuttavia mi entrava nel cuore mettendolo in agitazione. Pensai, dormendo e sognando, che quel suono di morte  potesse essere una richiesta di aiuto. Allora mi vidi uscire dalla stanza e correre giù per le scale. Queste però si muovevano verso l’alto come i gradini di ferro che avevo visto salire e scendere tra i piani della Rinascente di Milano nei primi anni Cinquanta, non senza stupore.

Scendevo di corsa ma guadagnavo poco terreno a costo di enormi fatiche poiché i gradini dentati di quella scala ferrigna mi riportavano in su con una velocità quasi pari alla mia .

Oltretutto davanti all’ultimo tratto del ferreo tappeto che risaliva ruotando c’era un ostacolo: un inginocchiatoio con sopra la foto di un bambino nel giorno assai triste della prima comunione. Aveva l’aria di un orfano denutrito, infreddolito, reso spaurito e pallido dai patimenti. Chi era? Ero io? Era nessuno? Erano tutti i bambini infelici? Con uno sforzo supremo riuscivo a raggiungere il penultimo gradino, a saltare la barriera e ad afferrare il telefono.

“Pronto dissi con l’ultimo fiato. Sono gianni, pronto”.

“Pronto” rispose una voce tanto lontana e fioca che sembrava provenire dal paese nebbioso dei morti dove non brilla mai il sole.

“Io sono Claudia, la sua allieva, si ricorda di me?

“Oh, sì, certo, ricordo, ricordo benissimo te, il Minghetti i suoi lunghi corridoi scuri nelle mattine invernali, i sorrisi viceversa luminosi di voi giovani e la giovane collega venuta dal cielo a rallegrarmi nella stagione dolente. Era bella ma dozzinale”

Seguì un poco di silenzio, quindi Claudia mi domandò:

“Ha saputo cosa è successo?”

“No, che cosa?”

“Una cosa terribile prof”,  disse l’alunna

“terribile come? terribile a chi?”

“Una cosa terribile, terribile”, ripetè, poi tacque

Allora gridai: “A chi, a chi, alla vita della mia vita?”

Quindi iniziai a singhiozzare convulsamente e continuai, fino a quando il vecchio ceco che dormiva con me, mi diede una strattone e mi svegliò.

Questo fu il sogno “che del futuro mi squarciò  ’l velame”.

Avevo bisogno di affondare lo sguardo nelle situazioni tragiche che vivevo se volevo raccontarle in maniera da renderle universali, eterne.

Questa era la comprensione più profonda di tanto dolore

 

Bologna  31 dicembre  2024 ore 22, 16 giovanni ghiselli

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Il discorso di fine anno del presidente Mattarella è piaciuto a tutti grazie al sui cerchiobottismo.  

 

 

 

Ifigenia 149. Riflessioni sul sogno. La lucidità di Isabella

 

Il mattino seguente la colazione non parlai con nessuno né mi guardai intorno.

 Cercavo di interpretare le immagini oniriche pervenute dall’inconscio avvalendomi della lettura dei libri di Freud. Sapevo che la censura maschera il significato vero che cerca di rimanere latente. Volevo svelare  la verità che in greco oltretutto si dice ajlhvqeia, ossia “non latenza”.

Molto probabilmente la terribile notizia paventata al punto da farmi singhiozzare, io sotto sotto me l’aspettavo e addirittura la desideravo: Ifigenia me ne aveva fatte troppe perché potessi ancora desiderare una vita con lei. Non funzionavamo insieme: dovevo cercarmene un’altra. Oramai la lunga, vana e penosa attesa dell’epistola promessa  aveva causato in me un disgusto profondo per la giovane collega e amante, per quel mio pedagogico aborto, quel fallimento educativo nonostante tutte le fatiche umanamente spese per rendere anche buona quella donna bella che oramai mi appariva quale un diavolo incarnato.  Prospero e Calibano novelli eravamo noi due.

In lei vedevo disordine mentale, ingratitudine, mancanza di quella finezza d’animo di cui ho sempre sentito il bisogno nel prossimo mio.

 Mi sovvenni di quando l’aspettavo trepido sulla spiaggia di Pesaro, e lei, appena arrivata, disse con un sorriso sfacciato, plebeo, che in treno aveva vissuto tre quarti d’ora allegri e piacevoli, con un ferroviere fantastico.

“Di certo un cuccettista scaltro, abile nell’approfittare di ogni impudica attraente e disponibile”, avevo pensato.

Mi ricordai pure della sera quando, arrivato a Pesaro intorno alle 22 dopo un viaggio lungo e noioso sull’autostrada, ricevetti una telefonata da Ifigenia che mi chiedeva con insistenza di tornare indietro fino a Misano.

Ero reduce dallo scrutinio dell’esame di maturità al Beccaria di Milano ed ero  assai affaticato, eppure ne fui contento. Ma  quando l’ebbi raggiunta, mi raccontò che nel pomeriggio era stata sul moscone con un uomo interessante , un tale più o meno della mia età, molto esperto di donne che le aveva proposto, solo ioci causa certo, di entrare nel suo harem. Aggiunse che nel serraglio non sarebbe entrata, ma se io non ero troppo geloso sarebbe uscita con lui qualche volta la sera mentre ero a Debrecen. Risposi che doveva deciderlo lei.

Da siffatto comportamento ho imparato a non essere geloso: dopo Ifigenia quando una si è messa a ingelosirmi per scherzo o sul serio, ho subito disdetto la relazione dicendo che era stata solo un’avventura già finita.

 Ho cacciato dal mio cervello il mostro dagli occhi verdi che ha annientato Otello rendendolo pazzo e assassino di Desdemona, la disgraziata.

Poi l’ultima iniezione di veleno nel mio sangue già intossicato da lei: la promessa non mantenuta dell’espresso postale.

Conclusi che il sogno mi aveva indicato la via della ritirata da quella donna. Non mi aveva ancora lasciato ma io vivevo già senza di lei.

Sul mezzogiorno andai a correre i 5000 metri: 20 minuti e 15 secondi. Un poco meglio dell’ultima volta. Dopo la prova, Isabella che era venuta a cronometrarmi, disse: “se la tua compagna non ti scrive perché amoreggia con un altro ma vuole restare ancora del tempo con te perché le conviene, stai certo che non ti farà sapere niente della sua estate.  Il suo tempus tacendi sarebbe già scaduto se tu le stessi a cuore. Credo che aspetti di vedere come andrà a finire con il ganzo dell’estate. Se non potrà o non vorrà restare con quello e avrà ancora bisogno dell’aiuto tuo, dirà che ti ha sempre amato e non ti ha scritto perché paventava la tua critica letteraria”. Isabella era lucida oltre essere buona.

 

Bologna 31 dicembre 2024 ore 22, 23 giovanni ghiselli

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Ifigenia 147 Preghiera al dio Sole. Saluti alla signora e alla signorinella magiare. Addio a Marisa.


 

Uscito dalla csárda,  pregai  l’eroica luce del sole già molto vicino al margine occidentale della grande pianura.

“Aiutami Elio, a trovare dentro questo lungo travaglio l’idea del Bene di cui tu doni agli occhi mortali l’immagine visibile.

Dammi la lucidità necessaria per trovare nel dolore la comprensione del mio viaggio terreno, della serie di cause che mi hanno condotto qui e mi guideranno fino alla morte di questo povero involucro che tuttavia cerco di tenere bene con il tuo valido aiuto . Voglio assecondare il mio fato comunque esso sia. In ogni caso non mi sembra meschino. Ho già educato centinaia di giovani. Vorrei diventare maestro di un popolo intero. Questa sofferenza, se me la sono cercata e la coltivo, vuole dire che è dovuta alla mia crescita, al mio progresso di educatore. Sulla fellona che non mi dà risposte, in verità non mi sono mai creato illusioni. Non risponde perché non mi corrisponde: non è del mio stampo. Mi ha potenziato con il piacere che mi ha offerto, ma ora devo cercare di trarre altro potenziamento dalla intelligenza di questo dolore. Ho sempre imparato dalle sofferenze e dalle ingiustizie subite. Aiutami a capire santa faccia di luce, mente dell’Universo, primo fra tutti gli dèi. Aiutami a non impazzire per tanta pena, anzi a diventarne più saggio”.

Dalle canne della palude verde saettavano schiere di rondini verso sinistra, simili a frecce alate. Ottimo segno: volatus avium dirigit Sol invictus.

“Con il tempo-pensai- ho imparato che i segni del cielo sono tutti buoni se sappiamo volgerli al bene. Anche le sventure possono essere provvide. Sono funzionali all’insieme della vita: alla mia come a quella dell’Universo.

Scio sad conservationem Universi pertinere[1]”.

 

Alle 19, 41 il sole vermiglio spariva nella terra nera. “Dai contrasti bellissima armonia. –pensai ancora-Augurio di più sereno dì al pio educatore. Ma sono pio e sono davvero un educatore? Alcuni lo negano, altri lo giurano: sono segno di contraddizione anche io, come Socrate, come Giovanni Battista, l’onesto Giovanni, come Cristo e altri profeti”.

Ritenni che non aveva più senso rimanere lì fuori.

Rischiavo di compiacermi della solitudine fino a diventare un anacoreta demente.

Volevo rivedere la bambina con la madre per cogliere dei segni vocali da loro. Significavano molto parlando. Tornai seduto dov’era stato un quarto d’ora prima. La bella signora e la signorinella c’erano ancora.

La bambina mi domandò:

 “Dove sei stato Janos?”-

“A pregare, signorina Sarolta”

“Chi, Gesù?”

“No; il Sole che è la sua immagine visibile. Pensa che gli antichi consideravano il Natale come il giorno della nascita del Sole”

“Come mai?”

“Perché nelle giornate più corte pensavano che stesse morendo, poi vedendo che la luce cresceva, pensavano che era guarito e che tornava ad alzarsi”

“Quale grazia gli hai chiesto pregandolo?”

“Di mettere al mondo una figlia simile a te”

“Perché simile a me? Io non sono tanto buona”

“Lo diventerai se studierai e farai sport. Molto buona e bella assai, come tua mamma”

Ero riuscito a dire queste semplici frasi in ungherese.

La signora mi fece un sorriso e mi ringraziò.

Poi mi domandò se fossi italiano

“Sì, risposi dell’Italia centrale. Come ha fatto a capirlo?’”

“Dal naso e dalla  cortesia usata a noi due. Ho pensato che lo è tipicamente”.

“Anche voi siete state carine con me. E siete tipicamente, deliziosamente magiare. Ora vi devo salutare: vi auguro il meglio di tutto. Lo meritate”.

“Grazie. Arrivederci”.

Mi alzai e uscìi pensando: “missione compiuta. Ho raccolto i segni vocali di cui avevo bisogno”.

Dopo i complimenti di quelle due femmine umane beneducate potevo essere soddisfatto di me. Mi aveno fatto capire che meritavo una donna migliore della ragazza fallace che voleva indebolirmi cercando di farmi soffrire.

Sicché tornai in collegio e andai a dormire senza altro dolore.

 

 

p. s.

A proposito di signorinella.

Oggi mi è  venuta in mente Marisa, la signorinella tredicenne di cui ero perdita mente innamorato in terza media. Eravamo entrambi nell’ultima classe della scuola Lucio Accio di Pesaro, io nella sezione B dei maschi, Marisa nella A delle femmine. Eravamo  i più bravi delle rispettive classi e gareggiavamo per chi fosse il più egregio di tutto l’istituto. Alla sorella che mi ha detto della morte di Marisa avvenuta il 13 giugno scorso ho detto che era più brava lei, ma ce la giocavamo.

Oggi pedalando nel gelo ricordavo Marisa  e cantavo:

“Signorinella pallida,

amabile rivale di terza media,

la nostra legna è diventata cenera,

tu sei defunta e io son diventato vecchio e stanco!”

E non mi saziavo di lacrime.

Però pedalavo egregiamente  perché il ricordo di Marisa e dei nostri tredici anni mi dà ancora energia.

Quindi ho cantato ancora:

Negli occhi tuoi passavano

una speranza, un sogno, nemmeno una carezza ....

avevi un nome che non si dimentica,

un nome lungo e breve: giovinezza!

Ho poi ricordato di avere ottanta anni compiuti e che se entrassi in un conclave a gareggiare i cardinali antagonisti mi direbbero in coro:  “Non es papabilis!!”

E io risponderei: “deo gratias!!!!”  

 

 

 

Bologna  31 dicembre 2024 ore  20, 06 giovanni ghiselli

 

 

 

 

 



[1] Cfr. Seneca Ep. A Lucilio, 74, 20.

Ifigenia 146. Il teatro di legno, la puszta. Il dialogo con la bambina e la madre nella csárda di Hortobágy.


 

Nella O di legno[1] del teatro nella puszta  dunque l’anno seguente a questo che sto raccontando la mia giovane amante avrebbe pregato.

Chiedeva al buon Dio di farla diventare un’attrice famosa.

Insegnare proprio non le piaceva. Bella era bella kalh; kalhv[2].

Alle sue spalle, c’era la scenografia: il paesaggio non dipinto ma vero: le canne, il fiume paludoso, il ponte a nove arcate, il cielo. Davanti, sulla càvea, non c’era altro pubblico che me e Fulvio intento a fotografarla. Bella era bella. Ma debole e vana, mio Dio, nervosa, non abbastanza proba e colta, e nemmeno tanto astuta e dura da evitare di venire strapazzata, stritolata, inghiottita e vomitata da globo cattivo e corrotto dove voleva entrare nuda inopsque.

In quel mondo  spietato, clientelare, mistificatòrio, le relazioni sono rapporti di forza e di potere.

Lei aveva solo la transeunte, effimera venustà della giovinezza. Per giunta il suo sguardo non era abbastanza espressivo né in termini di dolcezza né in quelli della potenza. Aveva commosso me per il mio narcisismo nel tempo in cui mi imitava. Poi avevo perso interesse in seguito ai  suoi sgarbi, al suo egoismo, figli della sua scarsa immaginazione. Senza questa non si capiscono gli altri e non si può divenire un buon attore.

Avrei voluto comunque aiutarla a diventare forte e bella per sempre, non certo vomitarla dopo averla mangiata[3]. Altri l’avrebbero fatto probabilmente.

 

Ma torniamo all’agosto del 1979 . Osservavo i maiali edaci e obesi come sempre. Mangiano molto e capiscono poco. Pensavo: “I porci si nutrono, poi noi ci nutriamo di loro. Ci gonfiamo di carne non nostra. Negli uomini che non sanno o non vogliono pensare, l’anima forse serve soltanto a preservare il corpo dalla putrefazione, come fa il sale con i prosciutti di questi onnivori. Adesso chi sa pensare ed è capace di parlare con chiarezza, togliendo alle persone e alle cose le maschere imposte dal sistema, rimane isolato. Questo è un grave rischio per me. Io infatti vorrei vivere una vita politica, al servizio degli altri”.

Dalla csárda veniva il suono dei violini che  intonavano le danze ungheresi di Brahms. Soffio possente di un fatale andare[4] sempre più avanti, quasi sicuramente da solo, come quando arrivai in Ungheria nel luglio del ’66, come quando me ne andrò per sempre via dalla terra con la più eroica delle morti: senza nessuno vicino. Nemmeno un cane voglio.

Nella vita che mi resta invece vorrei imparare dell’altro e fare del bene.

Una donna che non risponde alle mie iterate  suppliche di  mandarmi una lettera, certamente non mi aiuterà. Anzi mi toglierebbe le grandi forze necessarie alla mia opera se rimanessimo insieme. Voglio procedere metodicamente sulla strada in compagnia di persone che condividano i miei gusti, i miei scopi, il mio bisogno di cultura e di arte”.

 

Intanto sopra il teatro di legno  avanzavano nuvole grosse, acquose: provenivano da ovest muovendosi verso il centro del cielo. Coprirono il sole portando un buio precoce, autunnale oramai. Mi si stringeva il cuore. I maiali invece continuavano a grugnire, a spalancare le fauci e mangiare.

Mancava solo che giocassero a tombola oppure a nercante in fiera come fanno gli umani ottenebrati dopo il cenone.

 Una vita la loro senza logos e con il solo pathos del consumo di cibo e di sesso, come certe pseudopersone con l’aspetto usurpato poi mentito di uomini e di donne. Andrebbero recuperati a  quanto non è solo bestiale. Fare capire che l’umano riguarda anche loro.  L’umano è inattuale, tuttavia a me piace osare l’inattuale. 

Le nubi coprivano grandi tratti  dell’immensa pianura. Le automobili sulla strada di Eger accendevano i fari. Erano solo le sette di sera, ora legale. Da alcuni comignoli si alzavano spirali di fumo. Autunno era. Mi aspettavano mesi molto difficili se quella mi lasciava o mi costringeva a scappare ad maiora mala vitanda. A un tratto le nuvole raggiunsero la parte orientale del cielo, verso l’Unione Sovietica, e così il dio si spogliò dalle nere e acquose, piagnucolose gramaglie .

Era più bello che mai: grande, rosso, e specchiandosi nell’acqua sotto le arcate si raddoppiava. Si inclinava sulla madre terra e le due immagini erano molto vicine. Si baciavano quasi. “Buon segno”, pensai. “domani mattina, o forse già questa sera, miracolosamente troverò la posta che restaurerà il mio equilibrio”. C’era un senso di pace nell’aria. Una cicogna  volava ad ali amoiamente spiegate verso il nido per nutrire i pulcini e passarvi la notte. Anche io presto sarei tornato ai miei affetti. Se Ifigenia non aveva scritto, c’erano comunque i libri dei miei autori e la bicicletta, organi sempre vivi della mia contentezza . Poi l’amico carissimo Fulvio e gli studenti amati. E avrei trovato un’altra donna meno disordinata e cattiva. Così tra il rassegnato e il confortato entrai nella csárda.

Andai a sedermi al tavolo dove ero stato  con le  tre  finniche: Helena, Kaisa, Päivi in tre anni già allora parecchio lontani. Dall’ultimo erano passati cinque estati, già un grande spazio nella vita di un uomo[5].

Da Elena Augusta addirittura otto.

 

 

 Ricordare quelle tre muse mi spingeva a scrivere. Erano state loro le prime a scoprire il mio valore e a farlo riconoscere a me: ogni cosa buona che ho fatto la devo alle loro grazie. Con l’aiuto che mi veniva dal ricordo del bene ricevuto da quelle tre donne fatidiche trovavo la forza di rifiutare chiunque volesse svalutarmi e avvilirmi.

Non smetterò mai di unire le Grazie alle Muse.

Dunque scrissi: “Dopo non avere degnato di una risposta le mie suppliche e non avere mantenuto una promessa inviata in fretta, a casaccio  con un telegramma bugiardo, scritto tra una baldoria e un’altra, Ifigenia nihil iam putabit esse nefas nei miei confronti: crederà di poter infliggermi qualunque torto, menzogna e umiliazione”.

Cercavo le parole forti e atte a deprecare la sciagurata, quando una bambina bruna bruna di sette-otto anni che si trovava seduta su una panca contigua mi domandò perché non scrivessi in ungherese.

“Perché non lo so fare-risposi-conosco solo poche parole nella tua lingua”

“Per esempio?”

“Queste che sto dicendo a te”

“E poi?”

“Sei molto bellina. Come ti chiami?”

“Sarolta[6]. E tu?”

“gianni, Jáno".”

La mamma seduta di fianco alla figlia intervenne: “Sarolta, ringrazia il signore e lascialo scrivere”

Allora la bambina disse, riempiendomi il cuore di gioia: “sei carino anche tu”.

“Grazie creatura”. Poi aggiunsi: “complimenti signora per questa bella bambina. Non c’è dubbio che sia sua figlia. Talis mater…”. Mi guardò stupita forse non si aspettava di venire corteggiata davanti alla figlia.

Ma io davanti a una bella donna non riesco a non farlo. Soprattutto se è una mamma e ancora di più se è la mamma di una bambina. Avevo comunque capito che bastava così. Corteggiare sempre, molestare mai.

Quindi le lasciai in pace. Non senza pensare che se al mio letto di moribondo si avvicinerà un’infermiera carina la corteggerò con l’ultimo fiato e se questo angelo mi farà un sorriso ne sarò rallegrato in punto di morte.

“Ecco- ripresi a scrivere- la mia compagna ideale dovrebbe essere ingenua e diretta come questa cittina. Le finniche un po’ primitive, pure se colte, si avvicinavano a questo modello. Con loro avevo potuto parlare senza infingimenti. Dopo altri cinque anni di partite a scacchi o di poker, insomma di bluff, con le amanti, le colleghe, i colleghi, i presidi e così via, non ne posso più di finzioni.

Perché quella non scrive? Come puoi avere ancora dei dubbi? Perché non ti ama. Allora se non sei un budello, se sei un uomo umano nei tuoi stessi confronti,devi disprezzarla e rigettarla. Già senti la nausea. Mettiti un dito in gola, l’indice, e vomitala tutta”.

Uscìi dalla csárda. Il sole si era avvicinato tanto alla strada di Eger da trasformarla in un tappeto di porpora. Una guida verso l’eternità dell’arte o la via dolorosa verso una morte straziante? Mi sovvenne il sire Agamennone[7]

Bologna 31 dicembre 2024  ore 19, 27 giovanni ghiselli.

 

p. s.

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[1] Cfr. di nuovo Shakespeare, Enrico V, prologo v. 13 “this wooden O”

[2] Cfr. Callimaco, Antologia Palatina, XII, 43, 5

[3] Cfr. Shalespeare, Otello dove Emilia, la moglie di Iago, dice:

 “ ‘Tis not a year or two shows us a man

They are all but stomachs and we all but food;

They eat us hungerly, and when they are full

They belch us. Look you, Cassio and my husband” (III, 4)  

 

[4] Pascoli, Alexandros , v. 34

[5] Cfr.  Tacito, De vita Agricolae, III, quindecim annos, grande mortalis aevi spatium.

[6] Carlotta

[7] Cfr. Eschilo, Agamennone, 910: “porfurovstrwto" povro"

 

Metodologia 64. Il sapere non è sapienza (Euripide, Baccanti, v. 395).Questa si tuffa nel fiume della vita.


 

Due uomini teoretici: Socrate e Faust. Dodds: cleverness is not wisdom. Il grande dittatore di Chaplin: “More than cleverness we need kindness and gentleness”. L’odiosa sapienza (ejcqra; sofiva) denunciata da Pindaro. La cultura è potenziamento della natura (Nietzsche). T. S: Eliot. Cicerone. Lo studio deve servire alla vita e all’attività .

La vita stessa è fatta per la vita (Leopardi). Petronio. Marziale (hominem pagina nostra sapit). Il Galileo di Brecht: la scienza deve alleviare le fatiche dell’esistenza umana. Ancora Nietzsche e gli “uomini correnti” come la moneta. Thomas Mann: c’è un nesso tra la filologia e la bellezza e la dignità razionale dell’uomo. I saperi fumosi del didattichese, e i saperi umani di Teseo nell’ Edipo a Colono e di Antigone nelle tragedie di Sofocle. Terenzio. I fratelli Karamazov di Dostoevskij. Oblomov di Gonĉarov e L’ospite inquietante di Galimberti: Lucifero era il più intelligente degli angeli. Massimo Cacciari e la filologia non sedentaria, la filologia che contra-dica l’ora. Nietzsche e le due filologie: una, quella delle talpe, suscita scherno, l’altra, quella delle idee, provoca odio[1]. 

   Questo discorso metodologico, prossimo alla conclusione, può essere sintetizzato e autorizzato con una bella espressione dello stesso Euripide: "to; sofo;n  d  j ouj  sofiva" (Baccanti , v. 395), il sapere non è sapienza. La sofiva è lo scopo di quella cultura che Nietzsche chiama tragica: "la sua principale caratteristica consiste nell'elevare a meta suprema, in luogo della scienza, la sapienza". La sapienza si tuffa nel fiume della vita. Il sapere al contrario è il fine dell'uomo teoretico il quale "non osa più affidarsi al terribile fiume  dell'esistenza: angosciosamente egli corre su e giù lungo la riva”[2] .

Uomini teoretici secondo Nietzsche sono Socrate e Faust, il primo convinto, il secondo scontento “: A un vero Greco come dovrebbe apparire incomprensibile Faust, l’uomo di cultura moderno in sé comprensibile, che si precipita insoddisfatto attraverso tutte le discipline, dedito alla magia e al diavolo per brama di sapere, che ci basta mettere a confronto con Socrate per vedere come l’uomo moderno cominci ad avere sentore dei limiti di quel piacere socratico per la conoscenza, e come dal vasto e deserto mare del sapere aneli a una costa!”[3] .

A Faust manca la Natura: “Dove afferrarti, infinita Natura? E voi mammelle, dove?” (Notte, 455). Egli è l’uomo teoretico pentito e assetato di vita.

Si rivolge anche alla luna: “Oh potessi, deterso dai fumi del sapere, tuffarmi sano nella tua rugiada! (Notte, 595-596)

“Il punto di partenza non è più l’ignoranza, la selva oscura; ma la sazietà e vacuità della scienza, l’insufficienza della contemplazione, il bisogno della vita attiva. La sapiente Beatrice si trasforma nell’ignorante e ingenua Margherita; e Faust non contempla ma opera: anzi il suo male è stato appunto la contemplazione, lo studio della scienza, e il rimedio che cerca è ribattezzarsi nelle fresche onde della vita”[4].

E. Dodds indica un nesso tra questa sentenza del primo stasimo delle Baccanti e la transvalutazione denunciata da Tucidide in III, 82  di cui abbiamo detto sopra[5] :

cleverness is not wisdom’, ‘the world’s Wise are not wise’ (Murray). Here again the Chorus take up a thought expressed in the preceding scene: to; sofovn has the same implication as in 203[6]; it is the false wisdom of men like Pentheus, who fronw'n oujde;n fronei' (332, cf. 266 ff., 311 ff.), in contrast with the true wisdom of devout acceptance (179, 186)…for the paradoxical form cf. I A. 1139 oJ nou'~ o{d j aujto;~ nou'n e[cwn ouj tugcavnei[7], Or. 819 to; kalo;n ouj kalovn[8]. Such paradoxes are the characteristic product of an age when traditional valuations are rapidly shifting in the way described in the famous passage of Thucydides on the transvaluatation of values, 3, 82”[9], ‘l’ingegnosità non è sapienza’, ‘la Maniera del mondo, non è saggia’ (Murray). Qui di nuovo il Coro assume un pensiero espresso nella scena precedente: il sapere ha la stessa implicazione che al v. 203; è la falsa sapienza di uomini come Penteo, il quale pur avendo la mente non ha la sapienza (332, cfr. 266 ss.[10] 311 ss.[11]), in contrasto con la vera saggezza della pia accettazione (179, 186[12])…per il modulo paradossale cfr. Ifigenia in Aulide 1139 , Oreste 819. Tali paradossi sono il prodotto caratteristico di un’età in cui le valutazioni tradizionali stanno rapidamente cambiando nel modo descritto nel famoso passo di Tucidide sulla transvalutazione dei valori, 3, 82.

 

Un’ idea del genere si trova  nel discorso finale del film di Chaplin The great dictator (1940): il barbiere, sosia di Hynkel-Hitler, scambiato per il grande dittatore deve parlare alla folla con parole  che legittimino e anzi esaltino la prepotenza del tiranno, presentato  come il futuro imperatore del mondo dal ministro della propaganda Garlitsch-Goebbels. Ebbene il piccolo grande uomo non rispetta la parte che gli hanno assegnato e dice di non volere comandare su nessuno, ma aiutare tutti. Poi continua così: “Our knowledge has made us cynical, our cleverness hard and unkind. We think to much and feel to little. More than machinery we need humanity. More than cleverness we need kindness and gentleness”, la nostra conoscenza ci ha resi cinici, la nostra intelligenza duri e scortesi. Noi pensiamo troppo e sentiamo troppo poco. Più che di macchinari abbiamo bisogno di umanità. Più che di intelligenza abbiamo bisogno di bontà gentilezza.

 

 

La sapienza non è di vedute basse e volgari: Pindaro nell’ Olimpica IX afferma che diffamare gli dei è odiosa sapienza (tov ge loidorh'sai qeouv"-ejcqra; sofiva, vv. 37-38), e che le montagne della sapienza, essendo scoscese (sofivai menv-aijpeinaiv, 107-108), contengono la forza della natura e richiedono grandi energie per scalarle.

Vale la pena di riferire anche l'esegesi di T. Mann: "A questa tragica saggezza, che benedice la vita in tutta la sua falsità, durezza e crudeltà, Nietzsche ha dato il nome di Dioniso"[13]. La sapienza dei Greci  insegna a vivere con coraggio, spinge il giovane a diventare quello che è. “I greci impararono a organizzare il caos, concentrandosi, secondo l’insegnamento delfico, su se stessi, vale a dire sui loro bisogni veri, e lasciando estinguere i bisogni apparenti”[14]. Questi oggi sono indotti dalla pubblicità.

 

Il ragazzo con il nostro aiuto può capire che la cultura deve essere "qualcos'altro che decorazione della vita, cioè in fondo unicamente dissimulazione e velame, poiché ogni ornamento nasconde la cosa ornata. Così gli si svelerà il concetto greco della cultura (…) il concetto della cultura come una nuova e migliore physis, senza interno ed esterno, senza dissimulazione e convenzione, della cultura come unanimità fra vivere, pensare, apparire e volere[15]. 

“Voglio, una volta per tutte, non sapere molto.- La saggezza pone dei limiti anche alla conoscenza”[16].

“T. S. Eliot affermava: “Qual è la conoscenza che noi perdiamo nell’informazione e qual è la sapienza (wisdom) che perdiamo nella conoscenza?. Si tratta, nell’educazione, di trasformare le informazioni in conoscenza, di trasformare la conoscenza in sapienza…”[17].

Si ricordi il già citato: “After such Knowledge, what forgiveness? ”[18], dopo una tale conoscenza, cos’è mai il perdono?

Già Cicerone nel De officiis[19] mette in rilievo il fatto che la conoscenza  (cognitio) sarebbe  manchevole in un certo modo e incompiuta (manca…atque inchoata) se non ne seguisse alcuna attività pratica:"si nulla actio rerum consequatur (I, 153).

Tale attività deve vedersi nella tutela dei vantaggi dell'uomo, e, siccome riguarda la società del genere umano, tale actio va anteposta alla conoscenza priva di azione :" haec cognitioni anteponenda est" I, 153.

Se alla conoscenza non fosse connessa la  virtus, che contribuisce alla tutela degli uomini, tale cognitio  risulterebbe solivaga et ieiuna (I, 157), isolata e arida. Quindi ogni officium che mira ad societatem tuendam, a difendere la società umana, deve essere anteposto ai compiti che si limitano alla conoscenza teorica (De officiis, I, 158).

 

Lo studio va fatto per la vita e per l’attività poiché la vita stessa è fatta per la vita e per l’attività: “La vita è fatta naturalmente per la vita, e non per la morte. Vale a dire è fatta per l’attività, e per tutto quello che v’ha di più vitale nelle funzioni dei viventi (5 Maggio 1822)”[20].

 

Anche il classicismo e il realismo di Petronio, attraverso lo scholasticus Encolpio, denunciano la separazione della scuola dalla vita:"et ideo ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus aut audiunt aut vident, " (Satyricon, 1, 3), e perciò io penso che i ragazzi nelle scuole diventino stupidissimi, poiché niente ascoltano o vedono di quello che è utile nella vita.

Petronio[21], epicureo, atticista e classicista, dichiara che la vita  contiene situazioni più interessanti di tutte le scuole di retorica.

E' la critica della scissione tra letteratura e vita che si ritrova in Marziale:"Non hic Centauros, non Gorgonas Harpyasque/invenies: hominem pagina nostra sapit "(X, 4, 9-10), non qui troverai Centauri, Gorgoni e Arpie: la nostra pagina sa di uomo.

Insomma ogni conoscenza, compresa quella delle lingue classiche, deve servire al progresso dell'uomo. 

Il Galileo di Brecht nell'ultima scena del dramma[22] afferma il dovere morale di rendere il sapere funzionale al bene dell'umanità:"Che scopo si prefigge il nostro lavoro? Non credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di alleviare le fatiche dell'esistenza umana. Se gli uomini di scienza non reagiscono all'intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l'uomo".

 

 L'egoismo degli affaristi invece vuole una scienza e una scuola che portino al profitto monetario. Secondo questa gente "l'educazione sarebbe definita come l'esatta cognizione per cui si diventa completamente attuali, nei bisogni e nella loro soddisfazione, per cui però, in pari tempo, si dispone, nel modo migliore, di tutti i mezzi e le vie per guadagnare il più facilmente possibile del denaro. Formare il maggior numero possibile di uomini correnti- a quel modo per cui si dice corrente di una moneta- questo dunque sarebbe il fine; e un popolo, secondo questa concezione, sarà tanto più felice quanti più uomini correnti del genere possederà…Qui si odia ogni educazione che renda isolati, che ponga dei fini al di là del denaro e del guadagno…Secondo la moralità che qui è valida, si apprezza…una istruzione rapida per diventare presto un essere che guadagna denaro e una istruzione approfondita quanto basta per diventare un essere che guadagna moltissimo denaro"[23].

 

Non deve esserci conflitto tra il sapere scientifico e la sapienza umanistica.     

Gli insegnanti di lettere antiche devono essere maestri di umanità, e di quell’ umanesimo del quale non possono fare a meno gli scienziati.

 E' quello che Thomas Mann fa dire a Serenus Zeitblom nel Doctor Faustus: "non posso far a meno di contemplare il nesso intimo e quasi misterioso fra lo studio della filologia antica e un senso vivamente amoroso della bellezza e della dignità razionale dell'uomo (...) dalla cattedra ho spiegato molte volte agli scolari del mio liceo come la civiltà consista veramente nell'inserire con devozione, con spirito ordinatore e, vorrei dire, con intento propiziatore, i mostri della notte nel culto degli dei"[24].  E’ il caos che si fa cosmo.

 

Ai saperi fumosi contrappongo altro sapere. Quello che  il vecchio Sofocle attribuisce a Teseo  nell'Edipo a Colono : "e[xoid  j ajnh;r w[n[25]"(v.567), so bene di essere un uomo. E' la coscienza della propria umanità senza la quale ogni atto violento è possibile.

Il sapere di essere uomo che cosa comporta?

Significa incontrare una creatura mezza distrutta come è Edipo cieco, esule e mendico, provarne pietà, incoraggiarla ponendo domande, chiedendo di che cosa abbia bisogno: “kaiv s  j oijktivsa"-qevlw  jperevsqai[26], duvsmor j Oijdivpou, tivna-povlew" ejpevsth" prostroph;n ejmou' t  j e[cwn,-aujtov" te chj sh; duvsmoro" parastavti"", (vv. 556-559), e sentendo compassione, voglio domandarti, infelice Edipo, con quale preghiera per la città e per me ti sei fermato qui, tu e l’infelice che ti aiuta. Quindi significa ascoltare, mettersi nei panni del supplice e comprendere con simpatia poiché siamo tutti effimeri, sottoposti al dolore e destinati alla morte.

" Fammi sapere-continua l’umano re di Atene- infatti dovresti raccontarmi misfatti atroci perché mi sottraessi; poiché so che anche io sono stato allevato da straniero, come te, e in terra straniera ho affrontato più di ogni altro uomo lotte rischiose per la mia vita, sicché non rifuggirei dal salvare nessuno straniero, come ora sei tu, in quanto so di essere uomo (e[xoid  j ajnh;r w[n, v. 567) e so che del domani nessun attimo appartiene più a me che a te"(vv.560-568). Queste parole potrebbero essere utili alla rieducazione dei razzisti nostrani.

E' una dichiarazione di quella filanqrwpiva che si diffonderà in età ellenistica e partorirà l'humanitas  latina.  

Una simile dichiarazione di umanesimo, quale interesse per l'uomo e di Terenzio:"  :"Homo sum: humani nil a me alienum puto "[27].disponibilità ad ascoltarlo, leggiamo nel  più    famoso verso

  Comprendere comporta un processo di identificazione, lo abbiamo detto anche riferendo l’umorismo di Pirandello e la terapia del rovesciamento di Bettini[28]. Ascoltare è parte essenziale di questo umanesimo, ascoltare e farsi ascoltare:"Se avrai davanti a te gente cattiva che non vorrà ascoltarti, prosternati davanti ad essa e chiedile perdono, poiché, in verità, anche tu sei colpevole se non vogliono ascoltarti. E se non puoi farti ascoltare dagli uomini ostili, taci e servili con umiltà, senza mai perdere la speranza"[29].

Anche Oblomov di Gonĉarov nega valore all'intelligenza che non comprende l'umanità:"Voi credete che il pensiero possa fare a meno del cuore. No, il pensiero è reso fecondo dall'amore. Tendete la mano all'uomo caduto per sollevarlo, o piangete lacrime amare su di lui, se egli è finito, ma non lo schernite. Amatelo, riconoscete voi stesso in lui e trattatelo nel modo in cui trattereste voi stessi"[30].

“Ma oggi chi si prende cura del cuore? Del cuore in senso forte, così come Pascal lo descrive quando parla di esprit de finesse da armonizzare con l’ esprit de géometrie [31], quindi con la nostra intelligenza che, senza cuore, non diventa solo lucida e fredda, ma origine prima del male, quel male assoluto che il Genesi descrive quando, nel tratteggiare la figura di Lucifero, ne parla come del “più intelligente degli angeli”[32][33].

Un altro sapere che raccomando, poiché  fonda la coscienza di una identità non gregaria, è quello di Antigone nella tragedia di Sofocle.  Quando Ismene le fa notare : "tu hai il cuore caldo per dei cadaveri gelati" (v. 88), ella risponde : " ajll j oi\d  j ajrevskous j oi|" mavlisq  j aJdei'n me crhv" (Antigone, v. 89), ma so di essere gradita a quelli cui soprattutto bisogna che io piaccia".

Sulla filologia non fasulla, non sedentaria, non priva di amore, sentiamo una riflessione di Massimo Cacciari: "Sia chiaro: sedentaria filologia…non è filologia. Filologia è amore per il logos, per l'inesauribile energia della parola vivente, dei ritmi che assume, delle voci che la incarnano. Una ricerca interminabile del logos, così come la filo-sofia lo è della sapienza. Filologia e filosofia sono assolutamente inseparabili - ed è per questo che vanno insieme nella condanna che l'ora ha pronunciato nei loro confronti…Filologia è rigorosa disciplina. Perché un testo ci parli, anzi: contra-dica l'ora, occorre saperlo intendere oltre la sua lettera, ma dopo averla per intero attraversata!…L'insegnamento dei classici dovrebbe indurci a un 'salutare macro-terrore per la lingua' (Nietzsche) "[34].

 

Nietzsche prende in considerazione due tipi di filologie e due tipi di avversari della filologia: “Ovunque si incontrano schernitori sempre pronti a dare una stoccata alle “talpe” filologiche[35], a quella genia che inghiotte polvere ex professo, e che, se anche una zolla è stata scalzata già dieci volte, la scalza e la smuove per l’undicesima. Ma per questo tipo di avversari la filologia è un passatempo certo inutile ma innocuo e non dannoso, un oggetto di scherzo e non di odio. Un odio rabbioso e sfrenato contro la filologia alberga invece ovunque l’ideale viene temuto in quanto tale, ovunque l’uomo moderno si inginocchia in felice adorazione di sé e la grecità viene considerata come superata e perciò del tutto indifferente. Di fronte a questi nemici, noi filologi dobbiamo sempre contare sul sostegno degli artisti e delle nature artistiche, perché solo loro possono capire che sul capo di chiunque perda di vista l’indicibile semplicità e la nobile dignità dei Greci pende la spada della barbarie, e che nessun progresso della tecnica e dell’industria, per splendido che sia, nessun regolamento scolastico, per aggiornato che sia, nessuna formazione politica della massa, per diffusa che sia, possono proteggerci dalla maledizione di un cattivo gusto ridicolo e scitico e dall’annientamento per opera della bella e terribile testa di Gorgone del classico ”[36].

Bologna 31icembre 2024 ore 17, 01 giovanni ghiselli

p. s.

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[1] Cfr. 46 e 49.

[2] La nascita della tragedia , capitolo 18

[3] La nascita della tragedia , capitolo 18.

[4]F. De Sanctis Storia della letteratura italiana, 1, p. 155.

[5] Cap. 17.

[6] Le tradizione ricevute dai padri, quelle che possediamo/

coeve con il tempo, nessun ragionamento le abbatterà,/

neppure se per opera di menti appuntite viene trovato il sapere (oujd j eij di j a[krwn to; sofo;n hu{rhtai frenw'n) (Baccanti, vv. 201-203), parla Tiresia (ndr)

[7] Questa astuzia, sebbene costui abbia astuzia, non funziona. Clitennestra parla ad Agamennone che fa il finto tonto Ndr.

[8] E’  secondo stasimo: il  Coro di fanciulle argive che deplora l’assassinio di Clitennestra, un atto ambiguo : può apparire bello ma non lo è. Ndr.

[9] E. R. Dodds, Euripides Bacchae,  p. 121

[10] Quando un uomo saggio abbia preso buoni spunti/per le sue parole, non è grande impresa il parlare bene;/tu hai sì una lingua sciolta, come se avessi senno,/

ma nei tuoi discorsi non c'è senno (Baccanti, 266-269). Ndr

 

[11] Via Penteo, da' retta a me:/non presumere che il potere abbia potenza sugli uomini,/e non credere, se tu hai un'opinione, ed è un'opinione malata,/di avere una qualche sapienza; invece accogli il dio nella nostra terra/e fai libagioni e baccheggia e incoronati la testa. (Baccanti,  309-313) Ndr.

 

[12] O Carissimo,  poiché ho inteso udendo la tua voce/saggia da un uomo saggio, stando nella reggia/eccomi pronto con questo costume del dio;/bisogna infatti che quello essendo figlio della figlia mia/(Dioniso che si rivelò dio agli uomini)/per quanto ci è possibile sia esaltato come grande./Dove bisogna danzare, dove fermare il piede,/e scuotere la testa canuta? Fai da guida tu vecchio/a me vecchio, Tiresia: tu infatti sei saggio./Poiché non potrei stancarmi né di notte né di giorno/di battere la terra con il tirso: ci siamo dimenticati volentieri/di essere vecchi (Baccanti, 178-190). E’ Tiresia che parla a Cadmo.  Ndr.

 

[13] T. Mann, La filosofia di Nietzsche (del 1948), in  Nobiltà dello Spirito, p. 814.

[14] Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita del 1874 in Considerazioni inattuali, II,  capitolo 10.

[15]Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia per la vita in Considerazioni inattuali, II,  capitolo 10.

[16] Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, p. 5.

[17] Morin, La testa ben fatta, p. 45.

[18] T. S. Eliot, Gerontion, v. 34.

[19] 44 a. C.

[20] Leopardi, Zibaldone, 2415.

[21] Penso che l'autore del Satyricon sia l' elegantiae arbiter della corte di Nerone (cfr. Tacito, Annales, XVI, 18)..

[22] Vita di Galileo, del 1957. Cito dalla traduzione di Emilio Castellani.

[23] F. Nietzsche, Considerazioni inattuali III, Schopenhauer come educatore,  p. 211.

[24]T. Mann, Doctor Faustus ,  pp. 12 e 14.

[25] Questa espressione può essere un ottimo punto di partenza per spiegare il participio predicativo, e poi “condirlo” , come si diceva (capp. 18 e 19) , con la letteratura.

[26] Aferesi da ejperevsqai, infinito aoristo da ejpeivromai, “domando”

[27]Heautontimorumenos  ,77.

[28] Cfr. 21. 1.

[29] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov , p. 403.

[30] Ivan  Gonĉarov, Oblomov (del 1859), p. 53.

[31] B. Pascal, Pensées (1657-1662, prima edizione 1670); tr. It. Pensieri, Rusconi, Milano 1991, &21.

[32] Genesi, 3, 1.

[33] U. Galimberti, L’ospite inquietante, p. 50.

[34] In Di fronte ai classici, p. 25.

[35] Per  i filologi come talpe cfr. la lettera di Nietzsche a Erwin Rohde, del 20 novembre 1868: “Quella brulicante genia di filologi dei giorni nostri, quell’affaccendarsi da talpe, con le cavità mascellari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di essersi accaparrate un verme, e indifferente verso i veri, urgenti problemi della vita”.

[36] Omero e la filologia classica, p. 221.