Qualis artifex pereo! il lunatico imperatore disse queste parole poco prima di uccidersi secondo Svetonio (Neronis vita, 49) .
Per certi versi potrebbe prefigurare Ludwig II di Baviera o perfino Hitler: artisti mancati cui il potere non è bastato a placare la frustrazione e la delusione subita nel campo sublime della creazione artistica.
Il tiranno crudele è già abbastanza conosciuto; con questo pezzo voglio evidenziare l’artista, anzi l’artista mancato, che si suicidò nel giugno del 68 d. C. rivendicando questa identità e il suo ruolo di artifex piuttosto che quello di imperatore. Era nato nel dicembre del 37, quindi non aveva ancora compiuto 31 anni quando morì, e alcune sue stravaganze, anche terribili, si possono considerare dovute alla giovane età che il ragazzo Nerone non arrivò a superare. Per giunta ebbe una madre intrigante e atroce che voleva condizionarlo e della quale si sbarazzò uccidendola. Ma dovette sembrargli un delitto di dignità mitologica e teatrale, come quello di Oreste; infatti gli piaceva assai recitare, e tra le parti tragiche sceglieva spesso quella del figlio di Clitennestra, il matricida difeso da Apollo e assolto dal tribunale ateniese dell’Areopago presieduto da Atena alla fine della trilogia Orestea di Eschilo.
Nella regia dello spettacolo, Nerone potè, forse, indicare un parallelo tra Agrippina che morendo aveva detto al sicario “ventrem feri’(Tacito, Annales XIV, 8), colpisci il ventre, e Clitennestra che si denuda il seno davanti a Oreste chiedendogli di fermarsi (Eschilo, Coefore, 896).
Nerone recitò anche la parte di un altro uccisore della madre: Alcmeone che aveva ammazzato Erifile, la quale, per avere la collana di Armonia ereditata da Polinice, aveva mandato a morire il marito Anfiarao nella guerra dei Sette contro Tebe organizzata dal figlio di Edipo esautorato dal fratello Eteoclr
L’imperatore interpretava spesso anche il ruolo di Edipo: mendicante, cieco, parricida, incestuoso.
Svetonio suggerisce un probabile rapporto erotico con Agrippina: si diceva che quando andava in lettiga con la madre, il ragazzo si desse al piacere incestuoso, testimoniato dalle macchie sulla veste (Vita di Nerone, 28). Dicevano pure che tra le sue concubine c’era una meretrice somigliantissima ad Agrippina.
Recitando, l’imperatore indossava maschere simili alle facce dei personaggi, oppure alla propria. Infatti voleva assomigliare ai suoi eroi.
Interpretava anche Eracle furioso che aveva ucciso i propri figli in quanto reso pazzo da Giunone. Il figlio di Zeus non era responsabile del misfatto: altrettanto Nerone che aveva ucciso Poppea incinta in un accesso di follia.
Insomma: Nerone mitologizzava i propri delitti per prendere le distanze dai delinquenti comuni e assumere la veste del grande personaggio tragico. Recitava anche in ruoli femminili : una volta stava interpretando Canace partoriente che ebbe un figlio dal fratello Macareo, e quando chiesero di lui, un soldato rispose: “partorisce”.
Nel 66 e nel 67 Nerone calcò teatri e stadi greci.
Roma, il teatro di Pompeo e il grande circo dell’Urbe infatti non gli bastavano più.
Nella culla della civiltà le folle e i soldati lo acclamarono vincitore di tutti i grandi giochi: Olimpici, Pitici, Nemei, Istmici (Cassio Dione 63, 10). Una specie di grande slam dell’epoca. Aveva una predilezione per i Greci dai quali si sentiva capito più che dai Romani, ed era talmente grato degli allori raccolti nella gare panelleniche che, partendo, soppresse la provincia Acaia e donò la libertà a quella nazione di esteti, quindi la esentò dai tributi.
Lo attesta l’iscrizione di Acrefia, in Beozia, rinvenuta dall’epigrafista Maurice Holleaux: “Greci, vi faccio un dono tanto grande che voi stessi siete incapaci di chiederlo, ammesso che ci sia qualcosa che da un uomo magnanimo come me non ci si possa aspettare. A tutti voi, uomini dell’Acaia e del Peloponneso, accordo la libertà e l’esenzione dalle tasse”.
Gli Elleni lo contraccambiarono: lo salutarono come Zeus liberatore e dopo la sua morte aspettavano il ritorno di Nerone, come Messia e vendicatore contro l'oppressione di Roma.
E il greco, sacerdote delfico, Plutarco, immagina che l'anima di Nerone, già condannata a vivere nel corpo di una vipera, passi alla vita di un cigno, poiché aveva fatto qualche cosa di buono liberando i Greci, la stirpe più insigne e cara agli dèi (I ritardi della punizione divina 567 F).
Questa passione di recitare suonando la cetra non era la sola: amava altresì guidare la quadriga nel circo. Tacito considera ignobili queste attitudini, ma anche dietro il gusto delle corse con i cocchi c’era un’idea: l’ imperatore ricordava che gareggiare con i cavalli era stata attività di re, poi celebrata da grandi poeti, si pensi a Pindaro, e praticata in onore degli dèi.
Per quanto riguarda l’abbigliamento, Nerone seguiva i dettami di Petronio, il probabile autore del Satyricon, splendido romanzo che descrive con lingua da orafo i vizi di una civiltà decrepita.
L’elegantiae arbiter della corte gli insegnava lo stile della neglegentia , la sprezzatura, la noncuranza anche esibita del resto. Nerone ostentava un vistoso non-conformismo, che rompeva con le tradizioni di dignità dei grandi personaggi della vita pubblica romana. Così, per esempio, compariva spesso in pubblico indossando una veste da camera e un fazzoletto annodato intorno al collo, senza cintura e a piedi scalzi: una negligenza che era solo apparente e dissimulava una raffinatezza estrema.
Poco tempo dopo il suo ritorno dalla Grecia fu dichiarato nemico pubblico dai senatori che erano stati umiliati e pure danneggiati nel patrimonio dalla svalutazione delle monete d’oro, da loro accumulate, rispetto ai denari d’argento che erano la moneta della piccola borghesia dell’epoca.
Come vide che lo abbandonavano persino le guardie del corpo, Nerone fuggì a cavallo nel podere di Faonte accompagnato da costui che probabilmente lo aveva denunciato, e da altri due liberti: Epafrodito, un altro fellone, e Sporo, un giovane già fatto castrare dall’imperatore il quale, dopo la morte di Poppea , lo aveva addirittura sposato con un grande corteo nuziale in cui Tigellino fungeva da padre della sposa.
Nelle ultime ore di vita gli venne in mente più volte un verso di una tragedia greca, l’Edipo esule, nella quale il figlio di Giocasta si sente chiamato a morire dalla madre-moglie suicida e dal padre ammazzato da lui. Alla fine Nerone recitava direttamente se stesso.
Quando sentì sopraggiungere dei cavalieri, ordinò ai liberti di ucciderlo. Ma questi si rifiutarono e il disgraziato gridò: “ io solo dunque non ho un amico né un nemico?” Quindi aggiunse che la sua vita era diventata turpe, deforme, e come sentì avvicinarsi il rumore delle cavalcature, citò un verso dell’Iliade: “ un galoppo di cavalli dai piedi veloci mi percuote le orecchie”. Infine si cacciò un ferro in gola aiutato da Epafrodito, l’addetto alle suppliche che gli diede il colpo di grazia.
Bologna 13 dicembre 2024 ore 19, 59 giovanni ghiselli
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