Politica orientale di Nerone. Turpitudini di Tigellino. Il congedo di Seneca.
Intanto Corbulone in Armenia aveva riordinato l’esercito spaventando Vologese, re dei Parti e suo fratello Tiridate re dell’Armenia.
Corbulone scrisse anche dei Commentarii utilizzati da Plinio il Vecchio e conosciuti da Tacito che ne parla in termini elogiativi ( Annales, XIII, 8 e 35).
Nerone aveva cieca fiducia che Corbulone avrebbe soggiogato i barbari e non si sarebbe ribellato a lui.
Corbulone non tradì le aspettative e molti lo detestavano per questa fedeltà. Corbulone conquistò Artaxata, la capitale dell’Armenia. Fu una delle ultime tappe di Annibale[1].
Nerone voleva recarsi in Mesopotamia dove era arrivato Corbulone, ma poiché era caduto mentre faceva un sacrificio (Cassio Dione, quvwn e[pese, 62, 22), non osò mettersi in moto: oujk ejtovlmhsen ejxormh'sai e rimase dov’era.
Cfr. invece Alessandro e Cesare che vanno avanti dopo avere interpretato come buoni i segni considerati cattivi
In ogni caso Tiridate fece atto di sottomissione a Nerone.
Vediamo il rapporto di Nerone con Seneca e Burro (fino al 62). Poi Tigellino
Il filosofo e Burro non si opponevano alle stravaganze dello studium histrionale di Nerone per non dargliela vinta su tutto il resto.
Il popolo gradiva le esibizioni del suo imperatore ut est vulgus cupiens voluptatum, et, si eōdem princeps trahat, laetum (14, 14), siccome è avido di piaceri ed è felice se il principe tira dalla stessa parte.
Un arcanum imperii compreso da Berlusconi dai politici in genere e dai giornalisti
Ma non c’erano solo gare di cocchi bensì anche certamina vitiorum (14, 15), vere e proprie gare di vizi dove non si poteva salvare pudicitia aut modestia aut quicquam boni moris. Burro osservava maerens et laudans, rattristato e plaudente Nerone citaredo. Ma disapprovava in pectore. Siamo tornati al 59.
Inoltre Nerone scriveva poesie rimaneggiate da altri poeti.
Di Nerone ci è arrivato un esametro citato con elogi da Seneca (Nat. Quaest., 1, 5, 6): ut ait Nero disertissime “Colla cytericae splendent agitata columbae”, riluce il collo in movimento della colomba di Venere.
Probabilmente apparteneva al suo poema Troica il cui protagonista era Paride, l’effemminato donnaiolo.
Nerone voleva forgiare un mondo che somigliasse a un gigantesco spettacolo.
A poco a poco sparirono le tradizioni di moderazione sostituite dalla sfrenatezza, una moda venuta da fuori: la gioventù seguiva costumi stranieri gymnasia et otia et turpes mores exercendo, principe et senatu auctoribus, incoraggiata dal principe e dal senato che non solo permettavano i vizi ma addirittura impiegavano la violenza perché i nobili romani si contaminassero sulla scena ut procĕres Romani scaenā polluantur ( Tacito, Annales, XIV, 20), con il pretesto dell’eloquenza e della poesia. Cosa rimaneva se non denudare il corpo e prendere i cesti per il pugilato?
Noctes quoque dedĕcŏri adiectas ne quod tempus pudori relinquatur, si aggiungevano anche le notti perché non si lasciasse un po’ di tempo al pudore. A molti tale licenza piaceva e ricordavano che dall’Etruria già nel 364 erano stati chiamati gli istrioni.
Tacito ricorda che dopo la conquista dell’Asia e della Grecia, a Roma i giochi si erano organizzati con maggiore cura, “nec quemquam Romae honesto loco hortum ad theatralis artes degeneravisse, ducentis iam annis a L. Mummii triumpho qui primus id genus spectaculi in urbe praebuerit” (Annales, XIV, 21), anche se nessun romano nato in una buona famiglia si era abbassato a fare l’attore per duecento anni dal trionfo di Mummio[2] che per primo aveva fatto vedere a Roma quel genere di spettacolo.
I fautori del teatro stabile, in pietra, dicevano che si era provveduto a risparmiare: “ consultum parsimoniae quod perpetua sedes theatro locata sit, fissando una sede stabile piuttosto che costruirne e abbatterne uno ogni anno immenso sumptu.
Mors Burri (62 d. C.) infregit Senecae potentiam (XIV, 52). Cassio Dione afferma che Nerone fece eliminare Burro con il veleno farmavkw/ diwvlese (62, 13). Poi nominò Tigellino che superava tutti per impudenza e crudeltà (ajselgeiva/ te kai; miaifoniva/ , 62, 13, 3). Costui esautorò Rufo, l’altro prefetto.
Tacito presenta Tigellino come il cattivo genio di Nerone, forse ricalcando in parte la coppia Tiberio- Seiano.
Nelle Historiae Tacito ne racconta la fine vergognosa. Tigellino era un uomo dalla giovinezza vergognosa, dalla vecchiaia spudorata foedā pueritia, impudica senectā. Aveva ottenuto il potere che dovrebbe essere premio della virtù, attraverso la scorciatoia dei vizi : “praefecturam vigilum et praetorii et alia praemia virtutum, quia velocius erat, vitiis adeptus ” (Historiae, I, 72), quindi praticò crudeltà e avidità, virilia scelera, vizi maschili. Alla fine tradì Nerone (postremo eiusdem desertor ac proditor ) . Tutti lo odiavano: neroniani e antineroniani. Sotto Galba se la cavò, protetto da un personaggio che aveva influenza su Galba: Tito Vinio che lo aiutò con il pretesto che aveva salvato la figlia di Galba da Nerone, ma questo non certo non per generosità bensì cercando uno scampo per l’avvenire- effugium in futurum-: “quia pessimus quisque diffidentiā praesentium, mutationem pavens, adversus publicum odium privatam gratiam praepărat” (Historiae, I, 72), i peggiori diffidando del presente e temendo mutamenti si premuniscono del favore privato contro l’odio pubblico.
Infatti era odiato dal popolo.
Plutarco dice che quel “galantuomo” aveva fatto grossi doni a Vinio per averne l’appoggio (Vita di Galba 17, 3). Ma non gli bastò. Dovette uccidersi nel 69 sotto Otone mentre era a Sinuessa (Campania) inter stupra concubinarum et oscula et deformes moras sectis novaculā faucibus , tra gli amori illeciti di concubine e baci e vergognose esitazioni tagliatasi la gola con un rasoio, infamem vitam foedavit etiam exitu sero et inhonesto (Historiae, I, 72) deturpò una vita già infame con una uscita ritardata e vituperosa.
Il prefetto del pretorio era il più importante funzionario equestre. Doveva occuparsi della sicurezza del principe.
I nemici di Seneca accusavano il filosofo di avarizia e ambizione e invitavano l’imperatore a liberarsi da quel maestro (exueret magistrum) dato che aveva antenati illustri.
Il congedo di Seneca 62 d. C.
Seneca vide la freddezza del suo allievo e andò a parlargli. Lo ringrazia dei benefici ricevuti nei 14 anni nei quali lo ha educato, per otto dei quali Nerone è stato imperatore: egli in cambio gli aveva dato studia in umbra educata ( Tacito, Annales, 14, 53). Da quegli studi nemmeno brillanti era derivata al maestro claritudo e un grande pretium : “ quod iuventae tuae rudimentis adfuisse videor ”, il fatto che sembro avere assistito l’apprendistato della tua gioventù.
Nerone gli ha dato tantissimo, troppo, rispetto ai suoi meriti.
L’unica giustificazione del maestro è che non doveva opporsi a tali donativi: “una defensio occurrit: quod muneribus tuis obnīti non debui”.
Sembra di sentire Andreotti.
Ma a questo punto la misura è colma: cetera invidiam augent (14, 54). Il resto fa crescere l’invidia.
Quae quidem, ut omnia mortalia, infra tuam magnitudinem iacet, sed mihi incumbit, mihi subveniendum est”, questa invidia è al di sotto della tua grandezza però grava su di me e io ho bisogno del tuo aiuto.
Seneca chiede dunque a Nerone di poter restituire parte delle ricchezze, senza del resto rimanere in miseria: vuole solo revocare in animum il troppo tempo che dedicava alla cura dei giardini e delle ville.
Nerone gli risponde con grande cortesia, da discepolo e da re.
Gli dice che è in grado di improvvisare le risposte grazie a lui: qui me non tantum praevisa sed subita expedire docuisti (14, 55), tu che mi hai insegnato non solo a svolgere argomenti previsti ma anche imprpvvisati.
Tu mi hai educato et tua erga me munera, dum vita suppĕtet, aeterna erunt . Finché ci sarà vita. Quanto alle tue ricchezze e alle ville: casibus obnoxia sunt, sono in balia del caso.
Questo è molto senecano: Dobbiamo aspettarci i tiri mancini della fortuna: faranno meno male. Ogni volta che qualcuno cadrà al tuo fianco dovrai esclamare:”alium quidem percussisti, sed me petisti” (Ad Marciam, 9, 3), ora hai colpito un altro ma hai mirato a me! I nostri beni, materiali e umani, ci sono dati in prestito, nostro è soltanto l'usufrutto: “mutua accepimus. Usus fructusque noster est » (10, 2). Tutto viene trascinato via.
Del resto, continua Nerone, vi sono molti individui non migliori di te che sono più ricchi di te: “Pudet referre libertinos qui ditiores spectantur”, mi vergogno di ricordare i liberti che si vedono più ricchi di te, e tu che sei il più caro non sei certo il più ricco.
La mia giovinezza potrebbe deviare dal retto cammino: io ho ancora bisogno di te. Quindi l’abbraccia (adĭcit complexum), siccome era abituato per natura e cosuetudine velare odium fallacibus blanditiis (14, 56).
Tacito fa il processo alle intenzioni di Nerone in sintonia con il coro dei suoi detrattori.
Avvertenza: lunedì 16 dicembre presenterò questo percorso su Nerone nella biblioteca Ginzburg dalle 17 alle 18, 30. Non riuscirò a presentarlo tutto, come è accaduto con Alessandro Magno e Annibale.
Completerò l’esposizione della mia ricerca in un corso che terrò su questi tre personaggi della storia, della letteratura e del cinema nel corso di 16 ore che terrò nell’Università Primo Levi dal 21gennaio all’11 marzo 2025.
Bologna 7 dicembre 2024 ore 10, 30 giovanni ghiselli
Sempre1649419
Oggi98
Ieri382
Questo mese2669
Il mese scorso11873
[1] Dopo Zama (202) Annibale si recò da Antioco, poi, dopo Magnesia (189 a. C.) a Creta, poi in Armenia, ospite di Artaxias, il signorotto locale per il quale progettò una capitale Artaxata. Voleva rivendicarsi anche l’identità di ktivsth~, urbanista e fondatore di città, come Alessandro Magno.
Quindi A. andò in Bitinia dove fondò Prusa. Partecipò alla guerra (186-183) di Prusia contro Eumene II e vinse una battaglia navale facendo gettare sulle sue navi delle anfore piene di serpi velenose (p. 279). Quindi l’arrivo di Flaminino da Prusia e la sua morte.
[2] 146 a. C. sconfisse gli Achei e saccheggiò Corinto.
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