Torniamo alla congiura pisoniana e vediamone la repressione.
Alla fine decisero di uccidere Nerone il 19 aprile del 65, al termine dei ludi circensi: aditusque erant laetitiā spectaculi (Annales, XV, 53), c’era la possibilità di avvicinarlo nella gaiezza dello spettacolo.
Tacito riferisce la notizia, presente in Plinio il Vecchio (N. H. XV, 53), secondo la quale c’entrava anche Antonia, una figlia di Claudio cooptata da Pisone per attirare il favore del volgo- ad eliciendum vulgi favorem- , quamvis absurdum videretur poiché per lei era troppo rischioso, e aveva paura, né poteva sperare di essere sposata da Pisone che amava la moglie: “nisi si cupīdo dominandi cunctis adfectibus flagrantior est ” (Annales, XV, 53), a meno che sia più ardente la brama del comando di ogni altro affetto.
Infine la congiura venne svelata da un liberto, Milico, servilis animus, il quale uxoris quoque consilium muliebre adsumpserat ac deterius (15, 54), aveva preso il consiglio della moglie, quindi peggiore.
Milico viene accompagnato presso Nerone dal liberto Epaphroditus addetto a libellis, alle suppliche, quello che aiuterà Nerone ad ammazzarsi (Svetonio 49).
Milico accusa il padrone Scevino il quale si difende con una professione di epicureismo e di quasi neronismo: “Enimvero liberales semper epulas struxisse, vitam amoenam et duris iudicibus parum probatam” (A, 15, 55), aveva sempre preparato conviti generosi e condotto una vita piacevole, criticata dai rigidi censori. Erano questi gli stoici del circolo di Musonio Rufo. Anche Petronio era ostile ai severi Catoni (Sat. 132).
Ma sono interrogati altri e vengono fuori i nomi di Pisone e di Seneca. Il filosofo viene denunciato, o perché c’entrava davvero, o per compiacere Nerone qui, infensus Senecae, omnes ad eum opprimendum artes conquirebat (Annales, XV, 56) ostile a Seneca, cercava ogni mezzo per eliminarlo. Milico denuncia anche Antonio Natale che confessa, poi Scevino denunciò altri tra i quali il poeta Lucano che denunciò la madre Acilia. Questa però venne risparmiata da Nerone.
Epicari invece non parlò. Non la piegarono : “ non verbera, non ignes, non ira eo acrius torquentium ne a femina spernerentur “(XV, 57) non le frustate, né il fuoco né l’ira dei carnefici che torturavano con maggiore furia per non venire disprezzati da una donna. Alla fine Epicari si uccise: fulgido esempio di eroismo in una liberta che volle proteggere degli estranei. Anche Cassio Dione ricorda che Epicari non parlò kaivper uJpo; th'~ Tigellivnou deinovthto~ basanisqeivsa (62, 27), sebbene torturata dalla terribilità di Tigellino.
Quindi scattò la repressione. Imperversava Tigellino e anche Fenio Rufo per farsi credere estraneo alla congiura.
Alcuni esortavano Pisone a non desistere prima che crollasse tutto: “cruciatui aut praemio cuncta pervia sunt ” , alla tortura o al premio tutte le vie sono aperte. Pisone doveva rivolgersi al popolo. Ma non osò farlo. Arrivò a casa di Pisone una schiera di reclue, tirones inviati da Nerone che non si fidava dei soldati in carriera. Pisone si uccise e scrisse un testamento pieno di adulazioni a Nerone per amore della moglie quam degenerem et solā corporis formā commendatam, amici matrimonio abstulerat (15, 59), donna di bassa origine, ma bella, che Pisone aveva portato via al talamo di un amico. Si chiamava Satria Galla e il marito Domizio Silo: hic patientiā, illa impudicitiā, Pisonis infamiam propagavēre (15, 59) questo con la sua tolleranza, quella con l’impudicizia avevano infamato il nome di Pisone.
La fine di Seneca
Segurono Plauzio Laterano, console designato, e Seneca.
Andò a cercarlo Gaio Silvano tribuno della coorte pretoria. Era nella sua villa suburbana e stava cenando con la moglie Pompea Paolina. Seneca disse che non c’entrava con la congiura nec sibi promptum in adulationem ingenium (15, 61) e che non era per indole facile all’adulazione, cosa che Nerone sapeva bene. L’imperatore a questo punto decretò la morte del maestro.
Il tribuno, che aveva fatto parte della congiura, andò dal prefetto Fenio che gli consigliò di eseguire gli ordini. Lo racconta Fabio Rustico. Questo storiografo, molto ostile a Nerone, frequentava Seneca e scriveva anche lui, in una lingua “nervosa, colorata, asimmetrica” (Cizek, p. 220).
Ma Silvano non se la sentì e mandò un centurione. Seneca chiese le tavolette del testamento che il centurione gli rifiutò, allora il filosofo dichiara per trestamento che lasciava loro in eredità un solo dono, il più più bello: l’immagine della sua vita.
“imaginem vitae suae relinquere testatur” (XV, 62). Quindi maledice Nerone: dopo la madre e il fratello, non gli restava che uccidere il maestro.
Nerone ordina che Paolina, la quale voleva morire con Seneca, venga salvata per non diventare ancora più odioso. Seneca tardava a morire, pur svenato e avvelenato: alla fine entrò in un bagno caldo e, spruzzandone degli schiavi, disse che offriva quella libagione a Giove liberatore libare se liquorem illum Iovi liberatori (15, 64). Poi passò in un bagno di vapori ardenti e ne fu soffocato. Si diceva che il vero successore di Nerone, se la congiura avesse avuto successo, doveva essere Seneca, non Pisone. Subrio Flavo diceva che Pisone era un infamato al pari di Nerone: “quia ut Nero cithărā, ita Piso tragico ornatu canebat ” (Annales, XV, 65), era dunque un altro istrione
Cassio Dione segue una fonte sfavorevole a Seneca: oJ de; dh; Senevka~ hjqevlhse me;n kai; th;n gunai'ka Pauli'nan ajpoktei'nai (62, 25) voleva far morire anche la moglie Paolina sostenendo che l’aveva convinta a disprezzare la morte e a desiderare il trapasso con lui. Ma Seneca morì prima, e lei riuscì a sopravvivere.
Gallione, fratello di Seneca, viene liquidato alla fine del 65.
Nel 66 è la volta dell’altro fratelllo Anneo Mela, padre di Lucano e amante di Epicari.
Aveva avuto l’ambitio praepostera, ambizione invertita, alla rovescia, per cui non aveva cercato cariche: “ut eques Romanus consularibus potentiā aequaretur” (Annales, XVI, 17) per essere, lui cavaliere romano, uguale in potenza ai consolari.
Poi vengono scoperti anche il co-prefetto Fenio Rufo e il tribuno Subrio Flavo.
Questo prima negò, poi, postquam urgebatur, messo alle strette, confessionis gloriam amplexus, abbracciando la gloia della confessione disse a Nerone che l’aveva amato finché se l’era meritato, e aveva cominciato a odiarloi dopo che si era rivelato quale era: “Odisse coepi, postquam parricida matris et uxoris, auriga et histrio et incendiarius extitisti” (XV, 67). Ipsa rettuli verba, aggiunge Tacito, ho riportato le sue parole.
Sono parole meno famose di quelle di Seneca, ma Tacito le ha riferite poiché era il caso di far conoscere militaris viri sensus incomptos et validos, sentimenti rozzi ma fieri di un militare
Ai soldati che gli scavavano una fossa inadeguata, troppo stretta e poco profonda, il tibuno disse: “ne hoc quidem ex disciplina”, nemmeno questo sanno fare secondo le regole
Anche il centurione Sulpicio Aspro diede prova di coraggio (cfr. supra).
Nerone colpì pure il console Vestino in quanto saepe asperis facetiis inlusus (XV, 68), l’aveva spesso schernito con motteggi pungenti quae ubi multum ex vero traxēre, acrem sui memoriam relinquunt, quando questi contengono gran parte di verità, lasciano uno spiacevole ricordo di sé. Nerone lo fece ammazzare durante un convito, ma risparmiò gli altri convitati terrorizzati: inrīdens Nero satis supplicii luisse ait pro epulis consularibus (15, 59), disse schernendoli che avevano pagato abbastanza caro un banchetto consolare.
Lucano recitò dei versi del suo poema dove narrava di un soldato perito di una morte simile alla sua XV, 70 (Pharsalia III, 635-648).
Nullius vita perempti-est tantā dimissa viā (641-642) la vita di nessuno ucciso non è stata mai congedata per una via tanto grande.
Cassio Dione nracconta la morte di Trasea Peto e di Sorano che non ebbero l’accusa di cospirazione (ejpiboulh'~ me;n aijtivan oujk e[scon, 62, 26), ma morirono o{ti toiou'toi h\san, poiché erano fatti così.
Trasea Peto era odiato poiché non ascoltava Nerone. Dopo essersi tagliato le vene disse: “soi; tou'to to; ai|ma, w\ Zeu' jjeleuqevrie, spevndw ” (62, 26). libo questo sangue a te, o Zeus liberatore.
Una famiglia di oppositori al regime
Trasea era marito di Arria II, figlia di quell’Arria I che aveva incoraggiato Cecīna Peto a uccidersi quando gli era stato ordinato. Condannato a morte nel 42 da Claudio per la sollevazione militare nell’Illirico. La moglie porse al marito il pugnale con cui si era trafitta e disse “Paete, non dolet ” (Plinio, VII, 2).
Arria II e Trasea Peto genero di Cecina Peto ebbero una figlia, Fannia che sposò Elvidio Prisco, che farà opposizione a Nerone, come il suocero. Come sua madre e sua nonna, le due Arrie, Fannia rimarrà fedele al marito Elvidio Prisco e al padre Trasea Peto.
Del circolo di Trasea facevano parte anche Curiazio Materno, autore di tragedie, e Persio. Questo morì a 28 anni nel 62. Scrisse satire moralizzatrici. Il circolo di Trasea voleva un principato tradizionalista di ispirazione augustea. Praticavano la resistenza passiva al regime: Nerone accusò questo gruppo, pur senza fare nomi “patres arguebat quod publica munia desererent ”, accusava i senatori di trascurare i pubblici doveri (Annales XVI, 27).
La città dunque era piena di lutti, ma tutti rendevano grazie agli dèi e si prostravano a baciare le mani di Nerone (XV, 71).
Ma le adulazioni, si legge più avanti, venivano dai senatori: etenim crebro vulgi rumore lacerabatur , l’imperatore veniva invece fatto a pezzi dalle frequenti dicerie del volgo: dicevano che Nerone aveva fatto morire tanti innocenti ob invidiam aut metum (15, 73).
Il tiranno è tormentato dalla paura e dall’invidia
La paura assedia la vita del tiranno, come nota Creonte nell'Oedipus di Seneca:" Qui sceptra duro saevus imperio regit,/timet timentes; metus in auctorem redit " (vv. 703-704), chi tiene crudelmente lo scettro con dura tirannide, teme quelli che lo temono; la paura ricade su chi la incute.
In forma meno sintetica Cicerone fa la stessa denuncia nel De officiis: “Qui se metui volent, a quibus metuentur, eosdem metuant ipsi necesse est” ( II, 24), quelli che vorranno essere temuti, è inevitabile che essi stessi temano quelli dai quali saranno temuti. Cicerone fa gli esempi di Dionigi il vecchio e di Alessandro tiranno di Fere il quale sospettava perfino della moglie, non a torto del resto poiché questa era un’altra furente che infino lo uccise “propter pelicatus suspicionem (II, 25), per sospetto di adulterio. La conclusione di Cicerone è. “Nec vero ulla vis imperii tanta est, quae premente metu possit esse diuturna”, non c’è nessuna forza di potere tanto grande che possa essere durare a lungo sotto la pressione della paura.
La paura che il tiranno ha dei migliori è stata messa in evidenza anche dal cesariano Sallustio:"Nam regibus boni quam mali suspectiores sunt, semperque iis aliena virtus formidulosa est "[1], infatti ai re sono più sospetti i valenti che gli inetti, e la virtù degli altri per loro è sempre motivo di paura. Si ricordi ancora il formidolosum dell'Agricola (39) di Tacito.
Tiranno Erodoto dunque è anche il mouvnarco" raffigurato da Otane nel dibattito sulla migliore costituzione (III, 79-84). Costui invidia i migliori, si compiace dei peggiori, ed è pronto ad accogliere le calunnie. Infatti dai beni presenti gli deriva l' u{bri" , mentre fin dall'origine gli è innato lo fqovno". Siccome ha questi due vizi e[cei pa'san kakovthta, detiene ogni malvagità (III, 80, 4). Dunque egli: "novmaiav te kinevei pavtria kai; bia'tai gunai'ka" kteivnei te ajkrivtou"" (III, 80, 5) sovverte le patrie usanze, violenta le donne e manda a morte senza giudizio. "Così il persiano Otane riassume ciò che è in sostanza il motivo comune fra i Greci per l'opposizione alla tirannide"[2].
Nelle tragedie il tiranno è il paradigma mitico di questo principio.
Bologna 9 dicembre 2024 ore 9, 21 giovanni ghiselli
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