mercoledì 2 aprile 2025

Ifigenia X. Il seno di Ifigenia intensifica la luce del sole.


 

Ifigenia arrivò poco dopo. Dissi: “vedi quanto è depresso questo fondo? Ti  ho portato quaggiù per mostrarti l’immagine della mia decadenza. Non ti conviene amarmi bellezza. Potrei trascinare in basso anche te”.

 

Non si lasciò impressionare: trasse l’aria dentro i polmoni   recuperando la lena perduta, tirò fuori la voce, e, sorridendo, disse:

“Gianni, dammi un bacio, ti prego”

Mi trovai spiazzato di nuovo. Mi stava superando con la forza della sua concretezza e semplicità.

Provai comunque a replicare per metterla in guardia da me:

“Perché vuoi che ti baci? Non hai sentito quello che ti ho detto? Potrei farti del male”.

“Ho sentito-rispose con sicurezza, senza accennare a scomporsi né a stupirsi- ho sentito e ho capito ma non sono d’accordo. Non sarai tu a farmi precipitare in un burrone con te, sarò io piuttosto a trarti su con l’entusiasmo che sento per te e la forza della mia giovinezza: noi saliremo insieme in luoghi alti e illuminati dal sole, com’è ancora la cima di questo colle dove torneremo tra poco tenendoci stretti per mano. Io ho bisogno di te, del tuo metodo, della tua cultura, della tua disciplina, e tu hai bisogno dei miei slanci, della mia ammirazione,  se vuoi comprendere tutto il tuo raro, reale valore e trovare il coraggio di manifestarlo. Hai già avuto l’ammirazione dei tuoi studenti, ora hai il mio amore che può darti  molto di più. Io ti adoro e non posso non fare di tutto per essere contraccambiata”.

 

Riuscìi a non abbracciarla e baciarla, ma non potei evitare di guardarla con ammirazione mentre il suo volto si accendeva di luce amorosa e confidente nel fondo tenebroso di quelle colline. Le ero grato del fatto che mi incoraggiava a essere strano e inusuale, senza sentirmi in difetto per la mia radicale diversità dai più che poi sono i morti, gli stupidi e gli ignoranti.

 

Eppure avevo paura di amarla. Non ero ancora abbastanza inattuale rispetto alla volgarità del tempo. Mi inceppavano troppi pregiudizi contrari alla felicità. Me li avevano inculcati fin dalla nascita in famiglia, nella parrocchia e a scuola. Temevo per giunta di perdere l’appoggio economico delle zie che mi volevano vedere con la testa a posto, cioè fidanzato e poi sposato con una vergine di “buona famiglia”, poi non avevo deciso di congedare le due amanti bolognesi che non amavo punto però mi facevano comodo venendo a letto con me non senza portarmi delle prelibatezze preparate con cura da loro, care amiche oltre che amanti:  dopo il concubitus vagus se ne tornavano a casa lasciandomi in pace.

 

Questa ragazza invece poteva crearmi difficoltà con il marito che avevo visto una volta venire a prenderla ed era grande e grosso come un Ercole: colui poteva spezzarmi le ossa leggere, da ciclista dotato per le salite, oppure lasciare la moglie, e allora avrei dovuto occuparmi anche troppo della sposa abbandonata per colpa mia.  Insomma, chi me lo faceva fare? Tuttavia quella ragazza mi piaceva molto e addirittura l’amavo. Era dai tempi oramai lontani delle tre finniche che non desideravo tanto una donna. Le finniche però erano meno pericolose: sarebbero tornate nella loro terra lontana per sempre: tanto amore per sempre  e tanti saluti!

 

Ifigenia a un tratto interruppe questo mio almanaccare.

“Gianni, fra pochi minuti quaggiù farà buio. Torniamo lassù a prendere l’ultimo sole: accompagnamolo a letto”. Pensai non senza apprensione che volesse poi seguire anche me fino al letto di casa mia.

“Dammi la mano-aggiunse- e tirami su perché sono stanca ma voglio risalire in fretta la china”

Non potei rifiutargliela. La sua piccola mano fremeva: la pelle sottile pulsava sollevata dal sangue.  A mano a mano che si saliva, la luce cresceva. Quando giungemmo in cima alla collina, il sole lassù non era ancora calato del tutto nel nido del suo riposo notturno come un uccello stremato dal volo. Ifigenia con volto raggiante disse: “hai visto gianni che hai avuto la forza di innalzare me e te stesso verso la luce? Io ti amo”

“Anche io pensai”, ma non glielo dissi per le ragioni dell’utile. Ma è un utile falso quello che nega l’amore. Me l’avevano inculcato da quando ero infante e nel campo amoroso ero rimasto puerilmente insensato. Quando portai Ifigenia a Pesaro l’estate successiva, le donne di casa, mamma e zie, dissero in coro: “bella è bella, ma non ha un soldo”.

Una delle zie la presentò a una conoscente come “una cara amica d Gianni” e io non la corressi. Del resto che cosa avrei dovuto dire: “è la mia fidanzata?”. Una cosa orrenda è sempre stata il fidanzamente per me, non solo tragica quanto il matrimonio ma pure ridicola.

 Nemmeno vergine era, e lo sapevano bene le mie nutrici donne  non senza pensare che portavo da loro una poco di buono. Per fare l’amore con lei dovevo farmi ospitare da un ex compagno di scuola e amico perché se avessimo perpetrato l’oscena vergogna del concubito  nella dimora delle sorelle pretificate queste avrebbero cacciato entrambi con ignominia. E mi avrebbero diseredato.

Disonorata e svergognata secondo loro era comunque Ifigenia poiché sapevano che eravamo amanti. Come potevo affidarmi a tale donna?

A qualsiasi donna pensavo io addirittura, data la mala educazione ricevuta in casa e dai preti. Anche ci si era messo: “Sono un popolo nemico le donne, come il popolo tedesco”[1]

Chi mi legge sa che a allora avevo già incontrato due donne tedesche buone, generose, leali: l’amante amica Cornelia di Berlino est e l’amica Damaris di Monaco ma le loro stagioni erano passate oramai e i decenni della mala educazione precedente avevano lasciato un segno molto profondo.

Ci accostammo dunque alla nera Volkswagen poi riprendemmo gli abiti cittadini per cambiarci di nuovo. Allora non usava la tuta in città.

Questa volta ci svestimmo e rivestimmo senza allontanarci l’uno dall’altro e dal cocuzzolo che solo oramai emergeva alla luce.

Ifigenia mi chiese di voltarmi e non guardarla spogliarsi fino a quando non non avessimo fatto  l’amore.

 Mi spostai di pochi metri e mi girai verso il sole occidente.

 Mentre guardavo il santo volto di luce  domandai a voce alta: “Ifigenia quale parte del tuo splendido corpo ti piace di più?”

“Il seno”  rispose con uno piccolo squillo di gloria.

Allora mi  parve di vedere riflesso quel magnifico  seno  nell’ultimo sorriso del sole che ne traeva lucore. Poco dopo il cielo si accese di bagliori rossi. Ero incerto se gridare chicchirichì o intonare Katiusha ma non ebbi la forza né il coraggio nemmeno di questo e tacqui.

 

Bologna 2 aprile 2025 ore 17, 17 giovanni ghiselli

 

p. s

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[1] Il mestiere di vivere, 9 settembre, 1946

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